di Marco Bersani (Attac Italia).
Un contributo per capire la situazione italiana e internazionale.
1. La crisi morde, attanaglia, non dà respiro. Investe l’economia e la società, l’ambiente e le condizioni di vita, la democrazia e le relazioni sociali. La crisi rivela. Scopre la grande menzogna di quaranta anni di modello neoliberista e l’enorme espropriazione sociale messa in atto ai danni delle persone ...
Allora, grazie ad una serie di innovazioni tecnologiche nel campo dell’informatica, della comunicazione e dei trasporti, l’ideologia neoliberale ha raccontato a tutti la favola oggi trasformatasi in incubo: “Facciamo dell’intero pianeta un unico grande mercato, liberalizziamo i mercati finanziari e diamo piena libertà ai movimenti di capitali; togliamo loro ‘lacci e lacciuoli’, legati a concezioni obsolete e sconfitte dalla storia, eliminiamo tutti i vincoli sociali e ambientali, e sarà il libero dispiegarsi del mercato a regolare la società, producendo un’enorme ricchezza che, se anche non eliminerà le diseguaglianze sociali, produrrà a cascata benessere per tutti”.
La favola ha trovato un suo primo momento di impasse già alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, quando, contrariamente a quanto enfaticamente annunciato, le diseguaglianze tra la parte più ricca e quella più povera del pianeta si sono rivelate mai così ampie nella storia dell’umanità, al punto che la stragrande maggioranza della popolazione può essere considerata “fuori mercato”, ovvero talmente impoverita e depredata da non poter accedere neppure al ruolo di consumatore. Contemporaneamente, la parte minoritaria della popolazione,che ha continuato a detenere un potere d’acquisto, si è trovata nella condizione di aver sostanzialmente già comprato quasi tutto, determinando per il modello capitalistico una situazione di sovrapproduzione di merci e una crescente difficoltà nell’allocarle su nuovi mercati.
2. La prima conseguenza di questa impasse è stata l’abnorme espansione dei mercati finanziari: Poiché l’obiettivo di ogni detentore di capitali è quello di ottenere, nel più breve tempo possibile, più denaro di quanto ne avesse prima, in caso di difficoltà nel campo della produzione di merci e di servizi, si apre la via della valorizzazione dentro la sfera finanziaria e del capitale fittizio. Con esiti da incubo che alcuni semplici dati possono ben chiarire : gli scambi di valute all’interno del sistema finanziario hanno oggi superato i 3.000 miliardi di dollari al giorno a fronte di un commercio transfrontaliero di beni di 10.000 miliardi di dollari l’anno; i prodotti finanziari derivati, negoziati sui mercati non regolamentati “over the counter” hanno raggiunto una cifra pari a 12/15 volte l’intero Pil del pianeta.
L’espansione della sfera finanziaria dell’economia, lungi dall’aver provocato la crisi di una presupposta “buona” economia reale, ne ha invece consentito la posticipazione di almeno altri due decenni, fino ai giorni nostri, con lo scoppio della bolla dei subprime e della “crisi” del debito.
3. La seconda conseguenza è stata –ed è tuttora – la necessità da parte del modello capitalistico di mettere a valorizzazione finanziaria l’intera vita delle persone, da una parte smantellando l’insieme dei diritti del lavoro e lo stato sociale , e dall’altra consegnando ai capitali finanziari la natura, i beni comuni e i servizi pubblici locali.
Terreno sul quale si è tuttavia sviluppata una variegata, per quanto frammentata, conflittualità sociale, fino all’esperienza del movimento per l’acqua che, attraverso un lavoro capillare di radicamento territoriale e di sensibilizzazione sociale di massa, ha permesso –con la straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011- di affermare la rottura collettiva della catena culturale che per decenni aveva legato le persone all’idea dell’indiscutibilità del pensiero unico del mercato, facendo irrompere nell’immaginario collettivo la categoria dei beni comuni e nella pratica sociale l’esigenza di un nuovo protagonismo diretto delle persone e di una nuova democrazia.
