maurizioacerbo
Come ha fatto Bill Gates a diventare l’uomo più ricco d’America? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con la produzione di un buon software Microsoft a prezzi inferiori rispetto ai suoi concorrenti, o con lo ’sfruttare’ i suoi lavoratori con più successo (Microsoft paga i lavoratori intellettuali uno stipendio relativamente alto). Milioni di persone ancora acquistano il software Microsoft, perché Microsoft si è imposto come uno standard quasi universale, praticamente monopolizzando il campo, come una incarnazione di ciò che Marx chiamava il ‘General Intellect’, con la quale egli intendeva la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza al know-how pratico. Gates effettivamente ha privatizzato parte del general intellect ed è diventato ricco appropriandosi della rendita che ne seguì.
La possibilità della privatizzazione del General Intellect era qualcosa che Marx non ha mai previsto nei suoi scritti sul capitalismo (in gran parte perché ha trascurato la sua dimensione sociale). Eppure questo è al centro delle lotte di oggi sulla proprietà intellettuale: come il ruolo del General Intellect – basato sulla conoscenza collettiva e la cooperazione sociale – cresce nel capitalismo post-industriale, così la ricchezza si accumula al di fuori di ogni proporzione con il lavoro speso nella sua produzione. Il risultato non è, come Marx sembra avere previsto, l’auto-dissoluzione del capitalismo, ma la graduale trasformazione del profitto generato dallo sfruttamento del lavoro in rendita appropriata attraverso la privatizzazione della conoscenza.
Lo stesso vale per le risorse naturali, lo sfruttamento delle quali è una delle principali fonti mondiali di rendita. Vi è una lotta permanente su chi si appropria di questa rendita: i cittadini del Terzo Mondo o le grandi imprese occidentali. E’ ironico che nello spiegare la differenza tra il lavoro (che nel suo uso produce plusvalore) e altre materie prime (che consumano tutto il loro valore nel loro utilizzo), Marx dà il petrolio come un esempio di una merce ‘ordinaria’. Qualsiasi tentativo ora di collegare l’aumento e la diminuzione del prezzo del petrolio con l’aumento o la diminuzione dei costi di produzione o il costo del lavoro sfruttato non avrebbe senso: i costi di produzione sono trascurabili in proporzione al prezzo che paghiamo per il petrolio, un prezzo che è davvero la rendita che i proprietari della risorsa possono comandare grazie alla sua offerta limitata.
Una conseguenza della crescita della produttività causata dall’impatto della crescita esponenziale della conoscenza collettiva è un cambiamento nel ruolo di disoccupazione. E’ il vero successo del capitalismo (maggiore efficienza, produttività elevata ecc.) che produce disoccupazione, rendendo i lavoratori sempre più inutili: quello che dovrebbe essere una benedizione – meno bisogno di duro lavoro – diventa una maledizione. O, per dirla diversamente, la possibilità di essere sfruttati in un lavoro di lunga durata è ormai vissuta come un privilegio. Il mercato mondiale, come Fredric Jameson ha evidenziato, è “uno spazio in cui ognuno una volta è stato un lavoratore produttivo, e in cui il lavoro ha iniziato dappertutto a dare un prezzo a se stesso fuori dal sistema”.
Nel processo di globalizzazione capitalistica, la categoria dei disoccupati non è più limitata all’ ‘esercito di riserva del lavoro’ di Marx, ma include anche, come nota Jameson, ‘quelle enormi popolazioni in tutto il mondo che sono, per così dire, “cadute fuori dalla storia “, che sono state volutamente escluse dai progetti di modernizzazione del capitalismo del Primo Mondo e liquidati come casi disperati o terminali ‘: i cosiddetti stati falliti (Congo, Somalia), vittime della fame o di un disastro ecologico, quelli intrappolati da pseudo -arcaici ‘odi etnici’, oggetti di filantropia e ONG o bersagli della guerra al terrore. La categoria dei disoccupati si è così esteso a vaste gamme di persone, dai temporaneamente disoccupati, non più occupabili e permanentemente disoccupati, agli abitanti dei ghetti e delle baraccopoli (tutti coloro spesso respinti dallo stesso Marx come ‘lumpen-proletari’) e, infine, alle intere popolazioni e agli stati esclusi dal processo capitalistico globale, come gli spazi vuoti sulle mappe antiche.
