- ilrecensore -
È con molto piacere che abbiamo intervistato il poeta Massimiliano Damaggio, autore di Poesia come pietra (Ensemble, 2012), un’opera intensa in cui “la poesia è una pietra che si lancia, ma che, quando arriva, si trasforma in una preghiera”.
L’autore, che vive ad Atene da molti anni, è testimone privilegiato di una società in cambiamento che sembra collassare sulla spinta incalzante della globalizzazione.
La prima domanda è doverosa per te che abiti in Grecia: come è la situazione in questo momento? Come la stai vivendo? Si stanno spegnendo o sono ancora accesi i fuochi della rivoluzione?
Oltre le banalizzazioni dei mezzi di comunicazione, oltre la massificazione spicciola dell’informazione, quello che davvero mi colpisce è: fuori di qui non hanno capito cosa sta succedendo in Grecia. Assistiamo a un colpo di stato finanziario/economico/politico che non ha precedenti in Europa dalla II guerra mondiale in poi. L’essere umano, ridotto a consumatore, è sacrificato sull’altare, mica tanto metaforico, del bilancio statale. Oltre le “visioni” macroeconomiche, non c’è più nulla. Per far quadrare i conti, si fa morire di fame la gente. Pensa che lo stipendio base è ora di circa 580 euro ed i prezzi di tutti i beni sono in generale più alti di un 20% rispetto all’Italia. La Grecia ha una popolazione di 11 milioni d’abitanti: un milione sono i disoccupati. Oltre agli innumerevoli immigrati che frugano nella spazzatura, ora vediamo anche i pensionati. Siamo tutti convinti che domani faremo lo stesso. Le “misure” imposte dalla troika l’anno scorso perché la Grecia ottenesse il primo prestito anti-fallimento hanno portato alla chiusura di 168.000 attività commerciali grandi/medie/piccole nel giro di otto mesi. Ora entrano in vigore le nuove “misure” per il secondo prestito. E’ abbastanza chiaro che tutti questi soldi (che i greci non volevano, bisogna essere chiari) non verranno mai restituiti e che quindi, fra uno o due o tre anni, la Grecia fallirà ufficialmente. Vedendola da qui, preferivamo si fallisse prima. Ora, forse, ne staremmo uscendo. E giusto per andare contro a quelli che dicono: “Il fallimento è molto peggio di quello che vivete ora”, ti dirò che la situazione, per noi cittadini, è già quella del fallimento. Le aziende farmaceutiche non forniscono più gli ospedali pubblici di medicinali. Il servizio nazionale sanitario è già semi-fallito un anno fa ed è difficile farsi prescrivere cure, esami e farmaci, oltre al fatto che gli ambulatori quasi non funzionano per mancanza di personale o perché i macchinari sono rotti e non si possono riparare. Il sussidio di disoccupazione è di 300 euro mensili. Quando vai a fare la spesa spendi, per 4 persone, minimo 150 euro la settimana. Non so che dire. E’ osceno. Soprattutto perché non ci permettono di fallire come Stato per salvare l’euro e i soldi delle banche tedesche e francesi. L’haircut, come dicono qui, sui titoli di stato greci, è stato fatto su quelli dei piccoli risparmiatori, non su quelli delle banche. Parliamo di truffa a tutti i livelli. E poi tieni presente questo: si sta sviluppando un’insofferenza, direi quasi un odio, verso la Germania, ritenuta responsabile di questo accanimento. Ci vuole poco a condizionare la testa della gente. La storia ce l’ha mostrato con una ripetitività impressionante. Dici: “No, questa cosa oggi è impossibile, non può succedere”, e poi succede. Non parlo di rivoluzioni: le rivoluzioni, in quest’Europa imbalsamata, mi sembrano improbabili, nel senso che da popoli di “consumatori” non puoi attenderti un’azione radicale. Te la aspetti dalle minoranze che qui, come anche in Italia, credo, non hanno ben chiaro cosa proporre, cosa fare e se, soprattutto, fare qualcosa. Però fa’ attenzione a una cosa: quando l’anno scorso gli “incappucciati” tiravano pietre e molotov, la gente faceva marcia indietro e disapprovava. Ora, l’ultima volta che è successo, tutti abbiamo applaudito.
