Gli economisti sul libro paga della finanza - lemonddiplomatique -
Editoriali, trasmissioni mattutine alla radio, palcoscenici televisivi: in piena campagna per le presidenziali, un pugno di economisti si spartisce l’intero spazio della comunicazione e delimita il terreno delle possibilità in campo. Presentati come accademici, incarnano il rigore tecnico nel mezzo della mischia ideologica. Ma se di questi “esperti” fossero note anche le altre attività, le loro analisi risulterebbero altrettanto credibili?
di Renaud Lambert
Si chiama «effetto Dracula»: allo stesso modo del celebre vampiro dei Carpazi, gli accordi illegittimi non possono resistere all’esposizione alla luce. Così, nel 1998, la scoperta del Multilateral agreement on investment (Mai), negoziato di nascosto allo scopo di accentuare la liberalizzazione dell’economia, ha determinato la sua disintegrazione. Questa volta, la controversia riguarda invece la collusione tra economisti e istituzioni finanziarie. Tanti fra gli accademici invitati dai media a illuminare il dibattito pubblico, ma anche dei ricercatori designati come consiglieri dai governi, sono infatti a libro paga di banche e grandi imprese. Può un esperto raccomandare quindi «in tutta indipendenza» la deregolamentazione finanziaria se allo stesso tempo occupa anche un posto da amministratore di un fondo d’investimento? Tali relazioni pericolose, fonte di conflitti d’interesse, non sono affatto un mistero. Tuttavia, i loro beneficiari si guardano bene dal renderle pubbliche. Prima del cataclisma del 2008, ci si accontentava dell’equivoco: i giornalisti esibivano i loro esperti che si presumevano neutri, i quali poi intascavano i dividendi della propria ubiquità sotto forma di maggiore notorietà e guadagni sicuri. Ma, dopo il 2008, gli economisti e i loro legami non passano più inosservati. L’effetto Dracula riuscirà ad avere ragione di questa forma di prevaricazione intellettuale? Per vincerla basterà renderla pubblica? La scommessa della prestigiosa American economic association (Aea) è proprio questa. Dall’inizio di quest’anno infatti, gli articoli pubblicati nelle riviste scientifiche aderenti all’associazione devono riportare gli eventuali conflitti d’interesse riguardanti gli autori. Gli economisti saranno così tenuti a menzionare «le “parti interessate” (1) che abbiano loro corrisposto una retribuzione finanziaria rilevante, vale a dire pari ad un ammontare superiore o uguale a 10.000 dollari [circa 7.600 euro] nel corso degli ultimi tre anni» (comunicato del 5 gennaio 2012). La misura riguarderà allo stesso modo le somme percepite da tutti coloro che agli autori sono «vicini». Alla testa di alcune fra le più prestigiose riviste del settore, la venerabile Aea, che si appresta a festeggiare il suo centotrentesimo compleanno, non va molto soggetta a infatuazioni passeggere. Ecco perché la sua decisione ha scosso gli animi. Dopo il successo del documentario Inside Job di Charles Ferguson, l’irritazione era ormai divenuta palpabile. Gli emolumenti di certi consiglieri nella cerchia del presidente Barack Obama coinvolti nella liberalizzazione del settore bancario avevano sollevato alcuni interrogativi nell’opinione pubblica. È il caso di Lawrence Summers, direttore del National economic council (Nec), che, tra il 2008 e il 2009, ha ricevuto 5,2 milioni di dollari dal fondo speculativo D.E. Shaw, e viene remunerato fino a 135.000 dollari per le sue conferenze, organizzate il più delle volte da società finanziarie – senza contare le sontuose collaborazioni con il Financial Times. La rabbia riecheggiava anche fra le stesse file degli economisti. Nel corso del 2011, ci spiega George DeMartino, dell’università di Denver, «una serie di studi scientifici ha dimostrato che i conflitti d’interesse costituiscono la regola piuttosto che l’eccezione». Il 3 gennaio 2011, per iniziativa dei professori Gerald Epstein e Jessica Carrick-Hagenbarth, una lettera aperta suonava un campanello d’allarme, invitando l’Aea a reagire. La missiva era firmata da più di trecento economisti, tra cui George Akerlof, premio Nobel per l’economia, e Christina Romer, ex-consigliera del presidente Obama. Dodici mesi più tardi, l’appello veniva ascoltato. Ma l’eco di tale sussulto etico fatica ad attraversare l’Atlantico (2)... Su Le Monde del 1° febbraio, l’economista Olivier Pastré sbraita contro i progetti di fuoriuscita dalla moneta unica europea, attribuendosi una missione: «Spiegare ai francesi più smarriti e più soggetti alla disinformazione quali sono i rischi di un abbandono dell’euro (3)». Il quotidiano della sera presenta l’autore come «professore di economia dell’università Paris-VIII». Ora, Pastré presiede anche la banca tunisina ImBank. E fa parte dei consigli di amministrazione della banca Crédit municipal de Paris (Cmp Banque), dell’Associazione dei direttori di banca, oltre che dell’Europlace institute of finance. Eppure, è il «professore universitario» che interviene ogni sabato mattina nella trasmissione di France Culture «L’Economie en questions», di cui è coproduttore. Se 2 +2 = 5 Quando gli sottoponiamo il caso, il professor Michael Woodford, membro del comitato direttivo dell’Aea, commenta: «Ecco un perfetto esempio del genere di situazione che ci ha indotto a reagire». L’associazione esorta infatti «l’insieme degli specialisti ad applicare gli stessi criteri a tutte le pubblicazioni: giornali accademici, editoriali, articoli di stampa, commenti radiofonici e televisivi». «Mi sembra che i lettori, continua infatti Woodford, abbiano il diritto di sapere all’occorrenza se l’esperto in questione difende una certa analisi o gli interessi dell’istituzione per la quale lavora». Pastré, nel suo articolo del 1° febbraio, assicurava che nell’ipotesi di un’uscita dall’euro, le banche «vedrebbero esplodere il costo del proprio indebitamento sia a corto che a lungo termine», dicendosi allarmato per l’eventuale «calo dei loro rendimenti». Per Patrick Artus, responsabile della ricerca economica per la banca Natixis e amministratore di Total, la tesi difesa da Woodford «ha un fondamento negli Stati uniti e nel Regno unito. Ma non credo veramente che possa applicarsi alla zona euro», perché «il numero di economisti legato alla finanza qui è molto più debole che nel mondo anglo-sassone (4)». Un piccolo gruppo, forse... ma certamente molto ben rappresentato tra gli esperti mediatici. 3 novembre 2011. La trasmissione del mattino di France Inter analizza le questioni in gioco al G20 in procinto di aprirsi a Cannes. E chi invita? «Jean Hervé Lorenzi, presidente del Cercle des économistes». Presentata solo in rare occasioni, l’associazione riunisce Jean-Paul Betbèze (capo economista di Crédit agricole), Laurence Boone (capo economista di Merrill Lynch), Anton Brender (capo economista di Dexia Asset Management), Artus, Pastré, ecc.