Alcuni dicono che questa nuova forma di capitalismo offre nuove possibilità di emancipazione. Questa in ogni caso è la tesi di Moltitudine di Hardt e Negri , che cerca di radicalizzare Marx, il quale dichiarò che se solo tagliassimo la testa del capitalismo otterremmo il socialismo.
Marx per come lo lo vedono, è stato storicamente condizionato: pensava in termini di lavoro industriale centralizzato e automatizzato e gerarchicamente organizzato, con il risultato che ha compreso ‘il General Intellect’ come un qualcosa quasi come un’agenzia centrale di pianificazione; è solo oggi, con la crescita del ‘lavoro immateriale’, che un rovesciamento rivoluzionario è diventato ‘oggettivamente possibile’.
Questo lavoro immateriale si estende tra due poli: dal lavoro intellettuale (la produzione di idee, testi, programmi per computer ecc.) al lavoro affettivo (effettuato da medici, baby sitter e personale di volo). Oggi, il lavoro immateriale è egemone nel senso in cui Marx proclamò che, nel capitalismo del 19 ° secolo, la grande produzione industriale era egemone: non si impone con la forza dei numeri, ma giocando il ruolo emblematico strutturale chiave. Ciò che emerge è un nuovo vasto campo chiamato il ‘comune’: la conoscenza condivisa e le nuove forme di comunicazione e cooperazione. I prodotti di produzione immateriale non sono oggetti, ma nuovi rapporti sociali e interpersonali, la produzione immateriale è bio-politica, la produzione della vita sociale.
Hardt e Negri stanno qui descrivendo il processo che gli ideologi del capitalismo odierno ‘postmoderno’ celebrano come il passaggio dalla produzione materiale alla simbolica, dalla logica centralistica-gerarchica alla logica dell’autorganizzazione e della cooperazione policentrica. La differenza è che Hardt e Negri sono fedeli a Marx: stanno cercando di dimostrare che aveva ragione, che l’ascesa del general intellect è a lungo termine incompatibile con il capitalismo. Gli ideologi del capitalismo postmoderno stanno facendo esattamente l’opposta dichiarazione: la teoria (e la pratica) marxista , essi sostengono, rimane entro i limiti della logica gerarchica del controllo statale centralizzato e quindi non può far fronte agli effetti sociali della rivoluzione informatica. Ci sono buone ragioni empiriche per questa affermazione: ciò che effettivamente ha rovinato i regimi comunisti era la loro incapacità di adattarsi alla nuova logica sociale sostenuta dalla rivoluzione informatica. Hanno cercato di guidare la rivoluzione, per renderla ancora un altro progetto su larga scala di pianificazione centralizzata di stato. Il paradosso è che ciò che Hardt e Negri celebrano come l’opportunità unica di superare il capitalismo è celebrato dagli ideologi della rivoluzione informatica, come la nascita di un nuovo capitalismo ‘privo di attrito’.
L’analisi Hardt e Negri ha alcuni punti deboli, che ci aiutano a capire come il capitalismo ha potuto sopravvivere a ciò che avrebbe dovuto essere (in termini marxisti classici) una nuova organizzazione della produzione che lo rendeva obsoleto. Essi sottovalutano la misura in cui il capitalismo di oggi ha con successo (nel breve termine almeno) privatizzato il General Intellect stesso, così come la misura in cui, più che la borghesia, i lavoratori stessi stanno diventando superflui (con un numero sempre più grande che diventa non solo temporaneamente disoccupato ma strutturalmente inoccupabile).
Se il vecchio capitalismo idealmente coinvogeva un imprenditore che investiva denaro (proprio o preso in prestito) nella produzione che aveva organizzato e conduceva, e poi riscuoteva il profitto da questa, un nuovo tipo ideale sta emergendo oggi: non è più l’imprenditore che possiede la sua azienda, ma il manager esperto (o un consiglio manageriale presieduto da un CEO) che gestisce una società partecipata da banche (anche gestito da manager che non possiedono la banca) o da investitori dispersi. In questo nuovo tipo ideale di capitalismo, la vecchia borghesia, resa non funzionale, è rifunzionalizzata come management salariato : i membri della nuova borghesia ottengono salari, e anche se posseggono una quota della loro società, guadagnano stocks come parte della loro retribuzione (dei bonus per il loro “successo”).