4. E’ anche per rispondere a questa nuova insorgenza democratica che si è prodotta la sapiente costruzione dello shock del debito e della relativa emergenza. Noncuranti del fatto di come l’innalzamento del debito pubblico sia stato direttamente provocato dalle politiche liberiste messe in atto – drastica riduzione delle imposte sui redditi da capitale, spinta all’elusione ed evasione fiscale come scelta di politica economica orientata al sostegno ai profitti, corruzione generalizzata nella gestione della cosa pubblica - l’aumento del debito pubblico viene spiegato alle popolazioni come una sorta di colpa collettiva per aver abusato di garanzie sociali e di privilegi individuali, l’espiazione dei quali rende inevitabili anni di rigore, di austerità e di sacrifici.
E se fino a cinque anni prima l’ideologia del “privato è bello” parlava ai cuori e alle menti delle persone con l’obiettivo di convincerle, ora si passa al “privato è obbligatorio e ineluttabile”, chiedendo non più un’adesione ideale, bensì una mesta rassegnazione.
5. Se il modello capitalistico, per la sua stessa sopravvivenza, è necessitato a mettere a valorizzazione finanziaria l’intero pianeta e la vita delle persone, diviene evidente come l’etimologia della parola crisis, che significa scelta, ponga ai movimenti sociali la necessità di una nuova consapevolezza sull’insostenibilità strutturale di tale modello e di un salto di qualità nell’azione collettiva.
Si tratta di un passaggio sostanziale dall’intervento a valle dei processi in direzione dell’intervento a monte, ovvero nei luoghi della accumulazione delle risorse e della decisionalità politica.
Non ci si può più accontentare dell’esercizio quotidiano del consumo critico a valle senza rivendicare la critica della produzione e la riconversione ecologica a monte, non si possono più contrastare le politiche di privatizzazione a valle senza rivendicare un altro modello sociale e le relative risorse a monte.
6. Emerge nella sua piena drammaticità la crisi della democrazia. L’attacco delle politiche liberiste e monetariste della Bce e dei poteri forti all’anomalia del continente europeo – lo stato sociale - e ai diritti collettivi in ogni singolo Paese, rende evidente il progressivo divorzio fra capitalismo e democrazia, anche nella sua versione più formale, quella di una democrazia rappresentativa consegnata agli interessi particolaristici di piccoli o grandi potentati.
E, d’altronde, la richiesta comune a tutte le conflittualità sociali – che siano i metalmeccanici della Fiat, la resistenza valsusina al TAV o la battaglia per la ripubblicizzazione dell’acqua - è proprio quella di una nuova democrazia, fondata sulla partecipazione diretta delle persone e sulla collegialità dei luoghi in cui si possa affermare.
La questione della democrazia chiama in causa la relazione fra movimenti e politica, che rappresenta, da Genova 2001 in poi, uno dei nodi irrisolti che attraversa le mobilitazioni sociali in questo Paese. E’ su quel nodo che il movimento di allora si è infranto, non sapendo affrontare in maniera compiuta la dialettica tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, come il disastro del Governo Prodi ha reso evidente.
E’ un nodo particolarmente difficile da sciogliere, perché presenta contraddizioni da qualunque punto lo si affronti: se da una parte il ruolo dei partiti è venuto progressivamente scemando sino a metterne in discussione l’utilità sociale, dall’altra il problema per i movimenti di accumulare forza sociale per vederla ogni volta respinta dal muro di gomma di istituzioni impermeabili fino all’’autismo’ si pone con sempre maggiore evidenza.
7. Occorre prendere atto, dal punto di vista dei partiti, che il filo rosso che, fino agli ’70 del secolo scorso, collegava in piena osmosi l’espressione di bisogni da parte della società, la loro rappresentanza sociale attraverso grandi organizzazioni sindacali e associative e la loro rappresentanza politica attraverso i partiti come organizzazioni di massa, si è definitivamente rotto.