Qualche giorno dopo, sulla stessa emittente pubblica, la trasmissione «Le téléphone sonne» «tira le conclusioni» del vertice. Al microfono, «Jean Hervé Lorenzi, presidente del Cercle des économistes». Ed è sempre a questo titolo che Lorenzi, peraltro consigliere del candidato socialista alle presidenziali François Hollande, analizza il mercato immobiliare su Les Echos, il crollo delle Borse su Europe 1 o «le magnifiche sorti della Francia» su Rtl (5). Eppure, da questo biglietto da visita sono omessi diversi dettagli. Lorenzi siede nei consigli di amministrazione di PagesJaunes, di Associés en finance, dell’Association française des opérateurs mobiles (Afom), di BNP Baribas Assurance. Ricopre inoltre l’incarico di sindaco presso Euler Hermes, membro del collegio sindacale della Compagnie financière Saint-Honoré, di Bva, del Groupe Ginger e membro del comitato esecutivo della Compagnie financière Edmond de Rothschild Banque. Christian Saint-Etienne si presenta per parte sua come docente al Consevatoire national des arts et métiers (Cnam) su France 24 e come economista e analista politico sulle colonne del Point. Ma mai come consigliere scientifico del Conseil stratégique européen, una società di consulenza per la gestione dei patrimoni. Elie Cohen, anch’egli consigliere di François Hollande, compare, su France Inter o Le Figaro, come «direttore di ricerca» al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) e professore a Sciences Po, e mai come membro del consiglio di amministrazione delle aziende PagesJaunes ed Edf energies nouvelles. Jacques Mistral? È economista sulle colonne di Le Monde e su France Culture, o direttore degli studi economici all’Institut français des relations internationales (Ifri) per la trasmissione «C dans l’air» (France 5). Non come amministratore di Bnp Paribas Assurance. Daniel Cohen, consigliere di Martine Aubry, è più discreto rispetto al ruolo di senior advisor della banca Lazard – consulente ad esempio del governo greco per la rinegoziazione del proprio debito – rispetto a quando si tratta di ricordare la propria qualifica di professore di scienze economiche all’École normale supérieure e all’università Paris-I. Gettoni di presenza per i consigli di amministrazione delle grandi società (mediamente 35.000 euro a mandato per le società del Cac 40 e la metà per le altre società quotate, secondo le cifre dell’Insitut français des administrateurs [Ifa]), compilazione, dietro compenso, di rapporti... Esattamente come i loro colleghi americani, gli economisti francesi, osserva DeMartino, «dispongono di un gran numero di mezzi per guadagnare molto, molto denaro. Eppure, sanno meglio di altri che niente è gratuito e ogni beneficio implica un costo. E il costo, in questo caso, è la perdita d’indipendenza». «Sono discorsi che sanno di anni ‘30 – protesta Lorenzi. Il problema è capire se il modo in cui ci si guadagna da vivere influenza il proprio giudizio. E, in questa circostanza, non è così». Dopotutto, potrebbe osservare qualcuno, 2 + 2 fa sempre 4, che si scriva per conto di un’università o per quello di una banca. «Non c’è dubbio in proposito, risponde Woodford con un sorriso. Ma la maggior parte delle questioni con cui si confrontano gli economisti comporta giudizi più raffinati. E non bisogna illudersi: le nostre discussioni hanno un impatto diretto su certi interessi privati». Dovremmo concluderne, con la professoressa Deirdre McCloskey, dell’università dell’Illinois, che siamo in una situazione per cui «gli economisti si comportano come avvocati, schierati a favore di questo o quel punto di vista, indipendentemente dai fatti (6)»? O – per dirla in altro modo – che interessati al risultato, cerchino a volte di convincerci che 2 + 2 = 5? Autore del documentario Inside Job, Ferguson ha incontrato l’economista Frederic Mishkin, della Columbia business school: Ferguson. - Nel 2006, lei è stato cofirmatario di uno studio sul sistema finanziario islandese: «È un paese sviluppato dotato di istituzioni eccellenti. Poca corruzione. Stato di diritto, economia reindirizzata alla liberalizzazione finanziaria. Regolamentazione e vigilanza prudenziale di qualità». Mishkin. - L’errore stava proprio lì [nel 2008, l’economia islandese tracollava, ndr]. La regolamentazione e la vigilanza prudenziale si sono rivelate insoddisfacenti. - E chi vi ha indotto a credere il contrario? - Ci si affida alle informazioni di cui si dispone. E l’opinione generale voleva che l’Islanda avesse istituzioni eccellenti e fosse un paese molto avanzato. - Chi ve lo aveva detto? Che ricerche avete svolto? - Abbiamo sentito delle persone, ci siamo affidati alla banca centrale che, alla fine, non si è rivelata all’altezza. - Fidarsi della banca centrale, e perché? - Ci si affida alle informazioni che si hanno. - E quanto vi ha reso il lavoro? - Sono stato pagato... Le cifre sono pubbliche. Mishkin ha ricevuto 124.000 dollari [circa 95.000 euro] dalla camera di commercio islandese per redigere il suo studio. - Sul vostro curriculum vitae, il titolo del rapporto, «Stabilità finanziaria in Islanda», è stato cambiato in «Instabilità finanziaria in Islanda»... - Oh... Non so davvero perché, magari... può essere un refuso. Fedele avvocato del suo cliente o scienziato in errore, la differenza si rivela piuttosto labile talvolta. Ora, sottolinea DeMartino, «gli economisti godono di un privilegio che altre professioni non conoscono: non gli si chiede mai di rendere conto delle loro cantonate». Eppure ne prendono. Il 17 agosto 2007, la crisi dei subprime ha appena debuttato oltre l’Atlantico. Elie Cohen ne predice già la fine: «Nell’arco di qualche settimana, assicura, il mercato si aggiusterà e gli affari riprenderanno come prima» (Lemonde.fr). Sei mesi più tardi, su Direct 8, Alain Mine, banchiere d’affari e consigliere di Nicolas Sarkozy, si entusiasma per «l’incredibile plasticità del sistema»: «Avremmo detto che era regolato con una destrezza