Questa nuova borghesia si appropria ancora plusvalore, ma nella (mistificata) forma di ciò che è stato chiamato ’salario surplus’: sono pagati assai più del proletario’ salario minimo ‘(un punto spesso mitico di riferimento il cui unico esempio reale nell’ economia globale odierna è il salario di un operaio sweatshop in Cina o in Indonesia), ed è questa distinzione dai comuni proletari che determina il loro stato. La borghesia in senso classico così tende a scomparire: riappaiono capitalisti come un sottoinsieme dei lavoratori , in quanto manager che si sono qualificati per guadagnare di più in virtù della loro competenza (ed è per questo che la pseudo-scientifica ‘valutazione’ è fondamentale: essa legittima le disparità) . Lungi dall’essere limitata ai manager, la categoria di lavoratori che percepiscono un salario surplus si estende a tutti i tipi di esperti, amministratori, funzionari pubblici, medici, avvocati, giornalisti, intellettuali e artisti. Il surplus assume due forme: più soldi (per i manager, ecc), ma anche meno lavoro e più tempo libero (per – alcuni – intellettuali, ma anche per gli amministratori dello Stato, ecc).
La procedura di valutazione utilizzata per decidere quale i lavoratori ricevono un salario surplus è un meccanismo arbitrario del potere e dell’ideologia, senza alcun legame serio con reale competenza ; il salario surplus non esiste per lo sviluppo economico, ma per ragioni politiche: per mantenere una ‘classe media’ ai fini della stabilità sociale. L’arbitrarietà della gerarchia sociale non è un errore, ma Il punto centrale, con l’arbitrarietà della valutazione a svolgere un ruolo analogo al l’arbitrarietà del successo sul mercato. La violenza minaccia di esplodere non quando c’è troppa contingenza nello spazio sociale, ma quando si cerca di eliminarla.
In La Marque du sacré, Jean-Pierre Dupuy concepisce la gerarchia come una delle quattro procedure (’dispositifs symboliques’) la cui funzione è quella di rendere il rapporto di superiorità non umiliante: la gerarchia stessa (un ordine imposto dall’esterno che mi permette di vivere il mio più basso status sociale come indipendente dal mio valore intrinseco), demistificazione (la procedura ideologica che dimostra che la società non è una meritocrazia, ma il prodotto di oggettive lotte sociali, che mi permette di evitare la conclusione dolorosa che la superiorità di qualcun altro è il risultato del suo merito e dei suoi risultati ); contingenza (un meccanismo simile, mediante il quale veniamo a capire che la nostra posizione nella scala sociale dipende da una lotteria naturale e sociale, i più fortunati sono coloro che sono nati con i geni giusti in famiglie benestanti), e la complessità (forze incontrollabili hanno conseguenze imprevedibili, per esempio, la mano invisibile del mercato può portare al mio fallimento e al successo del mio vicino, anche se lavoro molto più duro e sono molto più intelligente). Contrariamente alle apparenze, questi meccanismi non contestano o minacciano la gerarchia, ma la rendono accettabile, dal momento che ‘ciò che fa scattare il tumulto di invidia è l’idea che l’altro è degno della sua buona fortuna e non l’idea opposta – che è l’unica che può essere apertamente espressa. ‘Dupuy trae da questa premessa la conclusione che si tratta di un grave errore pensare che una ragionevolmente giusta società che si percepisce anche come giusta sarà priva di risentimento: al contrario, è in queste società che coloro che occupano posizioni inferiori troveranno uno sbocco per il loro orgoglio ferito in violente esplosioni di risentimento.
