di ANTONIO MARTINS. democraziakmzero
Outras Palavras (www.outraspalavras.net, sito di San Paolo del Brasile che si occupa di “internet e post-capitalismo”, ndt) pubblica un brillante e provocatorio testo dell’economista Ricardo Abramovay. Nel recensire “La terza rivoluzione industriale” (pubblicato in Italia da Mondadori, ndt) di Jeremy Rifkin, richiama l’attenzione su alcune caratteristiche della possibile transizione a una economia post-petrolifera e post-comunicazioni di massa. Il nuovo paradigma produttivo avrebbe, come motore, l’energia generata in milioni di “microfabbriche” – edifici comuni, condomini o case che catturerebbero il potenziale energetico del vento o del sole per ridistribuirlo attraverso reti molto sofisticate. Così, gli attuali consumatori di elettricità diventebbero “prossimitori” – ossia sarebbero in grado di iniettare nel circuito l’energia che producono.
Nons i tratta di una immaginazione lontana nel tempo, ma di qualcosa che è nell’orizzonte degli attuali sviluppi tecnologici. Quel che Rifkin e Abramovay sottolineano è che, per sua stessa natura, questo nuovo paradigma rovescerebbe la concentrazione di potere che esiste nel mondo dei grandi giacimenti di petrolio e delle mega-centrali. Questo paradigma esigerebbe un potere “condiviso, decentrato e cooperativo”, come Internet. Di più: presentando Rifkin, Abramovay evidenzia i suoi legami con influenti leader politici (la cancelliera tedesca Angela Merkel, tra gli altri) e il mondo della mega-imprese. Vale a dire, l’ipotesi sarebbe quella di una evoluzione più o meno naturale per il nuovo standard – anche se Abramovay aggiunge: “Nessuna garanzia”.
La medesima ipotesi di una auto-riforma del capitalismo è stata avanzata dal giornalista Luis Nassif, nella sua rubrica economica di questa domenica (nel sito http://www.advivo.com.br/, ndt). Nassif prevede un ritorno alla fase post-Seconda Guerra Mondiale, in cui il sistema promosse una certa redistribuzione della ricchezza. Anche Nassif si basa su lavori di ricerca e di ampiezza internazionale. In questo caso, “Capitalism in crisis”, una serie coraggiosa di articoli che il non sospetto Financial Times sta pubblicando, in particolare un testo di Martin Wolf, principale editorialista del giornale. Qui, l’angolo visuale non è la tecnologia, ma le politiche economiche. Wolf si scontra con la credenza che ha orientato il Financial Times e gli economisti mainstream per tre decenni: la presunta capacità dei mercati di guidare la vita sociale. Wolf afferma, al contrario, che i beni pubblici – comprese le politiche sociali – sono i “blocchi strutturali della civiltà”. E aggiunge che un mondo globalizzato avrà bisogno di beni pubblici più sofisticati e di portata internazionale. Nassif ci ricorda che idee simili sono appena state esposte, al Forum economico mondiale di Davos, da Lawrence Summers, “uno dei teorici principali del Washington Consensus”.
Nei testi di Abramovay e Nassif c’è, naturalmente, un pizzico generoso di ottimismo illusorio – ma anche osservazioni essenziali per questo periodo, in cui ci avviciniamo alla Conferenza Rio +20 . L’esagerazione sta nel pensare che le possibilità offerte dalla tecnologia, o la riflessione sulle cause della crisi, saranno sufficienti a spingere il capitalismo a qualcosa come una auto-riforma.