tale da farci evitare una crisi, che avrebbe potuto essere della stessa portata delle grandi crisi che abbiamo conosciuto nel passato! Ma resta ugualmente un universo in fondo perfettamente in grado di resistere agli urti improvvisi». Il verdetto? «L’economia mondiale è amministrata piuttosto bene». (8 gennaio) (7) Nel corso dello stesso anno, Lorenzi annuncia di avere ormai un’ «opinione precisa sull’argomento»: «la diagnosi delle banche centrali è stata rapida, corretta e fattiva. In una crisi del mercato interbancario, hanno saputo schivare con abilità la catastrofe; nella circostanza specifica, hanno evitato il fallimento delle banche ipotecarie negli Stati uniti e permesso a grandi gruppi bancari in pericolo di reintegrare, senza rischi per la liquidità, una parte dei loro prodotti finanziari cartolarizzati (8)». Le sue parole erano state appena pubblicate che la banca Lehman Brothers sprofondava, trascinando con sé una parte del sistema finanziario mondiale. Quanto ad Artus, redattore grafomane di Flash Economie di Natixis (cinque articoli al giorno in media), il 28 agosto 2008 andava strombazzando su Challenges – due settimane prima del crack: «L’affare dei subprime è ormai alle spalle». Successivamente, farà urla e strepiti contro l’idea che le banche paghino più tasse e continuino a finanziare le economie indebolite dalla crisi. «Non si può chiedere tutto alle banche», titolerà l’impiegato di Natixis nel suo Flash Economie del 18 agosto 2011. Ci si potrebbe interrogare sul rapporto esistente tra errori di giudizio così smaccati e le remunerazioni percepite dagli autori. Oppure esigere, con Epstein, che gli economisti siano resi «responsabili davanti ai propri colleghi, alla stampa, ai propri studenti e ai cittadini (9)». Ma dobbiamo davvero fingere di meravigliarci che un banchiere difenda gli interessi dei banchieri? Del resto, è proprio in questi termini che Lorenzi, ad esempio, vede la sua attività: «Sono quello che si chiama un senior banker, spiegava recentemente. In linea di massima, il mio scopo è tentare di sviluppare gli affari corrispondenti alle varie attività della Compagnie fiancière Edmond de Rothschild (10)». Lui e Pastré avevano in animo una tale missione allorché, nel loro libro Droite contre gauche? Les grands dossiers qui feront l’élection présidentielle (Fayard), pubblicato nel 2012, intimavano ai propri lettori di «rinunciare alle illusioni sullo stato protettore», di «fare definitivamente la scommessa audace del mercato», e, soprattutto, di evitare di «dare dei giudizi troppo affrettati» sull’industria bancaria? Jean-Pierre Jouyet, presidente dell’Autorità dei mercati finanziari (Amf) ed ex segretario di stato agli Affari europei di Sarkozy, lo scorso novembre diceva di temere che «alla lunga i cittadini si rivolteranno contro la dittatura di fatto [imposta dai mercati] (11)». Ma i «mercati» non esercitano già il proprio ascendente fin dentro l’Amf, incaricato di regolarli? Chi fa da consigliere all’autorità presieduta da Jouyet? Gli stessi mercati: Olivier Davanne (cogestore di Groupama Risk Premium), Olivier Garnier (vice direttore di Societé générale), Ruben Lee (amministratore delegato di Oxford Finance Group), Artus, Pastré, ecc. Ritorniamo ora negli Stati uniti, dove Ferguson intervista John Campbell, direttore del dipartimento di economia ad Harvard: Ferguson. - Un ricercatore medico scrive un articolo che dice: «Per curare tale patologia, occorre prescrivere questo farmaco». Si viene poi a sapere che il medico in questione riceve l’80% delle proprie entrate dal produttore di quel medicinale. Non la disturberebbe questo? Campbell. - Credo che sia sicuramente importante rendere pubblici... i, ehm... ehm... È un po’ diverso dai casi che abbiamo richiamato qui, perché... ehm... La pertinenza dell’analogia non è molto più evidente per Barbara Frugier, vice della direttrice alla comunicazione dell’Amf. «Ascolti, non conosco l’industria farmaceutica», dice interrompendo la domanda, per aggiungere: «Non capisco proprio dove lei voglia arrivare, infatti. A mio avviso, è del tutto normale rivolgersi a persone che abbiano la debita competenza». Eppure, secondo il sito dell’autorità, il collegio – incaricato, tra le altre cose, di approvare il bilancio dell’istituzione e in generale di fissare le regole interne – è, contrariamente al collegio scientifico, «sottoposto a norme deontologiche e di prevenzione dei conflitti d’interesse». Al momento di passare dal secondo cenacolo al primo, nel giugno del 2011, l’economista Christian de Boissieu, peraltro presidente del Conseil d’analyse économique (Cae), è dunque stato invitato a lasciare le sue funzioni di consulente del fondo speculativo Hdf Finance, di Ernst & Young, così come il posto che aveva nel comitato dei revisori dei conti della banca Neuflize Obc, del cui collegio sindacale rimane invece membro. «In attesa di lasciare al più presto anche il collegio sindacale, spiega, mi astengo (esco dalla sala e non partecipo in alcun modo alle deliberazioni) quando all’Amf si discute, direttamente o indirettamente, di quella banca». Per quanto lodevoli, gli accorgimenti dell’Amf e di Boissieu non comportano un’implicita disapprovazione di coloro che non ne adottano di analoghi? A cominciare, per esempio dai media? Giornalista di France Info, Jean Leymarie ha ospitato Lorenzi il 16 dicembre 2009, il 24 novembre 2010 e il 29 giugno 2011. È al corrente del ruolo del suo invitato all’interno della società Rothschild? «Sì, certamente!» E, nonostante questo, non lo ha ricordato in diretta? «I nostri ascoltatori non sono degli idioti. Lo sanno bene». E in che modo lo saprebbero, dal momento che i suoi colleghi adottano generalmente la stessa sua condotta, pur essendo perfettamente a conoscenza delle molteplici attività dei loro invitati? La menzogna degli esperti È con cognizione di causa che Jean-Marc Sylvestre invita Lorenzi per evocare i pericoli di una