Collegato a questo è l’impasse affrontato dalla Cina di oggi: l’obiettivo ideale delle riforme di Deng era di introdurre il capitalismo senza una borghesia (in quanto avrebbe costituito la nuova classe dominante); ora, tuttavia, i leader cinesi stanno facendo la dolorosa scoperta che il capitalismo senza la gerarchia consolidata attivata dall’esistenza di una borghesia genera instabilità permanente. Quindi, quale strada prenderà la Cina? Gli ex comunisti in genere stanno emergendo come i gestori più efficienti del capitalismo, perché la loro inimicizia storica nei confronti della borghesia come classe si inserisce perfettamente nella tendenza del capitalismo a diventare un capitalismo manageriale senza una borghesia – in entrambi i casi, come Stalin stabilì molto tempo fa, ‘i quadri decidono tutto’ (una differenza interessante tra la Cina odierna e la Russia: in Russia, docenti universitari sono ridicolmente sottopagati – sono di fatto già parte del proletariato -, mentre in Cina ricevono un salario surplus confortevole per garantire la loro docilità).
La nozione di retribuzione eccedente getta anche nuova luce sulle continue proteste’anti-capitaliste . In tempi di crisi, i candidati ovvi per ’stringere la cinghia’ sono ai livelli più bassi della borghesia : la protesta politica è la loro unica risorsa, se si vuole evitare di entrare nel proletariato. Anche se le loro proteste sono nominalmente dirette contro la logica brutale del mercato, loro stanno in realtà protestando contro la progressiva erosione della loro (politicamente) posizione economica privilegiata . Ayn Rand ha una fantasia in La rivolta di Atlante (Atlas Shrugged) di ‘creativi’ capitalisti in sciopero, una fantasia che trova la sua realizzazione pervertita negli scioperi odierni, la maggior parte delle quali sono condotti da una ‘una borghesia ‘ spinta dalla paura di perdere il proprio salario surplus. Non si tratta di proteste proletarie, ma di proteste contro la minaccia di essere ridotti a comuni proletari Chi osa scioperare oggi, quando avere un lavoro a tempo indeterminato è di per sé un privilegio? Non i lavoratori a bassa retribuzione in ciò che rimane dell’ industria tessile, ma quei lavoratori privilegiati che hanno posti di lavoro garantito (insegnanti, operatori del trasporto pubblico, polizia). Questa spiega anche l’ondata di proteste degli studenti: la loro motivazione principale è senza dubbio il timore che l’istruzione superiore non sarà più in grado di garantire un salario surplus nella vita adulta.
Allo stesso tempo è chiaro che il rilancio enorme della protesta nel corso dell’ultimo anno, dalla Primavera Araba all’Europa occidentale, da Occupy Wall Street alla Cina, dalla Spagna alla Grecia, non dovrebbe essere respinta solo come una rivolta della borghesia . Ogni caso dovrebbe essere preso sulla base del suo valore. Le proteste degli studenti contro la riforma universitaria del Regno Unito erano chiaramente diverse dai tumulti (riots) d’agosto, che erano un carnevale consumistico di distruzione, una vera esplosione degli esclusi. Si potrebbe sostenere che le rivolte in Egitto sono cominciate in parte come una rivolta della borghesia (con i giovani istruiti che protestano per la mancanza di prospettive), ma questo era solo un aspetto di una più grande protesta contro un regime oppressivo. D’altra parte, la protesta non ha realmente mobilitato gli operai e i contadini poveri e la vittoria elettorale degli islamisti mette in evidenza la ristretta base sociale della originaria protesta secolare. La Grecia è un caso speciale: negli ultimi decenni, una nuova borghesia salariata (soprattutto nella sovra-estesa amministrazione statale) è stato creata grazie ad un aiuto finanziario dell’UE, e le proteste sono state motivate in gran parte dalla minaccia di una cessazione di questo.
La proletarizzazione della borghesia salariata più bassa corrisponde agli antipodi alla retribuzione irrazionalmente elevata di top manager e banchieri (irrazionale, poiché, come hanno dimostrato le indagini negli Stati Uniti, tende ad essere inversamente proporzionale al successo di una società). Piuttosto che sottoporre queste tendenze alla critica moralizzatrice, dobbiamo leggerle come segni che il sistema capitalista non è più in grado di avere una stabilità auto-regolamentata – minaccia, in altre parole, di perdere il controllo.
