il manifesto - Autore: Francesco Piccioni
- controlacrisi -
Davanti a una platea di giovani metalmeccanici e precari, Landini annuncia che la mobilitazione per l’articolo 18 continua. «Non abbiamo paura, non accettiamo di menomare i diritti»
L’opposizione sociale si trova davanti a un passagio storico e ha un problema enorme: contrastare un’offensiva che sta distruggendo le condizioni di vita per la maggior parte della popolazione, ma senza disporre più degli strumenti «generali» all’altezza della sfida: uno o più partiti politici che difendono interessi sociali precisi, corpi intermedi dalle caratteristiche certe, in un quadro legislativo stabile e di garanzia. A Bologna, ieri, la Fiom ha riunito l’assemblea nazionale dei giovani delegati di fabbrica insieme a decine di altre realtà egualmente giovanili, ma che del lavoro vedono una faccia diversa e condizioni fin qui parecchio differenti.
Un dialogo in altri tempi difficoltoso e idelogizzato in una artificiosa contrapposizione tra «garantiti» e «non garantiti», tra «stabili» e precari che mai come oggi appare una costruzione ad hoc , abilmente costruita da «quelli che guidano i processi produttivi, e sono sempre gli stessi, mentre tra noi viene incentivata la frammentazione». Oggi non può più avvenire, anche se dal governo – e dai media mainstream ogni giorno piovono frasi di circostanza sulle «difficoltà dei giovani» e i «privilegi degli anziani», da «riequilibrare» togliendo qualcosa a tutti. Non ci crede più nessuno di questi ragazzi che spesso non arrivano alla trentina. Non ci credono gli operai di Pomigliano, e forse poteva essere scontato; ma non ci credono i giornalisti precari che qui prendono parola.
Ed è un segno rivelatore. L’analisi e i valori della tuta blu Maurizio Landini sono forzatamente meno distanti, ora, da quelli di un Luca Casarini, dai centri sociali o dei movimenti che stanno attraversando il paese (dall’acqua pubblica ai NoTav). Il «sostanziale smantellamento dell’articolo 18» azzera o quasi la libertà del singolo lavoratore di far valere il suo interesse nella prestazione lavorativa; senza più il baluardo del reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, infatti, si prefigura, dice Ciro in napoletano stretto, «la fine anche della Cgil». La precarietà e l’assenza di diritti stanno diventando insomma condizione comune, la necessità di unire le differenze in un’unico movimento assume evidenza solare. «Unire tutti», scandisce Landini. Davanti c’è un governo che – al pari ma con piu efficacia di Berlusconi – «sta usando la crisi per cancellare definitivamente un modello sociale e il sistema dei diritti». Un governo coerente con «un’idea di Europa che non ci piace».
Contro cui bisogna opporre un’altra idea di uscita dalla crisi, quel «nuovo modello di sviluppo» molte volte dettagliato e centrato sulle persone, non sul potere assoluto dell’impresa. «Che fare?»: in una situazione del genere, è domanda antica. E la discussione sceglie di rovesciare la logica: ci accusano di essere «conservatori» sul piano dei diritti e indifferenti al «mercato duale» del lavoro? Bene, la questione centrale del movimento da far nascere sarà l’universalizzazione dei diritti, l’estensione dell’articolo 18 a chi non l’ha mai avuto (le imprese sotto i 15 dipendenti), l’estensione degli ammortizzatori sociali attuali (che non sono pagati dallo stato, ma cofinanziati da lavoratori e imprese; ma non in tutti i settori produttivi), fino a quel «reddito di cittadinanza» che solo l’Italia, tra i paesi europei, non ha mai assunto in nessuna forma.
Nel tirare le conclusioni – «non un ordine del giorno, solo un riassunto da portare nelle discussioni in tutti i territori» – Landini promette di portare al prossimo direttivo nazionale della Cgil la richiesta di un vero «sciopero generale, di tutte le categorie», di quelli in grado di fermare sul serio un paese ed evidenziare l’opposizione radicale a una politica.
Ma in ogni caso, «se anche il Parlamento facesse diventare legge il provvedimento sulla riforma del mercato del lavoro, noi non accetteremo mai una menomazione dei diritti fondamentali». Per esser chiari, «noi non ci fermeremo», dice il segretario della Fiom, perché «noi non abbiamo paura»: di «cambiare rispetto al passato, di contaminare culture e soggetti sociali, di sconfiggere questo governo». Perché è vero che molto è cambiato, infatti «è finita la possibilità della riduzione del danno», di fare quelle scelte normalmente definite «il meno peggio». È il passaggio più duro, ma «se riescono a fare questa legge, persone e sindacati non avranno più gli stessi diritti, né forza e possibilità di cambiare le relazioni sociali».
In quest’assemblea – ormai a metà strada tra il normale fare sindacato e la politica a tutto tondo «siamo portatori di un’altra idea di società», dove «la democrazia non è guardare la tv e poi votare qualcuno, ma partecipazione in prima persona». E la scadenza di mobilitazione più vicina – la prima, non certo quella conclusiva – è il 20 maggio. È la data in cui, nel 1970, lo Statuto dei lavoratori divenne legge. «Facciamo di quella scadenza la giornata dei diritti del lavoro», perché qui c’è la certezza che «la maggioranza assoluta del paese non è affatto d’accordo con quel che il governo sta facendo». Checché ne dicano le televisioni e i sondaggi.