“Poesia come pietra”. È quella che dai tu la definizione più giusta? Te ne vengono in mente altre?
Mah, non lo so se è la più giusta. Questo titolo m’è venuto in mente dopo che una mia amica mi aveva detto: “Interessanti ‘ste cose che scrivi, ma le trovo un po’… pietrose. E anche tu mi sembri pietroso. E’ tutto molto forte e duro: perché?” Il perché non lo so. Credo che sia il mio carattere. Bordini, nella prefazione, ha detto che io tolgo la cipria alla realtà, e che la realtà m’interessa moltissimo. Sì, cerco di fare il “reporter” d’una realtà allucinata che mi sembra altri non vedano. O forse sono io un allucinato. Fatto sta che ho cominciato a scrivere poesie perché sentivo di dover filtrare la realtà attraverso uno strumento di conoscenza quale considero la poesia. Quando vedi un mondo che si “plastifica” e quindi diventa fittizio sotto tutti gli aspetti, come devi reagire? Quando ho scritto “Neon”, nel ’93, avevo 23 anni. Credo d’aver avuto un’allucinazione, quel giorno, in metropolitana. Ho sentito, forse ho constatato, che tutto era in fase di assoluta plastificazione, e ho reagito. Vedendo cosa poi è successo negli anni ’90 e negli ’00, non posso che dire che avevo ragione. Ora ho capito che si trattava della globalizzazione, della creazione dei “non luoghi” di Marc Augé. L’uomo si è però spinto molto oltre, facendo dell’essere umano il “non luogo” per eccellenza. In 1984 di Orwell, quando Winston Smith e gli altri vedono il grande fratello sullo schermo, durante i quotidiani “2 minuti dell’odio”, gli lanciano rabbiosi delle sedie. A me viene voglia di lanciare pietre, che sono storicamente più legate alla rivolta. Lo voglio fare scrivendo.
Negli anni passati stavi riscuotendo diversi successi come poeta, hai partecipato anche alla Biennale dei Giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Come mai hai deciso di lasciar perdere tutto? E come mai hai deciso di tornare? Come sei arrivato alle Edizioni Ensemble?
Sì, ho partecipato a una serie di letture su invito di Majorino. Non era cosa da tutti i giorni, se ci penso ora. Ho partecipato alla Biennale per ben due volte: non ci hanno nemmeno organizzato una lettura… I poeti non contavano niente. Stavano lì, così, come turisti, anche un po’ smarriti. Perché ho smesso… Sai, alla fine, dipende da che idea hai dell’arte e, nel mio caso, della poesia. Se credi che sia esercitata per pura soddisfazione personale, per egocentrismo e per ritirare qualche premio qua e là, allora non smetti mai di praticarla. Se invece ti rendi conto che l’arte non ha nessun tipo d’influenza, o magari anche solo di “interferenza”, con la realtà, allora smettere è facile. Ognuno ha le proprie idee al riguardo, e tutte sono giuste e sbagliate allo stesso tempo. La mia è che la poesia non debba allontanarsi troppo dalle esigenze comunicative basilari dell’uomo, che non sia né filosofia né fine a se stessa. Quando ho cominciato, m’è sembrato che molti intorno a me facessero poesia per il proprio “tornaconto personale”, diciamo così. E che la poesia fosse costituita da piccole lobby chiuse cui fosse possibile accedere solo tramite amicizie. Siccome io non sono mai stato bravo nelle “pr”, non mi sono mai fatto le amicizie giuste. Anche perché la