traduzione di Maurizio Acerbo
testo originale: Slavoj Zizek, The Revolt of the Salaried Bourgeoisie
Come ha fatto Bill Gates a diventare l’uomo più ricco d’America? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con la produzione di un buon software Microsoft a prezzi inferiori rispetto ai suoi concorrenti, o con lo ’sfruttare’ i suoi lavoratori con più successo (Microsoft paga i lavoratori intellettuali uno stipendio relativamente alto). Milioni di persone ancora acquistano il software Microsoft, perché Microsoft si è imposto come uno standard quasi universale, praticamente monopolizzando il campo, come una incarnazione di ciò che Marx chiamava il ‘General Intellect’, con la quale egli intendeva la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza al know-how pratico. Gates effettivamente ha privatizzato parte del general intellect ed è diventato ricco appropriandosi della rendita che ne seguì.
La possibilità della privatizzazione del General Intellect era qualcosa che Marx non ha mai previsto nei suoi scritti sul capitalismo (in gran parte perché ha trascurato la sua dimensione sociale). Eppure questo è al centro delle lotte di oggi sulla proprietà intellettuale: come il ruolo del General Intellect – basato sulla conoscenza collettiva e la cooperazione sociale – cresce nel capitalismo post-industriale, così la ricchezza si accumula al di fuori di ogni proporzione con il lavoro speso nella sua produzione. Il risultato non è, come Marx sembra avere previsto, l’auto-dissoluzione del capitalismo, ma la graduale trasformazione del profitto generato dallo sfruttamento del lavoro in rendita appropriata attraverso la privatizzazione della conoscenza.
Lo stesso vale per le risorse naturali, lo sfruttamento delle quali è una delle principali fonti mondiali di rendita. Vi è una lotta permanente su chi si appropria di questa rendita: i cittadini del Terzo Mondo o le grandi imprese occidentali. E’ ironico che nello spiegare la differenza tra il lavoro (che nel suo uso produce plusvalore) e altre materie prime (che consumano tutto il loro valore nel loro utilizzo), Marx dà il petrolio come un esempio di una merce ‘ordinaria’. Qualsiasi tentativo ora di collegare l’aumento e la diminuzione del prezzo del petrolio con l’aumento o la diminuzione dei costi di produzione o il costo del lavoro sfruttato non avrebbe senso: i costi di produzione sono trascurabili in proporzione al prezzo che paghiamo per il petrolio, un prezzo che è davvero la rendita che i proprietari della risorsa possono comandare grazie alla sua offerta limitata.
Una conseguenza della crescita della produttività causata dall’impatto della crescita esponenziale della conoscenza collettiva è un cambiamento nel ruolo di disoccupazione. E’ il vero successo del capitalismo (maggiore efficienza, produttività elevata ecc.) che produce disoccupazione, rendendo i lavoratori sempre più inutili: quello che dovrebbe essere una benedizione – meno bisogno di duro lavoro – diventa una maledizione. O, per dirla diversamente, la possibilità di essere sfruttati in un lavoro di lunga durata è ormai vissuta come un privilegio. Il mercato mondiale, come Fredric Jameson ha evidenziato, è “uno spazio in cui ognuno una volta è stato un lavoratore produttivo, e in cui il lavoro ha iniziato dappertutto a dare un prezzo a se stesso fuori dal sistema”.
Nel processo di globalizzazione capitalistica, la categoria dei disoccupati non è più limitata all’ ‘esercito di riserva del lavoro’ di Marx, ma include anche, come nota Jameson, ‘quelle enormi popolazioni in tutto il mondo che sono, per così dire, “cadute fuori dalla storia “, che sono state volutamente escluse dai progetti di modernizzazione del capitalismo del Primo Mondo e liquidati come casi disperati o terminali ‘: i cosiddetti stati falliti (Congo, Somalia), vittime della fame o di un disastro ecologico, quelli intrappolati da pseudo -arcaici ‘odi etnici’, oggetti di filantropia e ONG o bersagli della guerra al terrore. La categoria dei disoccupati si è così esteso a vaste gamme di persone, dai temporaneamente disoccupati, non più occupabili e permanentemente disoccupati, agli abitanti dei ghetti e delle baraccopoli (tutti coloro spesso respinti dallo stesso Marx come ‘lumpen-proletari’) e, infine, alle intere popolazioni e agli stati esclusi dal processo capitalistico globale, come gli spazi vuoti sulle mappe antiche.
