In occasione del Primo Maggio, controlacrisi ha intervistato un lavoratore precario, ora disoccupato, che vive a Roma, Luca Cerra.
Un Primo Maggio che la tradizione vuole ancora dedicato al lavoro cozza contro una realtà costituita da tanto “non-lavoro”, ovvero dal dilagare del precariato.
"E’ chiaro che il tema del lavoro rimanda a una tradizione che ormai è superata. Il tema del lavoro è cambiato, bisogna che ce ne convinciamo tutti", sottolinea Luca. "Il nodo fondamentale resta quello delle condizioni lavorative, dei compensi e dei diritti. Lavorare da precario e accettare qualsiasi impiego non è propriamente un risultato per una società che si pregia del titolo di paese industrializzato. Il lavoro ormai è solo uno strumento per sopravvivere".
Il primo maggio è una festa che identifica fortemente l’organizzazione sindacale. Eppure è proprio lì che c’è un nodo da sciogliere.
Mi ricordo gli anni settanta e le lotte dei lavoratori, le loro importanti conquiste. Ho percepito cosa potesse significare. E’ stata una delusione cocente poi dover accettare che non hai diritto ad essere rappresentato. Ogni rivendicazione, anche minima, deve essere portata avanti da solo o con chi condivide la tua stessa condizione. E’ una cosa brutta che ti fa sentire tutta la tua debolezza contrattuale nei confronti del datore del lavoro, e quindi il suo potere di ricatto. E il fatto di non trovare le organizzazioni sindacali dalla tua parte è difficile da digerire. Si capisce, perché rispondono a determinati criteri che oggi non sono più veri Quando nello statuto del sindacato leggo scritto che tutela i lavoratori e non gli iscritti al sindacato e poi vedere che non solo non difende i lavoratori ma nemmeno i più deboli, mi chiedo se non siamo in presenza di una corporazione. Anche chi, tra i precari, ha contratti che consentono l’acceso al sindacato poi si ritrova in un sindacato che è una corporazione di fatto, chiusa nelle burocrazie e preda degli interessi di piccolo cabotaggio.
Cosa ti ha insegnato la tua esperienza di lotta?
La mia esperienza di lotta non mi induce a un grande ottimismo. L’unico modello che è utile a far uscire le rivendicazioni passa per un’autorganizzazione. Una autorganizzazione che parte da chi ha più buona volontà a far uscire il disaggio e cerca di creare una rete. La mancanza di punti di riferimento forti come poteva essere il sindacato scoraggia molti, però. Chi sta al potere sa benissimo come dividere i precari. E usa tutta la sua forza e il suo potere per farlo. Occorre creare nuovi modelli di aggregazione e di rete. Tenere le differenze e riuscire nello stesso tempo a dare rappresentanza a chi non ce l’ha. La dimensione della lotta rappresenta comunque una grande speranza Pur con tutte le difficoltà e il pessimismo, nei momenti in cui si riesce a costruire qualcosa per quanto minimo a farsi sentire la fiducia cresce. Poi viene facilmente castrata perché le risposte della controparte pesano per la loro negatività. Ma anche solo il fatto di mettersi insieme e fare un comunicato già dà una grande speranza. Anche perché tutti vivono la propria condizione come una colpa. E lavorare per migliorare qualcosa serve e sconfiggere questo sentimento.
La politica non è estranea a questa critica. Cosa pensi?
E’ chiaro che la politica deve dare delle risposte. A me sembra evidente che fino ad oggi ha risposto ad esigenze che vanno nella direzione di abbassamento del costo del lavoro. A livello più diretto va bene qualsiasi politica posto che la nostra società ci impone certe scelte di politica economica comunque la politica una qualche tipo di risposta la dovrebbe dare ad una società ridotta in questo stato comatoso. Mi sembra che il percorso per un reddito garantito, per esempio, sia sicuramente una battaglia importante. L’Italia è rimasta molto indietro. Passare da un reddito mensile a zero vuol dire non poter pagare più le bollette e non poter più vivere. E’ una questione di dignità dare il diritto di vivere a chiunque.
Se potessi scrivere un appello alla sinistra cosa scriveresti?
Direi di tornare nei luoghi dove si lavora ed essere presenti nelle lotte dei lavoratori e dei precari. Quello che vedo io è che sia la sinistra in generale sia quella radicale che l’altra sono partiti molto verticistici e un po’ intellettualoidi che vengono a chiederti il voto ma si tengono lontani quando i lavoratori hanno più bisogno di loro.
