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Pubblichiamo un articolo di Sergio Cesaratto, docente all’Università di Siena, apparso sul quotidiano argentino Pagina12 e, in inglese, sul blog Nakedkeynesianism col titolo originale “L’inutile austerità europea”. Sempre di Cesaratto segnaliamo un articolo, scritto con Lanfranco Turci, pubblicato ieri sull’Unità, anch’esso sulla crisi europea e i suoi recenti sviluppi.
La crisi finanziaria europea non è finita, solo agli inizi. Nel lungo termine la tragedia greca appare come un episodio minore. Non è difficile per gli argentini capire l’origine della crisi, anche se è sorprendente perché una delle regioni più ricche del mondo e un punto di riferimento globale per la crescita accompagnata dall’equità sociale si sta suicidando con l’adozione di misure di austerità che aggravano la crisi.
L’Unione monetaria europea (UEM) è nata da un progetto politico francese che ha cercato di legare il destino della Germania post-unificazione all’Europa occidentale. In caso contrario, la nuova Germania avrebbe guardato ad est, come ha fatto in ogni caso, per diventare il centro di produzione manifatturiera dell’Europa orientale, verso cui ha decentrato la produzione di minor valore aggiunto. Con la partecipazione all’UEM Italia e altri paesi puntarono a importare la disciplina fiscale, monetaria e del lavoro tedesco.
Gli economisti americani hanno avvertito gli europei che l’UEM non era un’ “area monetaria ottimale”, perché era molto eterogenea in termini economici, culturali e linguistici. Le élite europee videro queste critiche come un complotto americano per impedire la nascita di una nuova moneta internazionale. Qualunque cosa fosse, quello che è successo tra il 1999 e il 2008 è una storia familiare per gli argentini. La liberalizzazione finanziaria e la fissazione del tasso di cambio generarono enormi flussi finanziari dal “core” Europa – Germania, Olanda, Austria e Finlandia – alla “periferia”, fondamentalmente Spagna, Grecia e Irlanda. In senso stretto, Francia e Italia non appartengono a entrambi i gruppi, l’industria manifatturiera italiana è seconda solo dopo la Germania e questo dimostra le differenze tra Italia e Spagna. I flussi di capitale condussero ad un boom nel settore delle costruzioni in Irlanda e Spagna e spinsero il governo alla prodigalità in Grecia. Ciò ha portato ad una crescita effimera in quei paesi, accompagnata da un’inflazione relativamente elevata e la conseguente perdita di competitività. I conti con l’estero sono diventati negativi e si è accumulata una quantità enorme di debito, in particolare con la Germania.
Asimmetricamente, dalla fine degli anni ’90, sotto il governo socialdemocratico del cancelliere Schroeder, la Germania ha adottato una politica mercantilista di moderazione salariale e fiscale insieme alla flessibilità del lavoro. Da un lato comprimeva la domanda interna e l’inflazione e, dall’altro, finanziava la domanda aggregata in periferia. Questo è diventato lo sbocco del modello di crescita tedesco basato sulle esportazioni.
L’unico problema è che la periferia ha accumulato enormi quantità di debito estero senza avere la possibilità, eventualmente, di porre fine allo squilibrio svalutando le monete, come fece l’Argentina nel 2002, o l’Italia nel 1992, dopo gli squilibri creati dal Sistema monetario europeo negli anni ’80. Alla fine del 2009, dopo l’esplosione della crisi in America e la scoperta che il governo greco (buon amico di Angela Merkel) aveva mentito sui conti, i mercati finanziari hanno cominciato a dubitare della solvibilità delle economie periferiche. La crisi ha colpito Grecia, Irlanda e Portogallo nel 2010 e, nel 2011, la terza e la quarta economia più grande nell’UEM, Spagna e Italia. La conseguenza di entrate fiscali in calo e dei salvataggi pubblici del settore bancario in paesi come l’Irlanda e la Spagna è stata che i problemi di debito privato sono diventati una questione di debito pubblico. L’enorme debito pubblico italiano era molto più vecchio e sostenibile, ma per un paese abituato a difendere la competitività della propria industria manifatturiera attraverso la svalutazione della lira, l’UEM è stata un chiaro disastro, sicché i mercati hanno cominciato a dubitare anche della solvibilità italiana.
La risposta europea è stata caratterizzata storicamente per essere sistematicamente “troppo poco, troppo tardi”. I fondi di emergenza europei sono stati concepiti per evitare il default dei governi dei paesi periferici. Tuttavia, c’è un lato negativo: alcune di queste risorse provengono dagli stessi paesi che hanno bisogno del finanziamento, un circolo vizioso. Contro la volontà della Germania, la Banca centrale europea (BCE) ha attuato un intervento cauto di sostegno al debito sovrano periferico, appena sufficiente per evitare il collasso dell’UEM e non per mantenere a livelli sostenibili i tassi di interesse su questi debiti (i due membri tedeschi del comitato esecutivo della BCE si sono dimessi in segno di protesta nel 2011).