Alcuni dicono che questa nuova forma di capitalismo offre nuove possibilità di emancipazione. Questa in ogni caso è la tesi di Moltitudine di Hardt e Negri , che cerca di radicalizzare Marx, il quale dichiarò che se solo tagliassimo la testa del capitalismo otterremmo il socialismo.
Marx per come lo lo vedono, è stato storicamente condizionato: pensava in termini di lavoro industriale centralizzato e automatizzato e gerarchicamente organizzato, con il risultato che ha compreso ‘il General Intellect’ come un qualcosa quasi come un’agenzia centrale di pianificazione; è solo oggi, con la crescita del ‘lavoro immateriale’, che un rovesciamento rivoluzionario è diventato ‘oggettivamente possibile’.
Questo lavoro immateriale si estende tra due poli: dal lavoro intellettuale (la produzione di idee, testi, programmi per computer ecc.) al lavoro affettivo (effettuato da medici, baby sitter e personale di volo). Oggi, il lavoro immateriale è egemone nel senso in cui Marx proclamò che, nel capitalismo del 19 ° secolo, la grande produzione industriale era egemone: non si impone con la forza dei numeri, ma giocando il ruolo emblematico strutturale chiave. Ciò che emerge è un nuovo vasto campo chiamato il ‘comune’: la conoscenza condivisa e le nuove forme di comunicazione e cooperazione. I prodotti di produzione immateriale non sono oggetti, ma nuovi rapporti sociali e interpersonali, la produzione immateriale è bio-politica, la produzione della vita sociale.
Hardt e Negri stanno qui descrivendo il processo che gli ideologi del capitalismo odierno ‘postmoderno’ celebrano come il passaggio dalla produzione materiale alla simbolica, dalla logica centralistica-gerarchica alla logica dell’autorganizzazione e della cooperazione policentrica. La differenza è che Hardt e Negri sono fedeli a Marx: stanno cercando di dimostrare che aveva ragione, che l’ascesa del general intellect è a lungo termine incompatibile con il capitalismo. Gli ideologi del capitalismo postmoderno stanno facendo esattamente l’opposta dichiarazione: la teoria (e la pratica) marxista , essi sostengono, rimane entro i limiti della logica gerarchica del controllo statale centralizzato e quindi non può far fronte agli effetti sociali della rivoluzione informatica. Ci sono buone ragioni empiriche per questa affermazione: ciò che effettivamente ha rovinato i regimi comunisti era la loro incapacità di adattarsi alla nuova logica sociale sostenuta dalla rivoluzione informatica. Hanno cercato di guidare la rivoluzione, per renderla ancora un altro progetto su larga scala di pianificazione centralizzata di stato. Il paradosso è che ciò che Hardt e Negri celebrano come l’opportunità unica di superare il capitalismo è celebrato dagli ideologi della rivoluzione informatica, come la nascita di un nuovo capitalismo ‘privo di attrito’.
L’analisi Hardt e Negri ha alcuni punti deboli, che ci aiutano a capire come il capitalismo ha potuto sopravvivere a ciò che avrebbe dovuto essere (in termini marxisti classici) una nuova organizzazione della produzione che lo rendeva obsoleto. Essi sottovalutano la misura in cui il capitalismo di oggi ha con successo (nel breve termine almeno) privatizzato il General Intellect stesso, così come la misura in cui, più che la borghesia, i lavoratori stessi stanno diventando superflui (con un numero sempre più grande che diventa non solo temporaneamente disoccupato ma strutturalmente inoccupabile).
Se il vecchio capitalismo idealmente coinvogeva un imprenditore che investiva denaro (proprio o preso in prestito) nella produzione che aveva organizzato e conduceva, e poi riscuoteva il profitto da questa, un nuovo tipo ideale sta emergendo oggi: non è più l’imprenditore che possiede la sua azienda, ma il manager esperto (o un consiglio manageriale presieduto da un CEO) che gestisce una società partecipata da banche (anche gestito da manager che non possiedono la banca) o da investitori dispersi. In questo nuovo tipo ideale di capitalismo, la vecchia borghesia, resa non funzionale, è rifunzionalizzata come management salariato : i membri della nuova borghesia ottengono salari, e anche se posseggono una quota della loro società, guadagnano stocks come parte della loro retribuzione (dei bonus per il loro “successo”).
