Che scherzi fa la crisi… Ricordate Giuseppe Vegas, berlusconiano della prima ora e viceministro dell’economia con Giulio Tremonti? Ora è presidente della Consob, autorità di controllo sulla borsa italiana. Ieri ha parlato all’interno di Piazza Affari seminando una serie di considerazioni decisamente eccentriche rispetto al suo ruolo e all’area politico-culturale di provenienza. Un esempio per tutti: dal suo punto di osservazione ha notato che cresce «l’insofferenza nei confronti della ‘dittatura dello spread’», perché «affidare il nostro futuro a un numero costituisce anche un modo di abdicare ai nostri doveri». I quali discendono «da un fondamentale diritto: quello di partecipare democraticamente all’assunzione delle decisioni che ci riguardano».
Impossibile non concordare. Ma suona strano in bocca a chi – da governante – trovava normalissimo che (sotto Marchionne, in Fiat) i lavoratori non potessero decidere sul loro contratto di lavoro tramite referendum, né scegliersi il delegato o il sindacato cui iscriversi. Ma le elezioni in Grecia, Francia, Italia e persino in Germania dicono che non è salutare continuare su quella strada. «La gente» non ci sta. E quindi diventa obbligatorio far capire di aver capito, suggerendo che «è giunto il momento di affiancare alle manovre di risanamento scelte che possano garantire una crescita stabile».
Certo, può suonare ancora più strano che un ex frequentatore della «finanza creativa» tremontiana si lasci scappare giudizi come «l’innovazione finanziaria può essere positiva, ma legislatori e autorità hanno il dovere di evitare che si trasformi in un meccanismo che brucia i risparmi delle famiglie». O che contesti un’eccessiva «ugualianza» nelle sanzioni verso chi ha messo in atto comportamenti di mercato poco o molto pericolosi per il loro funzionamento; fino a decidere che l’attività di vigilanza del suo istituto deve essere indirizzata «verso i comportamenti maggiormente dannosi per l’intregrità dei mercati», concentrando perciò «l’azione repressiva» sulle condotte illecite «più rilevanti». In termini di soldi spostati, vien da pensare.
La giornata era anche giusta. Il disastro in Jp Morgan rivela infatti che il mercato dei «derivati» – completamente privo di regolamentazione, con scambi sempre over-the-counter – funziona come moltiplicatore dei rischi invece che come loro «gestione competente». E, in generale, che le politiche di contrasto della crisi fin qui messe in atto l’hanno semplicemente aggravata.
Eppure i mercati non riescono a cambiare logica, visto che la loro unica molla è il profitto a breve termine. Ieri il crollo delle piazze finanziarie è stato consistente e globale. Molti commentatori l’hanno attribuito all’impossibilità di formare un governo in Grecia, e quindi alla sempre più probabile uscita di Atene dall’euro. Ma i più accorti guardavano in realtà all’esito delle elezioni in Nord Reno Westfalia (oltre che a Jp Morgan), le quali – decretando una batosta di proporzioni inattese per la coalizione della Merkel – mette in seria discussione la governance europea per come si era fin qui definita.
Sarkozy è andato, e Hollande parte con l’obiettivo di rivedere molte scelte, a partire dal fiscal compact e dall’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione. Ora la Merkel – lo vedono proprio tutti – è molto più debole; e non si può pensare di governare 17 paesi con i diktat della Bundesbank o quelli della Bce. È saltata insomma la «linea Maginot» del rigore a tutti i costi, di cui fin qui aveva beneficiato la sola Germania, messa in condizione di potere rifinanziare il proprio debito pubblico a costo zero e guadagnando su quello altrui tramite le proprie banche. È questa la notizia davvero pessima per gli «investitori istituzionali» (quelli dai grandi numeri), che hanno bisogno di «certezze» per potersi lanciare in scommesse folli.
I numeri sono impietosi. Le borse europee sono andate tutte molto male, con ovviamente i poveri greci all’ultimo posto (4,27%) e una lista di perdite che sembra un cimitero (Piazza Affari a -2,74, addirittura «in risalita» dopo aver ceduto oltre il 3,5% durante la seduta; e poi Madrid -2,66, Londra -1,97, Parigi -2,29 e Francoforte -1,94). Ma nemmeno Wall Street poteva sorridere (la «squadra» licenziata da Jp Morgan era non a caso composta dagli speculatori contro l’Europa): a due ore dalla chiusura perdeva lo 0,7%, ma era partita anche peggio.