maggiore regolamentazione del settore bancario, su Lci (24 aprile 2010); che Yves Calvi dà la parola a Michel Godet e a Saint-Etienne per spiegare l’ineluttabilità delle politiche di rigore, nel corso della sua trasmissione, «C dans l’air», su France 5 (9 novembre 2011); e che il Financial Times concede le sue colonne a Summers per trarre le conseguenze della «crisi del capitalismo» (8 gennaio 2012). C’è davvero bisogno di ascoltare attentamente le risposte quando si pongono domande simili a simili invitati? Forse l’informazione dei francesi non subirebbe un’amputazione troppo severa se la stampa consacrasse più spazio – qualche riga, qualche secondo di diretta – a una presentazione completa dei suoi esperti: «D’altronde sarebbe talmente semplice che mi stupisco che non sia già così», ci risponde l’economista Hubert Kempf, presidente dell’Association française de science économique (Afse), ritenuto un «ortodosso». La sua organizzazione intende interpellare i propri membri sulla questione dei conflitti d’interesse? «Forse organizzeremo una tavola rotonda al nostro prossimo congresso», nel luglio 2012. E per quanto riguarda l’Association française d’économie politique (Afep), costituita due anni or sono per promuovere un maggior pluralismo all’interno della professione? «Non ancora formalmente, anche se la questione qui registra un consenso a priori», ci segnala Nicolas Postel, segretario dell’associazione. «Ma, aggiunge, ritenere che il problema si limiti ad una questione di conflitto d’interessi costituisce, a mio modo di vedere, un errore». Altra situazione ipotetica. Nella sua edizione del 14 febbraio, Le Monde pubblica, nella rubrica «Esteri», un’analisi della crisi greca. La giornalista Claire Gatinois vi cita diversi economisti, tutti direttamente collegati al mondo della finanza. Ora, qui non c’è nessun conflitto d’interessi: i ruoli sono chiaramente identificati. Christopher Probyn? «Capo economista di State Street, gruppo finanziario con sede a Boston» (citato tre volte). Natacha Valla? «Economista di Goldman Sachs» (citata tre volte). Jésus Castillo? «Economista di Natixis». Senza contare «gli esperti di Ubs». Probabilmente Gatinois pensa che gli «economisti bancari» siano i meglio posizionati per analizzare una crisi come quella che scuote la Grecia. «E perché lo sarebbero?, obietta Postel. Su una materia come questa, dai media non ci si attende una rassegna tutta tecnica di meccanismi finanziari oscuri, ma una riflessione fondamentale sullo statuto del debito di quel paese: è legittimo? Da dove viene? E, su questo piano, gli economisti bancari non sono necessariamente i più competenti». Come figurarci un economista di Goldman Sachs capace di affermare che la crisi greca deriva da un debito illegittimo che bisognerebbe non pagare? «No, mi sembra assai poco verosimile», ammette Gatinois. «In quell’articolo, spiega, ho pensato che fosse interessante interrogare degli economisti bancari, di orientamento smaccatamente liberista, per mostrare come anch’essi siano preoccupati della situazione greca». Si trattava insomma di presentare, una sola volta non fa un’abitudine, il punto di vista dei liberisti. Questa sorta di riflesso professionale sembra assalire i grandi giornali più di quanto non faccia quello di interrogare, ad esempio, dei rappresentanti sindacali – i quali sono come minimo altrettanto informati che gli economisti liberisti sui meccanismi e le conseguenze del dramma sociale in corso. Tanto per fare un caso, ad ottobre 2011 Gatinois ha dato la parola a quaranta economisti, gruppi di economisti e affini. Ventinove lavoravano direttamente per delle banche o delle istituzioni finanziarie e tre soltanto parlavano a nome dei sindacati. Tra il 1° settembre 2008 e il 31 dicembre 2011, Le Monde ha citato Artus – responsabile della ricerca per la banca Natixis – in centoquarantasette articoli (con quattro editoriali firmati). Più spesso di Jacques Attali (centotrentadue articoli) e di Mine (centodiciotto) . E molte più volte di Jean Gadrey (cinque articoli di argomento economico) e Frédéric Lordon (quattro) (12). Proporzioni simili a quelle che riscontreremmo sui quotidiani Libération o Le Figaro, oltre che sulla maggior parte delle riviste. In queste condizioni, potrebbe bastare una maggiore trasparenza ad aver ragione della tendenza naturale dei professionisti della finanza a difendere... gli interessi della finanza?
note:
(1) Le «parti interessate» sono definite come «qualunque soggetto, gruppo o organizzazione implicati, finanziariamente, ideologicamente o politicamente nel contenuto dell’articolo».
(2) L’economista Jean Gadrey ha esposto i dati del problema nel suo saggio «Les liaisons dangereuses», 21 settembre 2009, http://alternatives-economiques.fr/blogs/gadrey. La nostra inchiesta ha potuto beneficiare delle sue osservazioni come del lavoro realizzato da François Ruffin nell’ambito della trasmissione «Là-bas si j’y suis», dedicata agli «economisti di turno» (France Inter, 2 e 3 gennaio 2012).
(3) Olivier Pastré, «La sortie de l’euro, un suicide», Le Monde, 1° febbraio2012.
(4) Patrick Artus, «Si les économistes ont sous-estimé la crise, ce n’est pas par complicité avec les financiers», Le Monde, 10 settembre 2009.
(5) Rispettivamente il 3 ottobre, il 19 agosto e il 3 aprile 2011.
(6) Citato da Ben Casselman in «Economists set rules on ethics», The Wall Street Journal, New York, 9 gennaio 2012.
(7) Citato da Gilles Balbastre e Yannick Kergoat nel documentario Les Nouveaux Chiens de garde, Jem Productions, 2012.
(8) Jean-Hervé Lorenzi, «Qui va payer?», numero speciale «Crise financière: analyses et propositions», in Revue d’économie financière, Parigi, 2008, p. 468.
(9)The Wall Street Journal, op. cit.
(10) Investisseurs (rivista della società Rothschild), n° 4, dicembre 2011, p. 16-17.
(11) Intervista al Journal du dimanche, Parigi, 12 novembre 2011.
(12) Il calcolo è di Thomas Vescovi. (Traduzione di Fran. Bra.)