Questa nuova borghesia si appropria ancora plusvalore, ma nella (mistificata) forma di ciò che è stato chiamato ’salario surplus’: sono pagati assai più del proletario’ salario minimo ‘(un punto spesso mitico di riferimento il cui unico esempio reale nell’ economia globale odierna è il salario di un operaio sweatshop in Cina o in Indonesia), ed è questa distinzione dai comuni proletari che determina il loro stato. La borghesia in senso classico così tende a scomparire: riappaiono capitalisti come un sottoinsieme dei lavoratori , in quanto manager che si sono qualificati per guadagnare di più in virtù della loro competenza (ed è per questo che la pseudo-scientifica ‘valutazione’ è fondamentale: essa legittima le disparità) . Lungi dall’essere limitata ai manager, la categoria di lavoratori che percepiscono un salario surplus si estende a tutti i tipi di esperti, amministratori, funzionari pubblici, medici, avvocati, giornalisti, intellettuali e artisti. Il surplus assume due forme: più soldi (per i manager, ecc), ma anche meno lavoro e più tempo libero (per – alcuni – intellettuali, ma anche per gli amministratori dello Stato, ecc).
La procedura di valutazione utilizzata per decidere quale i lavoratori ricevono un salario surplus è un meccanismo arbitrario del potere e dell’ideologia, senza alcun legame serio con reale competenza ; il salario surplus non esiste per lo sviluppo economico, ma per ragioni politiche: per mantenere una ‘classe media’ ai fini della stabilità sociale. L’arbitrarietà della gerarchia sociale non è un errore, ma Il punto centrale, con l’arbitrarietà della valutazione a svolgere un ruolo analogo al l’arbitrarietà del successo sul mercato. La violenza minaccia di esplodere non quando c’è troppa contingenza nello spazio sociale, ma quando si cerca di eliminarla.
In La Marque du sacré, Jean-Pierre Dupuy concepisce la gerarchia come una delle quattro procedure (’dispositifs symboliques’) la cui funzione è quella di rendere il rapporto di superiorità non umiliante: la gerarchia stessa (un ordine imposto dall’esterno che mi permette di vivere il mio più basso status sociale come indipendente dal mio valore intrinseco), demistificazione (la procedura ideologica che dimostra che la società non è una meritocrazia, ma il prodotto di oggettive lotte sociali, che mi permette di evitare la conclusione dolorosa che la superiorità di qualcun altro è il risultato del suo merito e dei suoi risultati ); contingenza (un meccanismo simile, mediante il quale veniamo a capire che la nostra posizione nella scala sociale dipende da una lotteria naturale e sociale, i più fortunati sono coloro che sono nati con i geni giusti in famiglie benestanti), e la complessità (forze incontrollabili hanno conseguenze imprevedibili, per esempio, la mano invisibile del mercato può portare al mio fallimento e al successo del mio vicino, anche se lavoro molto più duro e sono molto più intelligente). Contrariamente alle apparenze, questi meccanismi non contestano o minacciano la gerarchia, ma la rendono accettabile, dal momento che ‘ciò che fa scattare il tumulto di invidia è l’idea che l’altro è degno della sua buona fortuna e non l’idea opposta – che è l’unica che può essere apertamente espressa. ‘Dupuy trae da questa premessa la conclusione che si tratta di un grave errore pensare che una ragionevolmente giusta società che si percepisce anche come giusta sarà priva di risentimento: al contrario, è in queste società che coloro che occupano posizioni inferiori troveranno uno sbocco per il loro orgoglio ferito in violente esplosioni di risentimento.