In crisi netta l’euro, sceso al di sotto dell’1,29 contro il dollaro Usa. Ma la misura sull’andamento dell’economia è come sempre dato dal prezzo del petrolio. In discesa (a 94,5 dollari al barile per il Wti, -1,6%). Perché se l’economia reale va male, si consuma meno energia.
Impossibile non concordare. Ma suona strano in bocca a chi – da governante – trovava normalissimo che (sotto Marchionne, in Fiat) i lavoratori non potessero decidere sul loro contratto di lavoro tramite referendum, né scegliersi il delegato o il sindacato cui iscriversi. Ma le elezioni in Grecia, Francia, Italia e persino in Germania dicono che non è salutare continuare su quella strada. «La gente» non ci sta. E quindi diventa obbligatorio far capire di aver capito, suggerendo che «è giunto il momento di affiancare alle manovre di risanamento scelte che possano garantire una crescita stabile».
Certo, può suonare ancora più strano che un ex frequentatore della «finanza creativa» tremontiana si lasci scappare giudizi come «l’innovazione finanziaria può essere positiva, ma legislatori e autorità hanno il dovere di evitare che si trasformi in un meccanismo che brucia i risparmi delle famiglie». O che contesti un’eccessiva «ugualianza» nelle sanzioni verso chi ha messo in atto comportamenti di mercato poco o molto pericolosi per il loro funzionamento; fino a decidere che l’attività di vigilanza del suo istituto deve essere indirizzata «verso i comportamenti maggiormente dannosi per l’intregrità dei mercati», concentrando perciò «l’azione repressiva» sulle condotte illecite «più rilevanti». In termini di soldi spostati, vien da pensare.
La giornata era anche giusta. Il disastro in Jp Morgan rivela infatti che il mercato dei «derivati» – completamente privo di regolamentazione, con scambi sempre over-the-counter – funziona come moltiplicatore dei rischi invece che come loro «gestione competente». E, in generale, che le politiche di contrasto della crisi fin qui messe in atto l’hanno semplicemente aggravata.
Eppure i mercati non riescono a cambiare logica, visto che la loro unica molla è il profitto a breve termine. Ieri il crollo delle piazze finanziarie è stato consistente e globale. Molti commentatori l’hanno attribuito all’impossibilità di formare un governo in Grecia, e quindi alla sempre più probabile uscita di Atene dall’euro. Ma i più accorti guardavano in realtà all’esito delle elezioni in Nord Reno Westfalia (oltre che a Jp Morgan), le quali – decretando una batosta di proporzioni inattese per la coalizione della Merkel – mette in seria discussione la governance europea per come si era fin qui definita.
Sarkozy è andato, e Hollande parte con l’obiettivo di rivedere molte scelte, a partire dal fiscal compact e dall’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione. Ora la Merkel – lo vedono proprio tutti – è molto più debole; e non si può pensare di governare 17 paesi con i diktat della Bundesbank o quelli della Bce. È saltata insomma la «linea Maginot» del rigore a tutti i costi, di cui fin qui aveva beneficiato la sola Germania, messa in condizione di potere rifinanziare il proprio debito pubblico a costo zero e guadagnando su quello altrui tramite le proprie banche. È questa la notizia davvero pessima per gli «investitori istituzionali» (quelli dai grandi numeri), che hanno bisogno di «certezze» per potersi lanciare in scommesse folli.
I numeri sono impietosi. Le borse europee sono andate tutte molto male, con ovviamente i poveri greci all’ultimo posto (4,27%) e una lista di perdite che sembra un cimitero (Piazza Affari a -2,74, addirittura «in risalita» dopo aver ceduto oltre il 3,5% durante la seduta; e poi Madrid -2,66, Londra -1,97, Parigi -2,29 e Francoforte -1,94). Ma nemmeno Wall Street poteva sorridere (la «squadra» licenziata da Jp Morgan era non a caso composta dagli speculatori contro l’Europa): a due ore dalla chiusura perdeva lo 0,7%, ma era partita anche peggio.
In crisi netta l’euro, sceso al di sotto dell’1,29 contro il dollaro Usa. Ma la misura sull’andamento dell’economia è come sempre dato dal prezzo del petrolio. In discesa (a 94,5 dollari al barile per il Wti, -1,6%). Perché se l’economia reale va male, si consuma meno energia.
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