I tedeschi sono contrari a che la BCE agisca come prestatore di ultima istanza per i paesi e le banche, ossia la ragione principale per cui le banche centrali sono stati create. L’idea di una banca centrale che coopera democraticamente con la politica fiscale è stata una parte della recente riforma della Banca centrale argentina. Ma i leader tedeschi, il governo democristiano e l’opposizione socialdemocratica, condividono, consciamente o inconsciamente, una diagnosi errata della crisi europea. In nome di un inesistente pericolo di inflazione, rifiutano l’azione della BCE per calmare i mercati, agendo come massimo garante/protettore dei debiti periferici. Inoltre la Germania ha imposto misure di austerità fiscale alla periferia sostenendo che dissipatezza fiscale è responsabile della crisi.
Il risultato è una situazione economica e sociale che va peggiorando. La Germania spera di sopravvivere, nonostante il calo dei mercati europei periferici, guardando alle economie emergenti. L’unica azione efficace è stata presa in dicembre dal capo della BCE Mario Draghi, ancora una volta con l’opposizione tedesca, che ha prestato alle banche europee un miliardo di euro per tre anni ad un tasso dell’uno per cento, con l’aspettativa che una parte venisse utilizzata per contenere i debiti sovrani. Questa operazione è servita come sollievo a breve termine, ma ora le banche hanno più titoli di debito pubblico, una situazione che non è rassicurante poiché le cause che hanno generato la crisi sono ancora presenti.
I paesi europei sono in uno scenario kafkiano: condannati se restano, condannati se se ne vanno. Da un lato, il crollo della zona euro devasterebbe il sistema finanziario globale, dato che i paesi, compresa l’Italia, andrebbero in default nello stesso momento. Dall’altro lato la Germania si oppone alla soluzione più ragionevole: consentire alla BCE di detenere titoli di debito europei, stimolare la domanda interna, permettendo ai salari tedeschi e alla spesa fiscale di aumentare e implementare un massiccio piano Marshall per la periferia europea emettendo eurobond.
Questa è la triste fine di una bella storia europea di costruzione di una società giusta ed efficiente. Forse quando le cose peggioreranno, anche per i tedeschi, il fallimento delle misure di austerità porterà a soluzioni più progressive. Tuttavia, ciò non compensa l’inutile sofferenza imposta dalle politiche vigenti su milioni di europei. La pressione dagli Stati Uniti e delle economie emergenti affinché la Germania assuma una leadership regionale e globale e non si comporti come una piccola Svizzera, sarebbe di grande aiuto.
Pubblichiamo un articolo di Sergio Cesaratto, docente all’Università di Siena, apparso sul quotidiano argentino Pagina12 e, in inglese, sul blog Nakedkeynesianism col titolo originale “L’inutile austerità europea”. Sempre di Cesaratto segnaliamo un articolo, scritto con Lanfranco Turci, pubblicato ieri sull’Unità, anch’esso sulla crisi europea e i suoi recenti sviluppi.
La crisi finanziaria europea non è finita, solo agli inizi. Nel lungo termine la tragedia greca appare come un episodio minore. Non è difficile per gli argentini capire l’origine della crisi, anche se è sorprendente perché una delle regioni più ricche del mondo e un punto di riferimento globale per la crescita accompagnata dall’equità sociale si sta suicidando con l’adozione di misure di austerità che aggravano la crisi.
L’Unione monetaria europea (UEM) è nata da un progetto politico francese che ha cercato di legare il destino della Germania post-unificazione all’Europa occidentale. In caso contrario, la nuova Germania avrebbe guardato ad est, come ha fatto in ogni caso, per diventare il centro di produzione manifatturiera dell’Europa orientale, verso cui ha decentrato la produzione di minor valore aggiunto. Con la partecipazione all’UEM Italia e altri paesi puntarono a importare la disciplina fiscale, monetaria e del lavoro tedesco.
Gli economisti americani hanno avvertito gli europei che l’UEM non era un’ “area monetaria ottimale”, perché era molto eterogenea in termini economici, culturali e linguistici. Le élite europee videro queste critiche come un complotto americano per impedire la nascita di una nuova moneta internazionale. Qualunque cosa fosse, quello che è successo tra il 1999 e il 2008 è una storia familiare per gli argentini. La liberalizzazione finanziaria e la fissazione del tasso di cambio generarono enormi flussi finanziari dal “core” Europa – Germania, Olanda, Austria e Finlandia – alla “periferia”, fondamentalmente Spagna, Grecia e Irlanda. In senso stretto, Francia e Italia non appartengono a entrambi i gruppi, l’industria manifatturiera italiana è seconda solo dopo la Germania e questo dimostra le differenze tra Italia e Spagna. I flussi di capitale condussero ad un boom nel settore delle costruzioni in Irlanda e Spagna e spinsero il governo alla prodigalità in Grecia. Ciò ha portato ad una crescita effimera in quei paesi, accompagnata da un’inflazione relativamente elevata e la conseguente perdita di competitività. I conti con l’estero sono diventati negativi e si è accumulata una quantità enorme di debito, in particolare con la Germania.