Editoriali, trasmissioni mattutine alla radio, palcoscenici televisivi: in piena campagna per le presidenziali, un pugno di economisti si spartisce l’intero spazio della comunicazione e delimita il terreno delle possibilità in campo. Presentati come accademici, incarnano il rigore tecnico nel mezzo della mischia ideologica. Ma se di questi “esperti” fossero note anche le altre attività, le loro analisi risulterebbero altrettanto credibili?
di Renaud Lambert
Si chiama «effetto Dracula»: allo stesso modo del celebre vampiro dei Carpazi, gli accordi illegittimi non possono resistere all’esposizione alla luce. Così, nel 1998, la scoperta del Multilateral agreement on investment (Mai), negoziato di nascosto allo scopo di accentuare la liberalizzazione dell’economia, ha determinato la sua disintegrazione. Questa volta, la controversia riguarda invece la collusione tra economisti e istituzioni finanziarie. Tanti fra gli accademici invitati dai media a illuminare il dibattito pubblico, ma anche dei ricercatori designati come consiglieri dai governi, sono infatti a libro paga di banche e grandi imprese. Può un esperto raccomandare quindi «in tutta indipendenza» la deregolamentazione finanziaria se allo stesso tempo occupa anche un posto da amministratore di un fondo d’investimento? Tali relazioni pericolose, fonte di conflitti d’interesse, non sono affatto un mistero. Tuttavia, i loro beneficiari si guardano bene dal renderle pubbliche. Prima del cataclisma del 2008, ci si accontentava dell’equivoco: i giornalisti esibivano i loro esperti che si presumevano neutri, i quali poi intascavano i dividendi della propria ubiquità sotto forma di maggiore notorietà e guadagni sicuri. Ma, dopo il 2008, gli economisti e i loro legami non passano più inosservati. L’effetto Dracula riuscirà ad avere ragione di questa forma di prevaricazione intellettuale? Per vincerla basterà renderla pubblica? La scommessa della prestigiosa American economic association (Aea) è proprio questa. Dall’inizio di quest’anno infatti, gli articoli pubblicati nelle riviste scientifiche aderenti all’associazione devono riportare gli eventuali conflitti d’interesse riguardanti gli autori. Gli economisti saranno così tenuti a menzionare «le “parti interessate” (1) che abbiano loro corrisposto una retribuzione finanziaria rilevante, vale a dire pari ad un ammontare superiore o uguale a 10.000 dollari [circa 7.600 euro] nel corso degli ultimi tre anni» (comunicato del 5 gennaio 2012). La misura riguarderà allo stesso modo le somme percepite da tutti coloro che agli autori sono «vicini». Alla testa di alcune fra le più prestigiose riviste del settore, la venerabile Aea, che si appresta a festeggiare il suo centotrentesimo compleanno, non va molto soggetta a infatuazioni passeggere. Ecco perché la sua decisione ha scosso gli animi. Dopo il successo del documentario Inside Job di Charles Ferguson, l’irritazione era ormai divenuta palpabile. Gli emolumenti di certi consiglieri nella cerchia del presidente Barack Obama coinvolti nella liberalizzazione del settore bancario avevano sollevato alcuni interrogativi nell’opinione pubblica. È il caso di Lawrence Summers, direttore del National economic council (Nec), che, tra il 2008 e il 2009, ha ricevuto 5,2 milioni di dollari dal fondo speculativo D.E. Shaw, e viene remunerato fino a 135.000 dollari per le sue conferenze, organizzate il più delle volte da società finanziarie – senza contare le sontuose collaborazioni con il Financial Times. La rabbia riecheggiava anche fra le stesse file degli economisti. Nel corso del 2011, ci spiega George DeMartino, dell’università di Denver, «una serie di studi scientifici ha dimostrato che i conflitti d’interesse costituiscono la regola piuttosto che l’eccezione». Il 3 gennaio 2011, per iniziativa dei professori Gerald Epstein e Jessica Carrick-Hagenbarth, una lettera aperta suonava un campanello d’allarme, invitando l’Aea a reagire. La missiva era firmata da più di trecento economisti, tra cui George Akerlof, premio Nobel per l’economia, e Christina Romer, ex-consigliera del presidente Obama. Dodici mesi più tardi, l’appello veniva ascoltato. Ma l’eco di tale sussulto etico fatica ad attraversare l’Atlantico (2)... Su Le Monde del 1° febbraio, l’economista Olivier Pastré sbraita contro i progetti di fuoriuscita dalla moneta unica europea, attribuendosi una missione: «Spiegare ai francesi più smarriti e più soggetti alla disinformazione quali sono i rischi di un abbandono dell’euro (3)». Il quotidiano della sera presenta l’autore come «professore di economia dell’università Paris-VIII». Ora, Pastré presiede anche la banca tunisina ImBank. E fa parte dei consigli di amministrazione della banca Crédit municipal de Paris (Cmp Banque), dell’Associazione dei direttori di banca, oltre che dell’Europlace institute of finance. Eppure, è il «professore universitario» che interviene ogni sabato mattina nella trasmissione di France Culture «L’Economie en questions», di cui è coproduttore. Se 2 +2 = 5 Quando gli sottoponiamo il caso, il professor Michael Woodford, membro del comitato direttivo dell’Aea, commenta: «Ecco un perfetto esempio del genere di situazione che ci ha indotto a reagire». L’associazione esorta infatti «l’insieme degli specialisti ad applicare gli stessi criteri a tutte le pubblicazioni: giornali accademici, editoriali, articoli di stampa, commenti radiofonici e televisivi». «Mi sembra che i lettori, continua infatti Woodford, abbiano il diritto di sapere all’occorrenza se l’esperto in questione difende una certa analisi o gli interessi dell’istituzione per la quale lavora». Pastré, nel suo articolo del 1° febbraio, assicurava che nell’ipotesi di un’uscita dall’euro, le banche «vedrebbero esplodere il costo del proprio indebitamento sia a corto che a lungo termine», dicendosi allarmato per l’eventuale «calo dei loro rendimenti». Per Patrick Artus, responsabile della ricerca economica per la banca Natixis e amministratore di Total, la tesi difesa da Woodford «ha un fondamento negli Stati uniti e nel Regno unito. Ma non credo veramente che possa applicarsi alla zona euro», perché «il numero di economisti legato alla finanza qui è molto più debole che nel mondo anglo-sassone (4)». Un piccolo gruppo, forse... ma certamente molto ben rappresentato tra gli esperti mediatici. 3 novembre 2011. La trasmissione del mattino di France Inter analizza le questioni in gioco al G20 in procinto di aprirsi a Cannes. E chi invita? «Jean Hervé Lorenzi, presidente del Cercle des économistes». Presentata solo in rare occasioni, l’associazione riunisce Jean-Paul Betbèze (capo economista di Crédit agricole), Laurence Boone (capo economista di Merrill Lynch), Anton Brender (capo economista di Dexia Asset Management), Artus, Pastré, ecc.