La realtà ha dimostrato il contrario. Pochi giorni fa, nel Forum sociale tematico di Porto Alegre, Boaventura Santos ha ricordato : la ricerca di energia pulita viene trascurata dai governi eeuropeia – gli stessi che dieci anni fa erano i più interessati a promuoverle. In quesi paesi si stanno smontando, a velocità impressionante, le politiche sociali che Martin Wolf, con lucidità, giudica sempre più necessarie. Il capitale non è mosso dalla ragione. Nel ricordare, questo lunedì, i 79 anni dall’inizio del terzo Reich, Max Altman ha mostrato come i gruppi imprenditoriali più importanti siano stati parte del movimento ha profittato di una profonda crisi dell’economia tedesca per costruire il totalitarismo nazista. Le riforme keynesiane del dopoguerra, evocate da Nassif, sono stati causate da un altro fattore. L’ascesa del movimento operaio e, più tardi, quella dell’Unione Sovietica costrinsero il sistema a concessioni molto importanti.
Ma è proprio su questo punto che si vedono l’importanza e la necessità dei testi di Abramovay e Nassif. Grazie ai due fattori che essi mostrano nei loro articoli, è diventato possibile in questi ultimi anni, ottenere cambiamenti che fino a poco tempo fa apparivano come deliri. Si è aperto un ampio sentiero, forse ancora poco esplorato da parte dei movimenti sociali, della sinistra istituzionale, degli indignados e del movimento Occupy – tutti coloro, insomma, che cercano di costruire nuove logiche sociali.
Da anni, i cambiamenti tecnologici e le nuove forme di organizzazione del lavoro stanno aprendo uno spazio per costruire, anche sotto l’egemonia del capitalismo, relazioni sociali di altra natura. Tra molti altri, l’esempio più evidente – per la sua importanza economica e la densità delle reti che lo costruiscono – è il software libero. Che si afferma nel mondo delle imprese per la sua sicurezza, l’innovazione, la robustezza. Utilizzato sempre più intensamente (dai servizi di Google alle casse dei supermercati di Rio), il software libero è, però, sviluppato in comunità che non sono sottomesse alle imprese, e che operano favorendo la collaborazione e la condivisione e rifiutando la proprietà. Adottandolo, il capitale apre brecce, rivela che non può imporre i suoi standard di centralizzazione, gerarchia e controllo in tutto il mondo della produzione. La possibilità reale – sottolineata da Abramovay – che questo modello si espanda in un settore così strategico come la produzione di energia rivela quanto può crescere nel prossimo futuro lo spazio per rapporti post-capitalisti di produzione.
La finestra di opportunità è maggiore grazie all’incertezza circa la direzione delle politiche economiche. E’ probabilmente troppo presto per festeggiare la fine del neoliberismo – mai sono state così evidenti le ingiustizie e disuguaglianze, le minacce alla democrazia, l’ inefficienza proprio nel garantire la “stabilità”. Ma a parte questo, si moltiplicano in periferia – al di fuori di Europa, Nord America e Giappone – le esperienze di successo di percorsi alternativi basate sulla redistribuzione della ricchezza e la garanzia dei diritti sociali.
Cioè, non si tratta di credere in un capitalismo che si auto-riformi – ma di rendersi conto che le nuove relazioni sociali, post-capitaliste, vengono create e si moltiplicano già adesso. Che si espandano, e anche che si sostengano, dipende da una intensa lotta sociale. Basta vedere, ad esempio, l’insistente campagna per bloccare la condivisione via Internet, spinta dalle imprese più legate alla logica della proprietà.
Ma, vent’anni dopo la caduta del “socialismo reale”, ha sempre meno senso credere che i grandi cambiamenti dipendano dalla presa del potere. Queste trasformazioni stanno accadendo sotto i nostri occhi o con la nostra presenza attiva. Sono imperfette, impure, contraddittorie. Sono immerse in un mondo la cui principale logica è la dittatura dei mercati. Ma contaminano questo mondo incessantemente con la collaborazione, la condivisione, la de-gerarchizzazione, i diritti, l’uguaglianza, la diversità, gli affetti. Sopravviveranno? Prenderanno il sopravvento? Dipende dalla nostre lotte – quelle di adesso.
Pubblicato dal sito www.outraspalavras.net e tradotto da Democrazia km zero.