maggior parte di quello che leggevo non mi piaceva, e non riesco a fingere. E io ero strano (sono strano) e non di facilissima lettura. Non sono tanto per la poesia intimista ancora così in voga in Italia. Sono diverso. Sono un poeta “visivo”, che parla per immagini, che deforma le parole, che ama le iperboli. In Italia non c’è più una cultura diffusa per ciò che non è allineato al gusto corrente. Tutto deve essere piano, bisogna essere un po’ filosofi, bisogna magari darsi un certo tono. Il poeta, da noi, è ancora un piccolo essere superiore, seppur sconosciuto dal 99% dei nostri compaesani. E’ stato questo che mi ha, a un certo punto, dato fastidio. E allora ho smesso. Scrivere per non farsi leggere che dai propri amici, che senso ha? La poesia è comunicazione. Ho fatto tante altre cose. Ho lavorato per mantenere la mia famiglia. Faccio un lavoro qualsiasi, il commerciale, e ora lo trovo il più indicato per la mia evoluzione poetica. Non sarei mai potuto essere uno studioso. La poesia è azione, è fare. Sono tornato perché le cose sono cambiate. E’ arrivato internet, che ritengo uno strumento eccezionale per tutte quelle arti senza mercato (che cioè hanno mantenuto il loro carattere artistico puro senza doversi adeguare alle vendite) di cui la poesia ne è l’esempio massimo. Ho trovato diversi editori che fanno il proprio mestiere e pubblicano un libro perché lo legga soprattutto la gente, come appunto Ensemble, come Edizioni della Sera, come Perrone. Editori che non chiedono soldi e vivono sulla promozione sul territorio del libro: un’idea non nuova ma che è stata abbandonata da grossi e medi editori, i quali hanno perduto ogni contatto con la realtà dei lettori odierni. Oggi non occorre essere degli Ungaretti. Occorre anzitutto riportare la poesia fra la gente. E se in mezzo a tutto ciò nasce un Ungaretti, tanto meglio.
Sei soddisfatto di questo “ritorno” letterario? Com’è stato? Senti interesse intorno al tuo libro?
Più che un ritorno, è un affacciarsi. Com’è stato? Dopo anni di silenzio, è certo molto strano che ci sia qualcuno che ti legga e che magari ti dica m’è piaciuta oppure non m’è piaciuta ‘sta cosa. Timidamente, ho prima inviato qualche testo ad alcuni poeti. Il fatto d’aver ricevuto risposte positive da gente come Rondoni, Quintavalla ed Emilio Piccolo mi ha incoraggiato a tentare di pubblicare. Poi c’è stato l’incontro con Carlo Bordini, che mi ha definitivamente convinto a proseguire. Bordini non solo è un ottimo poeta ma, anche, una persona di cuore. Lo devo ringraziare non solo per la prefazione ma anche e soprattutto per il sincero interesse che ha dimostrato nei miei confronti. Un giorno, in preda alle mie solite indecisioni, gli ho scritto: “Carlo, non so se valga la pena buttare carta per stampare questa roba qua.” La sua risposta è stata tanto semplice quanto bella: “Le tue poesie sono belle. Le devi pubblicare. Punto e basta.” Io sono pietroso, come dicevo prima, però mi sono messo a piangere davanti al computer. Chi se l’aspettava una risposta così? Se sono soddisfatto? Questo non lo so ancora. Bisognerà vedere se questo libro riuscirà a comunicare con la gente, a lasciare qualcosa a qualcuno.
Perché la forma “poesia”? Con i versi si può dire ancora molto?
