di SIMONA DE SIMONI - uninomade -
Si dice che l’estate sia il tempo delle letture leggere e a questo diktat sembrano piegarsi un po’ tutti producendo un peggioramento generale del già disastroso panorama giornalistico e “gossipparo” all’italiana. A questo fenomeno, che abusa della leggerezza trasformandola in stupidità, si accosta un’impennata di sessismo su cui vale la pena riflettere. L’incipit materiale per queste note estive lo offre la copertina del numero corrente di L’espresso: una giovane donna bruna, immersa nell’acqua marina fino alla coscia, orientata verso l’orizzonte ammicca al lettore-spettatore mediante una torsione del busto di centoottanta gradi circa. La sequenza corporea, dunque, mostra: sedere, seno destro di profilo, volto incorniciato dai capelli lunghi e scuri. Sul gluteo destro, grazie al costume leggermente scostato, si scorge – come tatuata – la bandiera greca. Ai piedi dell’immagine, in grande, la scritta “Un tuffo nella crisi” seguita da una breve didascalia esplicativa che informa il “lettore” sul contenuto del giornale.Perché un corpo di donna anche per parlare di crisi? Per rispondere alla domanda bisogna togliersi dalla testa che il problema sia irrilevante, ovvero che l’immagine sia letteralmente insignificante. Per provare a comprendere la portata semantica e politica della figura, inoltre, è necessario sgomberare il campo anche dalle obiezioni di taglio meramente moralistico che tendono a rigettare l’immagine in quanto semplicemente inopportuna e offensiva. In ogni caso, non è certo la prima volta che sul corpo di una donna transita un messaggio politico più o meno esplicito. E se, una galleria di metafore femminili potrebbe narrare con efficacia la storia italiana e non solo, anche la crisi sembra richiedere un corpo-metafora adeguato, eventualmente cangiante e camaleontico. La sua versione estiva assume così le sembianze della “bellezza mediterranea” al mare, richiamando la tradizionale sovrapposizione tra il corpo delle donne e la terra.
La strategia comunicativa non è nuova. Spot vacanzieri di vario genere vi fanno ricorso da tempo: crociere, escursioni, villaggi vacanze, etc… sono spesso accostati al volto e al corpo di una donna dai tratti meridionali/mediterranei con l’invito a scoprire i segreti e misteri della terra messa in vendita o meglio in affitto, data la temporaneità delle imprese coloniali estive correnti. Coloniale, infatti, è l’immaginario mobilitato e, se la donna è il segno con cui si offre la terra, il messaggio ammicca alla possibilità che il vettore muti di segno, che la terra – una volta raggiunta – offra il corpo di una donna in carne e ossa.
Il marketing – si sa – è cinico e spietato, c’è poco da stupirsi. Ma cosa significa se tutto questo bagaglio simbolico è chiamato in causa per parlare della crisi economica e non per vendere una crociera? Naturalmente tra il linguaggio politico e quello del consumo non esiste un argine rigido e le contaminazioni non rappresentano di per sé una novità o un problema. Ma, ammessa la considerazione generale, la domanda non può restare inevasa poiché ogni volta che la politica forgia una metafora femminile definisce i suoi tratti paradigmatici. Un breve esercizio ermeneutico, dunque, può fornire qualche strumento di difesa contro le retoriche mainstream sulla crisi e, eventualmente, contribuire ad orientare contro-narrazioni a vantaggio delle mobilitazioni a venire.
Si torni con la mente all’immagine della donna-crisi proposta da L’espresso e descritta per sommi capi più sopra. Il primo messaggio, banale, è che la diagnosi della crisi in versione da spiaggia è donna. L’articolo serio avrebbe richiesto come minimo una foto di Monti in giacca, cravatta e carte alla mano, mentre per quello idiota va benissimo una bella donna in costume. Una strizzata d’occhio al pubblico da ombrellone, così rassicurato che la vacanza non sarà ammorbata più di tanto dalla politica. Il secondo messaggio, invece, è una sorta di esorcismo: eccola lì la crisi, figura esotica e misteriosa, persino pericolosa come si confà alla bellezza femminile, ma comunque distante perché noi non faremo la fine della Grecia. Da questo punto di vista, nell’immagine sembra risuonare una citazione – certamente involontaria come accade con gli stereotipi – della figura di Ulisse e le Sirene: mito della virtù virile che resiste a una tentazione distruttrice e femminea. Gli spettatori-lettori, messi al sicuro dall’austerity, possono dunque guardare con sereno distacco i dissoluti paesi della bella vita andare alla deriva. Ne godono certo i piaceri – come l’astuto Ulisse – ma solo per tornare presto alla vita di sempre. Che si possa vivere in altro modo, è un’ipotesi nemmeno da contemplare. È interessante osservare come nella dinamica dell’immagine, grazie all’esotismo della figura femminile, il Mediterraneo della crisi risulti alieno e distante, uno spazio politicamente determinato dalla separazione dall’Europa del centro-nord. Grecia e Spagna diventano, così, paesi di un “nuovo sud” a cui l’Italia cerca di non appartenere consegnando all’evidenza la politicità di ogni configurazione geografica.
Figura del disimpegno e dell’esorcismo, quel corpo di donna – con tutta la violenza che ne consegue – è anche metafora di facile accessibilità. Un mare, una donna, e l’invito a tuffarcisi dentro. Oltre alla generica allusione alla disponibilità del corpo femminile in quanto tale, si scorge, più specificamente, un’allusione alla possibilità di dominare la situazione politico-economica da parte della classe dirigente al potere. La crisi come vizio di popoli viziosi (popoli-donna) anziché come prodotto del capitalismo, infatti, sarà risolta grazie alla perizia dei vari tecnici di governo. Banalizzazione, esorcismo e, ora, una promessa a cui, tuttavia, si affianca una minaccia. Una seconda allusione particolarmente aggressiva, infatti, pervade l’immagine e rimanda alla disponibilità dei corpi in generale in tempo di crisi. Non solo il divenire disponibile delle donne declassate dei paesi impoveriti come potenziale forza lavoro principalmente sessuale e domestica, ma una più generale sfruttabilità della popolazione tout court.
Infine – anche se i simboli sono forse sempre più ricchi di quanto si possa esplicitare – è utile sottolineare l’utilizzo della figura femminile per rimuovere la presenza attiva dei soggetti reali coinvolti dalla crisi. Un corpo senz’anima, verrebbe da dire, a patto di togliere all’anima ogni connotato religioso, mistico o trascendente. Un corpo che non soffre, non gioisce, non desidera e non lotta. Un corpo impolitico rappresentato attraverso il corpo generico di una donna. La figura ritratta, infatti, incarna il corpo della Grecia (la bandiera stampata sul gluteo lo esplicita e la tipica equazione donna-nazione rafforza la suggestione) e, al contempo, il corpo generico di una desoggettivazione strumentale e goffamente ideologica. A quest’ultima fanno da contraltare immaginari e azioni di donne e uomini reali e comuni che la retorica patinata non può che tacere. Gli stereotipi e la loro violenza, dunque, non sono separabili da un contesto di critica e di lotta ampio e generale dove il corpo continua a porsi come il nodo in cui s’intrecciano istanze, bisogni, desideri e differenze. L’esercizio costante di sottrazione del corpo ai dispositivi di sfruttamento discorsivo e simbolico appare, dunque, come una pratica di lotta sempre indispensabile.
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