Outras Palavras (www.outraspalavras.net, sito di San Paolo del Brasile che si occupa di “internet e post-capitalismo”, ndt) pubblica un brillante e provocatorio testo dell’economista Ricardo Abramovay. Nel recensire “La terza rivoluzione industriale” (pubblicato in Italia da Mondadori, ndt) di Jeremy Rifkin, richiama l’attenzione su alcune caratteristiche della possibile transizione a una economia post-petrolifera e post-comunicazioni di massa. Il nuovo paradigma produttivo avrebbe, come motore, l’energia generata in milioni di “microfabbriche” – edifici comuni, condomini o case che catturerebbero il potenziale energetico del vento o del sole per ridistribuirlo attraverso reti molto sofisticate. Così, gli attuali consumatori di elettricità diventebbero “prossimitori” – ossia sarebbero in grado di iniettare nel circuito l’energia che producono.
Nons i tratta di una immaginazione lontana nel tempo, ma di qualcosa che è nell’orizzonte degli attuali sviluppi tecnologici. Quel che Rifkin e Abramovay sottolineano è che, per sua stessa natura, questo nuovo paradigma rovescerebbe la concentrazione di potere che esiste nel mondo dei grandi giacimenti di petrolio e delle mega-centrali. Questo paradigma esigerebbe un potere “condiviso, decentrato e cooperativo”, come Internet. Di più: presentando Rifkin, Abramovay evidenzia i suoi legami con influenti leader politici (la cancelliera tedesca Angela Merkel, tra gli altri) e il mondo della mega-imprese. Vale a dire, l’ipotesi sarebbe quella di una evoluzione più o meno naturale per il nuovo standard – anche se Abramovay aggiunge: “Nessuna garanzia”.
La medesima ipotesi di una auto-riforma del capitalismo è stata avanzata dal giornalista Luis Nassif, nella sua rubrica economica di questa domenica (nel sito http://www.advivo.com.br/, ndt). Nassif prevede un ritorno alla fase post-Seconda Guerra Mondiale, in cui il sistema promosse una certa redistribuzione della ricchezza. Anche Nassif si basa su lavori di ricerca e di ampiezza internazionale. In questo caso, “Capitalism in crisis”, una serie coraggiosa di articoli che il non sospetto Financial Times sta pubblicando, in particolare un testo di Martin Wolf, principale editorialista del giornale. Qui, l’angolo visuale non è la tecnologia, ma le politiche economiche. Wolf si scontra con la credenza che ha orientato il Financial Times e gli economisti mainstream per tre decenni: la presunta capacità dei mercati di guidare la vita sociale. Wolf afferma, al contrario, che i beni pubblici – comprese le politiche sociali – sono i “blocchi strutturali della civiltà”. E aggiunge che un mondo globalizzato avrà bisogno di beni pubblici più sofisticati e di portata internazionale. Nassif ci ricorda che idee simili sono appena state esposte, al Forum economico mondiale di Davos, da Lawrence Summers, “uno dei teorici principali del Washington Consensus”.
Nei testi di Abramovay e Nassif c’è, naturalmente, un pizzico generoso di ottimismo illusorio – ma anche osservazioni essenziali per questo periodo, in cui ci avviciniamo alla Conferenza Rio +20 . L’esagerazione sta nel pensare che le possibilità offerte dalla tecnologia, o la riflessione sulle cause della crisi, saranno sufficienti a spingere il capitalismo a qualcosa come una auto-riforma.