Davanti a una platea di giovani metalmeccanici e precari, Landini annuncia che la mobilitazione per l’articolo 18 continua. «Non abbiamo paura, non accettiamo di menomare i diritti»
L’opposizione sociale si trova davanti a un passagio storico e ha un problema enorme: contrastare un’offensiva che sta distruggendo le condizioni di vita per la maggior parte della popolazione, ma senza disporre più degli strumenti «generali» all’altezza della sfida: uno o più partiti politici che difendono interessi sociali precisi, corpi intermedi dalle caratteristiche certe, in un quadro legislativo stabile e di garanzia. A Bologna, ieri, la Fiom ha riunito l’assemblea nazionale dei giovani delegati di fabbrica insieme a decine di altre realtà egualmente giovanili, ma che del lavoro vedono una faccia diversa e condizioni fin qui parecchio differenti.
Un dialogo in altri tempi difficoltoso e idelogizzato in una artificiosa contrapposizione tra «garantiti» e «non garantiti», tra «stabili» e precari che mai come oggi appare una costruzione ad hoc , abilmente costruita da «quelli che guidano i processi produttivi, e sono sempre gli stessi, mentre tra noi viene incentivata la frammentazione». Oggi non può più avvenire, anche se dal governo – e dai media mainstream ogni giorno piovono frasi di circostanza sulle «difficoltà dei giovani» e i «privilegi degli anziani», da «riequilibrare» togliendo qualcosa a tutti. Non ci crede più nessuno di questi ragazzi che spesso non arrivano alla trentina. Non ci credono gli operai di Pomigliano, e forse poteva essere scontato; ma non ci credono i giornalisti precari che qui prendono parola.
Ed è un segno rivelatore. L’analisi e i valori della tuta blu Maurizio Landini sono forzatamente meno distanti, ora, da quelli di un Luca Casarini, dai centri sociali o dei movimenti che stanno attraversando il paese (dall’acqua pubblica ai NoTav). Il «sostanziale smantellamento dell’articolo 18» azzera o quasi la libertà del singolo lavoratore di far valere il suo interesse nella prestazione lavorativa; senza più il baluardo del reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, infatti, si prefigura, dice Ciro in napoletano stretto, «la fine anche della Cgil». La precarietà e l’assenza di diritti stanno diventando insomma condizione comune, la necessità di unire le differenze in un’unico movimento assume evidenza solare. «Unire tutti», scandisce Landini. Davanti c’è un governo che – al pari ma con piu efficacia di Berlusconi – «sta usando la crisi per cancellare definitivamente un modello sociale e il sistema dei diritti». Un governo coerente con «un’idea di Europa che non ci piace».
Contro cui bisogna opporre un’altra idea di uscita dalla crisi, quel «nuovo modello di sviluppo» molte volte dettagliato e centrato sulle persone, non sul potere assoluto dell’impresa. «Che fare?»: in una situazione del genere, è domanda antica. E la discussione sceglie di rovesciare la logica: ci accusano di essere «conservatori» sul piano dei diritti e indifferenti al «mercato duale» del lavoro? Bene, la questione centrale del movimento da far nascere sarà l’universalizzazione dei diritti, l’estensione dell’articolo 18 a chi non l’ha mai avuto (le imprese sotto i 15 dipendenti), l’estensione degli ammortizzatori sociali attuali (che non sono pagati dallo stato, ma cofinanziati da lavoratori e imprese; ma non in tutti i settori produttivi), fino a quel «reddito di cittadinanza» che solo l’Italia, tra i paesi europei, non ha mai assunto in nessuna forma.
Nel tirare le conclusioni – «non un ordine del giorno, solo un riassunto da portare nelle discussioni in tutti i territori» – Landini promette di portare al prossimo direttivo nazionale della Cgil la richiesta di un vero «sciopero generale, di tutte le categorie», di quelli in grado di fermare sul serio un paese ed evidenziare l’opposizione radicale a una politica.
Ma in ogni caso, «se anche il Parlamento facesse diventare legge il provvedimento sulla riforma del mercato del lavoro, noi non accetteremo mai una menomazione dei diritti fondamentali». Per esser chiari, «noi non ci fermeremo», dice il segretario della Fiom, perché «noi non abbiamo paura»: di «cambiare rispetto al passato, di contaminare culture e soggetti sociali, di sconfiggere questo governo». Perché è vero che molto è cambiato, infatti «è finita la possibilità della riduzione del danno», di fare quelle scelte normalmente definite «il meno peggio». È il passaggio più duro, ma «se riescono a fare questa legge, persone e sindacati non avranno più gli stessi diritti, né forza e possibilità di cambiare le relazioni sociali».
In quest’assemblea – ormai a metà strada tra il normale fare sindacato e la politica a tutto tondo «siamo portatori di un’altra idea di società», dove «la democrazia non è guardare la tv e poi votare qualcuno, ma partecipazione in prima persona». E la scadenza di mobilitazione più vicina – la prima, non certo quella conclusiva – è il 20 maggio. È la data in cui, nel 1970, lo Statuto dei lavoratori divenne legge. «Facciamo di quella scadenza la giornata dei diritti del lavoro», perché qui c’è la certezza che «la maggioranza assoluta del paese non è affatto d’accordo con quel che il governo sta facendo». Checché ne dicano le televisioni e i sondaggi.
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