Asimmetricamente, dalla fine degli anni ’90, sotto il governo socialdemocratico del cancelliere Schroeder, la Germania ha adottato una politica mercantilista di moderazione salariale e fiscale insieme alla flessibilità del lavoro. Da un lato comprimeva la domanda interna e l’inflazione e, dall’altro, finanziava la domanda aggregata in periferia. Questo è diventato lo sbocco del modello di crescita tedesco basato sulle esportazioni.
L’unico problema è che la periferia ha accumulato enormi quantità di debito estero senza avere la possibilità, eventualmente, di porre fine allo squilibrio svalutando le monete, come fece l’Argentina nel 2002, o l’Italia nel 1992, dopo gli squilibri creati dal Sistema monetario europeo negli anni ’80. Alla fine del 2009, dopo l’esplosione della crisi in America e la scoperta che il governo greco (buon amico di Angela Merkel) aveva mentito sui conti, i mercati finanziari hanno cominciato a dubitare della solvibilità delle economie periferiche. La crisi ha colpito Grecia, Irlanda e Portogallo nel 2010 e, nel 2011, la terza e la quarta economia più grande nell’UEM, Spagna e Italia. La conseguenza di entrate fiscali in calo e dei salvataggi pubblici del settore bancario in paesi come l’Irlanda e la Spagna è stata che i problemi di debito privato sono diventati una questione di debito pubblico. L’enorme debito pubblico italiano era molto più vecchio e sostenibile, ma per un paese abituato a difendere la competitività della propria industria manifatturiera attraverso la svalutazione della lira, l’UEM è stata un chiaro disastro, sicché i mercati hanno cominciato a dubitare anche della solvibilità italiana.
La risposta europea è stata caratterizzata storicamente per essere sistematicamente “troppo poco, troppo tardi”. I fondi di emergenza europei sono stati concepiti per evitare il default dei governi dei paesi periferici. Tuttavia, c’è un lato negativo: alcune di queste risorse provengono dagli stessi paesi che hanno bisogno del finanziamento, un circolo vizioso. Contro la volontà della Germania, la Banca centrale europea (BCE) ha attuato un intervento cauto di sostegno al debito sovrano periferico, appena sufficiente per evitare il collasso dell’UEM e non per mantenere a livelli sostenibili i tassi di interesse su questi debiti (i due membri tedeschi del comitato esecutivo della BCE si sono dimessi in segno di protesta nel 2011).
I tedeschi sono contrari a che la BCE agisca come prestatore di ultima istanza per i paesi e le banche, ossia la ragione principale per cui le banche centrali sono stati create. L’idea di una banca centrale che coopera democraticamente con la politica fiscale è stata una parte della recente riforma della Banca centrale argentina. Ma i leader tedeschi, il governo democristiano e l’opposizione socialdemocratica, condividono, consciamente o inconsciamente, una diagnosi errata della crisi europea. In nome di un inesistente pericolo di inflazione, rifiutano l’azione della BCE per calmare i mercati, agendo come massimo garante/protettore dei debiti periferici. Inoltre la Germania ha imposto misure di austerità fiscale alla periferia sostenendo che dissipatezza fiscale è responsabile della crisi.
Il risultato è una situazione economica e sociale che va peggiorando. La Germania spera di sopravvivere, nonostante il calo dei mercati europei periferici, guardando alle economie emergenti. L’unica azione efficace è stata presa in dicembre dal capo della BCE Mario Draghi, ancora una volta con l’opposizione tedesca, che ha prestato alle banche europee un miliardo di euro per tre anni ad un tasso dell’uno per cento, con l’aspettativa che una parte venisse utilizzata per contenere i debiti sovrani. Questa operazione è servita come sollievo a breve termine, ma ora le banche hanno più titoli di debito pubblico, una situazione che non è rassicurante poiché le cause che hanno generato la crisi sono ancora presenti.
I paesi europei sono in uno scenario kafkiano: condannati se restano, condannati se se ne vanno. Da un lato, il crollo della zona euro devasterebbe il sistema finanziario globale, dato che i paesi, compresa l’Italia, andrebbero in default nello stesso momento. Dall’altro lato la Germania si oppone alla soluzione più ragionevole: consentire alla BCE di detenere titoli di debito europei, stimolare la domanda interna, permettendo ai salari tedeschi e alla spesa fiscale di aumentare e implementare un massiccio piano Marshall per la periferia europea emettendo eurobond.
Questa è la triste fine di una bella storia europea di costruzione di una società giusta ed efficiente. Forse quando le cose peggioreranno, anche per i tedeschi, il fallimento delle misure di austerità porterà a soluzioni più progressive. Tuttavia, ciò non compensa l’inutile sofferenza imposta dalle politiche vigenti su milioni di europei. La pressione dagli Stati Uniti e delle economie emergenti affinché la Germania assuma una leadership regionale e globale e non si comporti come una piccola Svizzera, sarebbe di grande aiuto.
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