La realtà ha dimostrato il contrario. Pochi giorni fa, nel Forum sociale tematico di Porto Alegre, Boaventura Santos ha ricordato : la ricerca di energia pulita viene trascurata dai governi eeuropeia – gli stessi che dieci anni fa erano i più interessati a promuoverle. In quesi paesi si stanno smontando, a velocità impressionante, le politiche sociali che Martin Wolf, con lucidità, giudica sempre più necessarie. Il capitale non è mosso dalla ragione. Nel ricordare, questo lunedì, i 79 anni dall’inizio del terzo Reich, Max Altman ha mostrato come i gruppi imprenditoriali più importanti siano stati parte del movimento ha profittato di una profonda crisi dell’economia tedesca per costruire il totalitarismo nazista. Le riforme keynesiane del dopoguerra, evocate da Nassif, sono stati causate da un altro fattore. L’ascesa del movimento operaio e, più tardi, quella dell’Unione Sovietica costrinsero il sistema a concessioni molto importanti.
Ma è proprio su questo punto che si vedono l’importanza e la necessità dei testi di Abramovay e Nassif. Grazie ai due fattori che essi mostrano nei loro articoli, è diventato possibile in questi ultimi anni, ottenere cambiamenti che fino a poco tempo fa apparivano come deliri. Si è aperto un ampio sentiero, forse ancora poco esplorato da parte dei movimenti sociali, della sinistra istituzionale, degli indignados e del movimento Occupy – tutti coloro, insomma, che cercano di costruire nuove logiche sociali.
Da anni, i cambiamenti tecnologici e le nuove forme di organizzazione del lavoro stanno aprendo uno spazio per costruire, anche sotto l’egemonia del capitalismo, relazioni sociali di altra natura. Tra molti altri, l’esempio più evidente – per la sua importanza economica e la densità delle reti che lo costruiscono – è il software libero. Che si afferma nel mondo delle imprese per la sua sicurezza, l’innovazione, la robustezza. Utilizzato sempre più intensamente (dai servizi di Google alle casse dei supermercati di Rio), il software libero è, però, sviluppato in comunità che non sono sottomesse alle imprese, e che operano favorendo la collaborazione e la condivisione e rifiutando la proprietà. Adottandolo, il capitale apre brecce, rivela che non può imporre i suoi standard di centralizzazione, gerarchia e controllo in tutto il mondo della produzione. La possibilità reale – sottolineata da Abramovay – che questo modello si espanda in un settore così strategico come la produzione di energia rivela quanto può crescere nel prossimo futuro lo spazio per rapporti post-capitalisti di produzione.
La finestra di opportunità è maggiore grazie all’incertezza circa la direzione delle politiche economiche. E’ probabilmente troppo presto per festeggiare la fine del neoliberismo – mai sono state così evidenti le ingiustizie e disuguaglianze, le minacce alla democrazia, l’ inefficienza proprio nel garantire la “stabilità”. Ma a parte questo, si moltiplicano in periferia – al di fuori di Europa, Nord America e Giappone – le esperienze di successo di percorsi alternativi basate sulla redistribuzione della ricchezza e la garanzia dei diritti sociali.
Cioè, non si tratta di credere in un capitalismo che si auto-riformi – ma di rendersi conto che le nuove relazioni sociali, post-capitaliste, vengono create e si moltiplicano già adesso. Che si espandano, e anche che si sostengano, dipende da una intensa lotta sociale. Basta vedere, ad esempio, l’insistente campagna per bloccare la condivisione via Internet, spinta dalle imprese più legate alla logica della proprietà.
Ma, vent’anni dopo la caduta del “socialismo reale”, ha sempre meno senso credere che i grandi cambiamenti dipendano dalla presa del potere. Queste trasformazioni stanno accadendo sotto i nostri occhi o con la nostra presenza attiva. Sono imperfette, impure, contraddittorie. Sono immerse in un mondo la cui principale logica è la dittatura dei mercati. Ma contaminano questo mondo incessantemente con la collaborazione, la condivisione, la de-gerarchizzazione, i diritti, l’uguaglianza, la diversità, gli affetti. Sopravviveranno? Prenderanno il sopravvento? Dipende dalla nostre lotte – quelle di adesso.
Pubblicato dal sito www.outraspalavras.net e tradotto da Democrazia km zero.
Nessun commento:
Posta un commento