Qualche giorno dopo, sulla stessa emittente pubblica, la trasmissione «Le téléphone sonne» «tira le conclusioni» del vertice. Al microfono, «Jean Hervé Lorenzi, presidente del Cercle des économistes». Ed è sempre a questo titolo che Lorenzi, peraltro consigliere del candidato socialista alle presidenziali François Hollande, analizza il mercato immobiliare su Les Echos, il crollo delle Borse su Europe 1 o «le magnifiche sorti della Francia» su Rtl (5). Eppure, da questo biglietto da visita sono omessi diversi dettagli. Lorenzi siede nei consigli di amministrazione di PagesJaunes, di Associés en finance, dell’Association française des opérateurs mobiles (Afom), di BNP Baribas Assurance. Ricopre inoltre l’incarico di sindaco presso Euler Hermes, membro del collegio sindacale della Compagnie financière Saint-Honoré, di Bva, del Groupe Ginger e membro del comitato esecutivo della Compagnie financière Edmond de Rothschild Banque. Christian Saint-Etienne si presenta per parte sua come docente al Consevatoire national des arts et métiers (Cnam) su France 24 e come economista e analista politico sulle colonne del Point. Ma mai come consigliere scientifico del Conseil stratégique européen, una società di consulenza per la gestione dei patrimoni. Elie Cohen, anch’egli consigliere di François Hollande, compare, su France Inter o Le Figaro, come «direttore di ricerca» al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) e professore a Sciences Po, e mai come membro del consiglio di amministrazione delle aziende PagesJaunes ed Edf energies nouvelles. Jacques Mistral? È economista sulle colonne di Le Monde e su France Culture, o direttore degli studi economici all’Institut français des relations internationales (Ifri) per la trasmissione «C dans l’air» (France 5). Non come amministratore di Bnp Paribas Assurance. Daniel Cohen, consigliere di Martine Aubry, è più discreto rispetto al ruolo di senior advisor della banca Lazard – consulente ad esempio del governo greco per la rinegoziazione del proprio debito – rispetto a quando si tratta di ricordare la propria qualifica di professore di scienze economiche all’École normale supérieure e all’università Paris-I. Gettoni di presenza per i consigli di amministrazione delle grandi società (mediamente 35.000 euro a mandato per le società del Cac 40 e la metà per le altre società quotate, secondo le cifre dell’Insitut français des administrateurs [Ifa]), compilazione, dietro compenso, di rapporti... Esattamente come i loro colleghi americani, gli economisti francesi, osserva DeMartino, «dispongono di un gran numero di mezzi per guadagnare molto, molto denaro. Eppure, sanno meglio di altri che niente è gratuito e ogni beneficio implica un costo. E il costo, in questo caso, è la perdita d’indipendenza». «Sono discorsi che sanno di anni ‘30 – protesta Lorenzi. Il problema è capire se il modo in cui ci si guadagna da vivere influenza il proprio giudizio. E, in questa circostanza, non è così». Dopotutto, potrebbe osservare qualcuno, 2 + 2 fa sempre 4, che si scriva per conto di un’università o per quello di una banca. «Non c’è dubbio in proposito, risponde Woodford con un sorriso. Ma la maggior parte delle questioni con cui si confrontano gli economisti comporta giudizi più raffinati. E non bisogna illudersi: le nostre discussioni hanno un impatto diretto su certi interessi privati». Dovremmo concluderne, con la professoressa Deirdre McCloskey, dell’università dell’Illinois, che siamo in una situazione per cui «gli economisti si comportano come avvocati, schierati a favore di questo o quel punto di vista, indipendentemente dai fatti (6)»? O – per dirla in altro modo – che interessati al risultato, cerchino a volte di convincerci che 2 + 2 = 5? Autore del documentario Inside Job, Ferguson ha incontrato l’economista Frederic Mishkin, della Columbia business school: Ferguson. - Nel 2006, lei è stato cofirmatario di uno studio sul sistema finanziario islandese: «È un paese sviluppato dotato di istituzioni eccellenti. Poca corruzione. Stato di diritto, economia reindirizzata alla liberalizzazione finanziaria. Regolamentazione e vigilanza prudenziale di qualità». Mishkin. - L’errore stava proprio lì [nel 2008, l’economia islandese tracollava, ndr]. La regolamentazione e la vigilanza prudenziale si sono rivelate insoddisfacenti. - E chi vi ha indotto a credere il contrario? - Ci si affida alle informazioni di cui si dispone. E l’opinione generale voleva che l’Islanda avesse istituzioni eccellenti e fosse un paese molto avanzato. - Chi ve lo aveva detto? Che ricerche avete svolto? - Abbiamo sentito delle persone, ci siamo affidati alla banca centrale che, alla fine, non si è rivelata all’altezza. - Fidarsi della banca centrale, e perché? - Ci si affida alle informazioni che si hanno. - E quanto vi ha reso il lavoro? - Sono stato pagato... Le cifre sono pubbliche. Mishkin ha ricevuto 124.000 dollari [circa 95.000 euro] dalla camera di commercio islandese per redigere il suo studio. - Sul vostro curriculum vitae, il titolo del rapporto, «Stabilità finanziaria in Islanda», è stato cambiato in «Instabilità finanziaria in Islanda»... - Oh... Non so davvero perché, magari... può essere un refuso. Fedele avvocato del suo cliente o scienziato in errore, la differenza si rivela piuttosto labile talvolta. Ora, sottolinea DeMartino, «gli economisti godono di un privilegio che altre professioni non conoscono: non gli si chiede mai di rendere conto delle loro cantonate». Eppure ne prendono. Il 17 agosto 2007, la crisi dei subprime ha appena debuttato oltre l’Atlantico. Elie Cohen ne predice già la fine: «Nell’arco di qualche settimana, assicura, il mercato si aggiusterà e gli affari riprenderanno come prima» (Lemonde.fr). Sei mesi più tardi, su Direct 8, Alain Mine, banchiere d’affari e consigliere di Nicolas Sarkozy, si entusiasma per «l’incredibile plasticità del sistema»: «Avremmo detto che era regolato con una destrezza tale da farci