Un Primo Maggio che la tradizione vuole ancora dedicato al lavoro cozza contro una realtà costituita da tanto “non-lavoro”, ovvero dal dilagare del precariato.
"E’ chiaro che il tema del lavoro rimanda a una tradizione che ormai è superata. Il tema del lavoro è cambiato, bisogna che ce ne convinciamo tutti", sottolinea Luca. "Il nodo fondamentale resta quello delle condizioni lavorative, dei compensi e dei diritti. Lavorare da precario e accettare qualsiasi impiego non è propriamente un risultato per una società che si pregia del titolo di paese industrializzato. Il lavoro ormai è solo uno strumento per sopravvivere".
Il primo maggio è una festa che identifica fortemente l’organizzazione sindacale. Eppure è proprio lì che c’è un nodo da sciogliere.
Mi ricordo gli anni settanta e le lotte dei lavoratori, le loro importanti conquiste. Ho percepito cosa potesse significare. E’ stata una delusione cocente poi dover accettare che non hai diritto ad essere rappresentato. Ogni rivendicazione, anche minima, deve essere portata avanti da solo o con chi condivide la tua stessa condizione. E’ una cosa brutta che ti fa sentire tutta la tua debolezza contrattuale nei confronti del datore del lavoro, e quindi il suo potere di ricatto. E il fatto di non trovare le organizzazioni sindacali dalla tua parte è difficile da digerire. Si capisce, perché rispondono a determinati criteri che oggi non sono più veri Quando nello statuto del sindacato leggo scritto che tutela i lavoratori e non gli iscritti al sindacato e poi vedere che non solo non difende i lavoratori ma nemmeno i più deboli, mi chiedo se non siamo in presenza di una corporazione. Anche chi, tra i precari, ha contratti che consentono l’acceso al sindacato poi si ritrova in un sindacato che è una corporazione di fatto, chiusa nelle burocrazie e preda degli interessi di piccolo cabotaggio.
Cosa ti ha insegnato la tua esperienza di lotta?
La mia esperienza di lotta non mi induce a un grande ottimismo. L’unico modello che è utile a far uscire le rivendicazioni passa per un’autorganizzazione. Una autorganizzazione che parte da chi ha più buona volontà a far uscire il disaggio e cerca di creare una rete. La mancanza di punti di riferimento forti come poteva essere il sindacato scoraggia molti, però. Chi sta al potere sa benissimo come dividere i precari. E usa tutta la sua forza e il suo potere per farlo. Occorre creare nuovi modelli di aggregazione e di rete. Tenere le differenze e riuscire nello stesso tempo a dare rappresentanza a chi non ce l’ha. La dimensione della lotta rappresenta comunque una grande speranza Pur con tutte le difficoltà e il pessimismo, nei momenti in cui si riesce a costruire qualcosa per quanto minimo a farsi sentire la fiducia cresce. Poi viene facilmente castrata perché le risposte della controparte pesano per la loro negatività. Ma anche solo il fatto di mettersi insieme e fare un comunicato già dà una grande speranza. Anche perché tutti vivono la propria condizione come una colpa. E lavorare per migliorare qualcosa serve e sconfiggere questo sentimento.
La politica non è estranea a questa critica. Cosa pensi?
E’ chiaro che la politica deve dare delle risposte. A me sembra evidente che fino ad oggi ha risposto ad esigenze che vanno nella direzione di abbassamento del costo del lavoro. A livello più diretto va bene qualsiasi politica posto che la nostra società ci impone certe scelte di politica economica comunque la politica una qualche tipo di risposta la dovrebbe dare ad una società ridotta in questo stato comatoso. Mi sembra che il percorso per un reddito garantito, per esempio, sia sicuramente una battaglia importante. L’Italia è rimasta molto indietro. Passare da un reddito mensile a zero vuol dire non poter pagare più le bollette e non poter più vivere. E’ una questione di dignità dare il diritto di vivere a chiunque.
Se potessi scrivere un appello alla sinistra cosa scriveresti?
Direi di tornare nei luoghi dove si lavora ed essere presenti nelle lotte dei lavoratori e dei precari. Quello che vedo io è che sia la sinistra in generale sia quella radicale che l’altra sono partiti molto verticistici e un po’ intellettualoidi che vengono a chiederti il voto ma si tengono lontani quando i lavoratori hanno più bisogno di loro.
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