Oggi i partiti sono quasi sempre luoghi autoreferenziali che leggono la realtà come proiezione delle proprie analisi sempre più inadeguate o sedi di interessi particolaristici di piccola bottega o vero e proprio clan.
L’idea che il ruolo dei partiti sia la rappresentanza generale di interessi sociali, di per sé parziali, costringe gli stessi a sottovalutare ogni nuova conflittualità perché non ‘centrale’ e, nello stesso tempo, a sottovalutare l’esigenza di un protagonismo sociale non mediato da istanze che rischiano di anestetizzarne la tensione radicale.
Occorre tuttavia contemporaneamente prendere atto di un’ancora insufficiente elaborazione da parte dei movimenti sociali in merito alla complessità del tema, spesso dagli stessi risolto o con il definitivo approdo ad un’antipolitica accompagnata da una poco realistica autosufficienza dei movimenti, sia specularmente attraverso spericolate operazioni di incursione dentro la politica istituzionale, nelle diverse forme della cooptazione, contrattazione politicista di posti o nell’idea di soggetti politici ‘nuovi’, ma già direttamente incamminati sulla strada della scorciatoia politico-elettoralistica, con gli inevitabili corollari di delega, leadership carismatica e contrattazione nel mercato della rappresentanza.
Il tema in tutta evidenza c’è e rimane sul piatto, ma entrambe le strade rischiano solo di aggravarne le conseguenze.
Perché è sui nodi della riapertura di spazi pubblici della decisionalità politica che va riaperto il confronto e la conflittualità politica e sociale : dentro l’espropriazione di diritti e beni comuni portata avanti dai mercati finanziari, il ruolo dello Stato non si riduce quantitativamente, bensì viene stravolto qualitativamente.
Se il pubblico non può più essere la sede della programmazione economica e sociale, né il luogo che dispensa servizi e garantisce diritti collettivi, il suo ruolo non può che verticalizzarsi assumendo i connotati dell’autoritarismo e del controllo sociale.
8. Rompere questa spirale significa aprire una vasta mobilitazione per la riappropriazione sociale dei beni comuni, della finanza e della democrazia, ovvero ragionare sulla costruzione di una coalizione sociale plurima che dal livello locale a quello nazionale e internazionale ponga la necessità di ricostruire luoghi pubblici, trasparenti e collettivi dentro i quali si prendano le decisioni e si destinino le risorse sociali.
Occorre sottrarre al mantra della redditività finanziaria i beni comuni naturali e sociali che sono essenziali alla vita e alla dignità della stessa; occorrono politiche di controllo democratico dei capitali finanziari e di risocializzazione del credito, a partire dall’enorme patrimonio collettivo raccolto dalla Cassa Depositi e Prestiti; occorre una lotta contro le politiche monetariste europee e l’attuale patto di stabilità per sottrarvi tutte le risorse destinate agli investimenti per i beni comuni e il welfare collettivo, occorre prendere di petto l’artificio del debito, rimettendone in discussione i presupposti e i pagamenti.
Ma per poter fare tutto ciò, serve una grande battaglia per la riapertura degli spazi di democrazia a tutti i livelli, dagli enti locali di prossimità allo spazio sociale europeo.
La costruzione di una grande coalizione sociale che veda al suo interno movimenti sociali, forze sindacali, associative e culturali, forze politiche diviene il primo passo per un ‘assedio’ ai luoghi oggi impermeabili della decisionalità politica e per il riconoscimento della necessità di una democrazia partecipativa plurilivello come humus di un nuovo modello economico e sociale.
Una coalizione che non finalizzi la mobilitazione sociale all’approdo nelle aule parlamentari di qualche rappresentanza più o meno carismatica, ma che abbia come scopo l’allargamento della partecipazione e degli spazi di democrazia e che, solo con questa lente, valuti di volta in volta senso e possibilità di una presenza istituzionale.
Perché occorre disarmare i mercati per poter parlare di futuro. |
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