evitare una crisi, che avrebbe potuto essere della stessa portata delle grandi crisi che abbiamo conosciuto nel passato! Ma resta ugualmente un universo in fondo perfettamente in grado di resistere agli urti improvvisi». Il verdetto? «L’economia mondiale è amministrata piuttosto bene». (8 gennaio) (7) Nel corso dello stesso anno, Lorenzi annuncia di avere ormai un’ «opinione precisa sull’argomento»: «la diagnosi delle banche centrali è stata rapida, corretta e fattiva. In una crisi del mercato interbancario, hanno saputo schivare con abilità la catastrofe; nella circostanza specifica, hanno evitato il fallimento delle banche ipotecarie negli Stati uniti e permesso a grandi gruppi bancari in pericolo di reintegrare, senza rischi per la liquidità, una parte dei loro prodotti finanziari cartolarizzati (8)». Le sue parole erano state appena pubblicate che la banca Lehman Brothers sprofondava, trascinando con sé una parte del sistema finanziario mondiale. Quanto ad Artus, redattore grafomane di Flash Economie di Natixis (cinque articoli al giorno in media), il 28 agosto 2008 andava strombazzando su Challenges – due settimane prima del crack: «L’affare dei subprime è ormai alle spalle». Successivamente, farà urla e strepiti contro l’idea che le banche paghino più tasse e continuino a finanziare le economie indebolite dalla crisi. «Non si può chiedere tutto alle banche», titolerà l’impiegato di Natixis nel suo Flash Economie del 18 agosto 2011. Ci si potrebbe interrogare sul rapporto esistente tra errori di giudizio così smaccati e le remunerazioni percepite dagli autori. Oppure esigere, con Epstein, che gli economisti siano resi «responsabili davanti ai propri colleghi, alla stampa, ai propri studenti e ai cittadini (9)». Ma dobbiamo davvero fingere di meravigliarci che un banchiere difenda gli interessi dei banchieri? Del resto, è proprio in questi termini che Lorenzi, ad esempio, vede la sua attività: «Sono quello che si chiama un senior banker, spiegava recentemente. In linea di massima, il mio scopo è tentare di sviluppare gli affari corrispondenti alle varie attività della Compagnie fiancière Edmond de Rothschild (10)». Lui e Pastré avevano in animo una tale missione allorché, nel loro libro Droite contre gauche? Les grands dossiers qui feront l’élection présidentielle (Fayard), pubblicato nel 2012, intimavano ai propri lettori di «rinunciare alle illusioni sullo stato protettore», di «fare definitivamente la scommessa audace del mercato», e, soprattutto, di evitare di «dare dei giudizi troppo affrettati» sull’industria bancaria? Jean-Pierre Jouyet, presidente dell’Autorità dei mercati finanziari (Amf) ed ex segretario di stato agli Affari europei di Sarkozy, lo scorso novembre diceva di temere che «alla lunga i cittadini si rivolteranno contro la dittatura di fatto [imposta dai mercati] (11)». Ma i «mercati» non esercitano già il proprio ascendente fin dentro l’Amf, incaricato di regolarli? Chi fa da consigliere all’autorità presieduta da Jouyet? Gli stessi mercati: Olivier Davanne (cogestore di Groupama Risk Premium), Olivier Garnier (vice direttore di Societé générale), Ruben Lee (amministratore delegato di Oxford Finance Group), Artus, Pastré, ecc. Ritorniamo ora negli Stati uniti, dove Ferguson intervista John Campbell, direttore del dipartimento di economia ad Harvard: Ferguson. - Un ricercatore medico scrive un articolo che dice: «Per curare tale patologia, occorre prescrivere questo farmaco». Si viene poi a sapere che il medico in questione riceve l’80% delle proprie entrate dal produttore di quel medicinale. Non la disturberebbe questo? Campbell. - Credo che sia sicuramente importante rendere pubblici... i, ehm... ehm... È un po’ diverso dai casi che abbiamo richiamato qui, perché... ehm... La pertinenza dell’analogia non è molto più evidente per Barbara Frugier, vice della direttrice alla comunicazione dell’Amf. «Ascolti, non conosco l’industria farmaceutica», dice interrompendo la domanda, per aggiungere: «Non capisco proprio dove lei voglia arrivare, infatti. A mio avviso, è del tutto normale rivolgersi a persone che abbiano la debita competenza». Eppure, secondo il sito dell’autorità, il collegio – incaricato, tra le altre cose, di approvare il bilancio dell’istituzione e in generale di fissare le regole interne – è, contrariamente al collegio scientifico, «sottoposto a norme deontologiche e di prevenzione dei conflitti d’interesse». Al momento di passare dal secondo cenacolo al primo, nel giugno del 2011, l’economista Christian de Boissieu, peraltro presidente del Conseil d’analyse économique (Cae), è dunque stato invitato a lasciare le sue funzioni di consulente del fondo speculativo Hdf Finance, di Ernst & Young, così come il posto che aveva nel comitato dei revisori dei conti della banca Neuflize Obc, del cui collegio sindacale rimane invece membro. «In attesa di lasciare al più presto anche il collegio sindacale, spiega, mi astengo (esco dalla sala e non partecipo in alcun modo alle deliberazioni) quando all’Amf si discute, direttamente o indirettamente, di quella banca». Per quanto lodevoli, gli accorgimenti dell’Amf e di Boissieu non comportano un’implicita disapprovazione di coloro che non ne adottano di analoghi? A cominciare, per esempio dai media? Giornalista di France Info, Jean Leymarie ha ospitato Lorenzi il 16 dicembre 2009, il 24 novembre 2010 e il 29 giugno 2011. È al corrente del ruolo del suo invitato all’interno della società Rothschild? «Sì, certamente!» E, nonostante questo, non lo ha ricordato in diretta? «I nostri ascoltatori non sono degli idioti. Lo sanno bene». E in che modo lo saprebbero, dal momento che i suoi colleghi adottano generalmente la stessa sua condotta, pur essendo perfettamente a conoscenza delle molteplici attività dei loro invitati? La menzogna degli esperti È con cognizione di causa che Jean-Marc Sylvestre invita Lorenzi per evocare i pericoli di una maggiore regolamentazione del settore