Collegato a questo è l’impasse affrontato dalla Cina di oggi: l’obiettivo ideale delle riforme di Deng era di introdurre il capitalismo senza una borghesia (in quanto avrebbe costituito la nuova classe dominante); ora, tuttavia, i leader cinesi stanno facendo la dolorosa scoperta che il capitalismo senza la gerarchia consolidata attivata dall’esistenza di una borghesia genera instabilità permanente. Quindi, quale strada prenderà la Cina? Gli ex comunisti in genere stanno emergendo come i gestori più efficienti del capitalismo, perché la loro inimicizia storica nei confronti della borghesia come classe si inserisce perfettamente nella tendenza del capitalismo a diventare un capitalismo manageriale senza una borghesia – in entrambi i casi, come Stalin stabilì molto tempo fa, ‘i quadri decidono tutto’ (una differenza interessante tra la Cina odierna e la Russia: in Russia, docenti universitari sono ridicolmente sottopagati – sono di fatto già parte del proletariato -, mentre in Cina ricevono un salario surplus confortevole per garantire la loro docilità).
La nozione di retribuzione eccedente getta anche nuova luce sulle continue proteste’anti-capitaliste . In tempi di crisi, i candidati ovvi per ’stringere la cinghia’ sono ai livelli più bassi della borghesia : la protesta politica è la loro unica risorsa, se si vuole evitare di entrare nel proletariato. Anche se le loro proteste sono nominalmente dirette contro la logica brutale del mercato, loro stanno in realtà protestando contro la progressiva erosione della loro (politicamente) posizione economica privilegiata . Ayn Rand ha una fantasia in La rivolta di Atlante (Atlas Shrugged) di ‘creativi’ capitalisti in sciopero, una fantasia che trova la sua realizzazione pervertita negli scioperi odierni, la maggior parte delle quali sono condotti da una ‘una borghesia ‘ spinta dalla paura di perdere il proprio salario surplus. Non si tratta di proteste proletarie, ma di proteste contro la minaccia di essere ridotti a comuni proletari Chi osa scioperare oggi, quando avere un lavoro a tempo indeterminato è di per sé un privilegio? Non i lavoratori a bassa retribuzione in ciò che rimane dell’ industria tessile, ma quei lavoratori privilegiati che hanno posti di lavoro garantito (insegnanti, operatori del trasporto pubblico, polizia). Questa spiega anche l’ondata di proteste degli studenti: la loro motivazione principale è senza dubbio il timore che l’istruzione superiore non sarà più in grado di garantire un salario surplus nella vita adulta.
Allo stesso tempo è chiaro che il rilancio enorme della protesta nel corso dell’ultimo anno, dalla Primavera Araba all’Europa occidentale, da Occupy Wall Street alla Cina, dalla Spagna alla Grecia, non dovrebbe essere respinta solo come una rivolta della borghesia . Ogni caso dovrebbe essere preso sulla base del suo valore. Le proteste degli studenti contro la riforma universitaria del Regno Unito erano chiaramente diverse dai tumulti (riots) d’agosto, che erano un carnevale consumistico di distruzione, una vera esplosione degli esclusi. Si potrebbe sostenere che le rivolte in Egitto sono cominciate in parte come una rivolta della borghesia (con i giovani istruiti che protestano per la mancanza di prospettive), ma questo era solo un aspetto di una più grande protesta contro un regime oppressivo. D’altra parte, la protesta non ha realmente mobilitato gli operai e i contadini poveri e la vittoria elettorale degli islamisti mette in evidenza la ristretta base sociale della originaria protesta secolare. La Grecia è un caso speciale: negli ultimi decenni, una nuova borghesia salariata (soprattutto nella sovra-estesa amministrazione statale) è stato creata grazie ad un aiuto finanziario dell’UE, e le proteste sono state motivate in gran parte dalla minaccia di una cessazione di questo.
La proletarizzazione della borghesia salariata più bassa corrisponde agli antipodi alla retribuzione irrazionalmente elevata di top manager e banchieri (irrazionale, poiché, come hanno dimostrato le indagini negli Stati Uniti, tende ad essere inversamente proporzionale al successo di una società). Piuttosto che sottoporre queste tendenze alla critica moralizzatrice, dobbiamo leggerle come segni che il sistema capitalista non è più in grado di avere una stabilità auto-regolamentata – minaccia, in altre parole, di perdere il controllo.
traduzione di Maurizio Acerbo
testo originale: Slavoj Zizek, The Revolt of the Salaried Bourgeoisie
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