bancario, su Lci (24 aprile 2010); che Yves Calvi dà la parola a Michel Godet e a Saint-Etienne per spiegare l’ineluttabilità delle politiche di rigore, nel corso della sua trasmissione, «C dans l’air», su France 5 (9 novembre 2011); e che il Financial Times concede le sue colonne a Summers per trarre le conseguenze della «crisi del capitalismo» (8 gennaio 2012). C’è davvero bisogno di ascoltare attentamente le risposte quando si pongono domande simili a simili invitati? Forse l’informazione dei francesi non subirebbe un’amputazione troppo severa se la stampa consacrasse più spazio – qualche riga, qualche secondo di diretta – a una presentazione completa dei suoi esperti: «D’altronde sarebbe talmente semplice che mi stupisco che non sia già così», ci risponde l’economista Hubert Kempf, presidente dell’Association française de science économique (Afse), ritenuto un «ortodosso». La sua organizzazione intende interpellare i propri membri sulla questione dei conflitti d’interesse? «Forse organizzeremo una tavola rotonda al nostro prossimo congresso», nel luglio 2012. E per quanto riguarda l’Association française d’économie politique (Afep), costituita due anni or sono per promuovere un maggior pluralismo all’interno della professione? «Non ancora formalmente, anche se la questione qui registra un consenso a priori», ci segnala Nicolas Postel, segretario dell’associazione. «Ma, aggiunge, ritenere che il problema si limiti ad una questione di conflitto d’interessi costituisce, a mio modo di vedere, un errore». Altra situazione ipotetica. Nella sua edizione del 14 febbraio, Le Monde pubblica, nella rubrica «Esteri», un’analisi della crisi greca. La giornalista Claire Gatinois vi cita diversi economisti, tutti direttamente collegati al mondo della finanza. Ora, qui non c’è nessun conflitto d’interessi: i ruoli sono chiaramente identificati. Christopher Probyn? «Capo economista di State Street, gruppo finanziario con sede a Boston» (citato tre volte). Natacha Valla? «Economista di Goldman Sachs» (citata tre volte). Jésus Castillo? «Economista di Natixis». Senza contare «gli esperti di Ubs». Probabilmente Gatinois pensa che gli «economisti bancari» siano i meglio posizionati per analizzare una crisi come quella che scuote la Grecia. «E perché lo sarebbero?, obietta Postel. Su una materia come questa, dai media non ci si attende una rassegna tutta tecnica di meccanismi finanziari oscuri, ma una riflessione fondamentale sullo statuto del debito di quel paese: è legittimo? Da dove viene? E, su questo piano, gli economisti bancari non sono necessariamente i più competenti». Come figurarci un economista di Goldman Sachs capace di affermare che la crisi greca deriva da un debito illegittimo che bisognerebbe non pagare? «No, mi sembra assai poco verosimile», ammette Gatinois. «In quell’articolo, spiega, ho pensato che fosse interessante interrogare degli economisti bancari, di orientamento smaccatamente liberista, per mostrare come anch’essi siano preoccupati della situazione greca». Si trattava insomma di presentare, una sola volta non fa un’abitudine, il punto di vista dei liberisti. Questa sorta di riflesso professionale sembra assalire i grandi giornali più di quanto non faccia quello di interrogare, ad esempio, dei rappresentanti sindacali – i quali sono come minimo altrettanto informati che gli economisti liberisti sui meccanismi e le conseguenze del dramma sociale in corso. Tanto per fare un caso, ad ottobre 2011 Gatinois ha dato la parola a quaranta economisti, gruppi di economisti e affini. Ventinove lavoravano direttamente per delle banche o delle istituzioni finanziarie e tre soltanto parlavano a nome dei sindacati. Tra il 1° settembre 2008 e il 31 dicembre 2011, Le Monde ha citato Artus – responsabile della ricerca per la banca Natixis – in centoquarantasette articoli (con quattro editoriali firmati). Più spesso di Jacques Attali (centotrentadue articoli) e di Mine (centodiciotto) . E molte più volte di Jean Gadrey (cinque articoli di argomento economico) e Frédéric Lordon (quattro) (12). Proporzioni simili a quelle che riscontreremmo sui quotidiani Libération o Le Figaro, oltre che sulla maggior parte delle riviste. In queste condizioni, potrebbe bastare una maggiore trasparenza ad aver ragione della tendenza naturale dei professionisti della finanza a difendere... gli interessi della finanza?
note:
(1) Le «parti interessate» sono definite come «qualunque soggetto, gruppo o organizzazione implicati, finanziariamente, ideologicamente o politicamente nel contenuto dell’articolo».
(2) L’economista Jean Gadrey ha esposto i dati del problema nel suo saggio «Les liaisons dangereuses», 21 settembre 2009, http://alternatives-economiques.fr/blogs/gadrey. La nostra inchiesta ha potuto beneficiare delle sue osservazioni come del lavoro realizzato da François Ruffin nell’ambito della trasmissione «Là-bas si j’y suis», dedicata agli «economisti di turno» (France Inter, 2 e 3 gennaio 2012).
(3) Olivier Pastré, «La sortie de l’euro, un suicide», Le Monde, 1° febbraio2012.
(4) Patrick Artus, «Si les économistes ont sous-estimé la crise, ce n’est pas par complicité avec les financiers», Le Monde, 10 settembre 2009.
(5) Rispettivamente il 3 ottobre, il 19 agosto e il 3 aprile 2011.
(6) Citato da Ben Casselman in «Economists set rules on ethics», The Wall Street Journal, New York, 9 gennaio 2012.
(7) Citato da Gilles Balbastre e Yannick Kergoat nel documentario Les Nouveaux Chiens de garde, Jem Productions, 2012.
(8) Jean-Hervé Lorenzi, «Qui va payer?», numero speciale «Crise financière: analyses et propositions», in Revue d’économie financière, Parigi, 2008, p. 468.
(9)The Wall Street Journal, op. cit.
(10) Investisseurs (rivista della società Rothschild), n° 4, dicembre 2011, p. 16-17.
(11) Intervista al Journal du dimanche, Parigi, 12 novembre 2011.
(12) Il calcolo è di Thomas Vescovi. (Traduzione di Fran. Bra.)
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