Non saprei perché la poesia. In principio, per me, era la pittura. Ho studiato arte. Ho cominciato a scrivere verso i 16 anni ma solo verso i 20 ho abbandonato la pittura. Per me è sempre stata l’immagine alla base della mia vita. Per questo mi piacciono quelle poesie che hanno qualcosa di profondamente visivo. L’uomo di oggi è prima di tutto un animale visivo e sono convinto che la poesia debba trasformarsi per comunicare “visivamente” e recuperare altro pubblico. Io, in sostanza, rappresento visivamente quei molteplici deficit dell’uomo contemporaneo e della realtà che lo definisce, lo plasma, lo plastifica, lo frantuma e lo ricompone secondo i propri schemi e bisogni. Cerco di fare questo in poesia perché la poesia ha la qualità della sintesi. E’ un’arma di comunicazione fenomenale. Così fenomenale che non solo “si può dire ancora molto” tramite essa, ma “si può dire assolutamente tutto”.
Ci sono dei modelli letterari a cui ti ispiri? C’è qualcuno che ti senti di dover ringraziare nel tuo percorso letterario e umano?
Io devo ringraziare tutto quello che ho letto e quelli che l’hanno scritto. Ma proprio tutto. Anche le cose che non mi sono piaciute. Detto questo, io amo la poesia latino-americana, e in particolare quella brasiliana, sopra ogni altra cosa. Avevo 19 anni quando ho scoperto gente come Drummond de Andrade, Manuel Bandeira, João Cabral de Melo Neto, Haroldo de Campos, Ferreira Gullar e gli altri, i tanti altri che mi hanno cambiato la vita. Ma me l’hanno cambiata veramente. La poesia cambia la vita, ti trasforma, ti fa del bene, ti fa del male. Quando leggi una cosa così: “In questa città di Rio, / di due milioni d’abitanti, / solo solo nella stanza, / sono solo nel mondo”, vuoi che non ti cambi la vita? Ogni volta che rileggo Drummond, nonostante io sia pietroso, piango, o anche rido, o mi diverto, o penso, o faccio migliaia di altre cose che ritengo utili. Lui è quello che sicuramente m’ha insegnato la pietà e l’umanità in poesia. E’ uno dei miei maestri. Gli altri, parlando ancora di poesia, sono Nicanor Parra, Blaise Cendrars e Vladimir Majakovskij. Artefice del mio percorso umano è stato invece un uomo irripetibile: mio padre.
Conosci la poesia greca? Chi sono gli autori più interessanti? E del panorama italiano? C’è qualcuno della nuova leva che ritieni particolarmente interessante?
La poesia greca è particolare. Tieni presente che non ha mai avuto un vero e proprio movimento di rottura con la tradizione. Possiamo dire che è stata in una costante e lenta evoluzione rimanendo però più o meno sugli stessi binari espressivo-stilistici. E’ molto “classica”, piana, colloquiale. Ora come ora, ritengo che gli autori più interessanti siano, fra quelli già affermati, Sotìris Pastàkas, Tìtos Patrìkios, Yànnis Gùmas, Yòrgos Blànas. Fra i giovani, si sente una certa ripetitività di temi e di stili che stanca. Un po’ come in Italia, non riescono a liberarsi del loro enorme Io che, però, non riescono neanche a esprimere con la stessa intensità dei loro predecessori. In generale, sia per l’Italia che per la Grecia, direi che non ci si riesce a liberare d’un certo provincialismo culturale che impedisce una crescita significativa in poesia. In Italia, oltre ai già affermati, fra cui mi sembra spicchino Bordini, Rondoni, Quintavalla, Giovanna Mulas e Antonella Anedda, ho trovato interessantissima Irene Ester Leo e molto significativo Fabio Franzin.
Del tuo corpus mi piace molto “Poesia odierna”. Come avresti scritto una “Poesia antica” o, soprattutto, una “Poesia futura”? Cosa ti aspetti dal domani?
“Poesia odierna” parla della tendenza di certa cultura italiana a chiudersi in salottini estromettendo non solo altri esponenti della cultura, ma il mondo intero. Sino ad arrivare a non fare più parte del mondo. Sino a diventare inutili. Mi sembra che sia sempre stato così. “Poesia antica” sarebbe all’incirca lo stesso, o forse peggio. “Poesia futura” non lo so. Sono pessimista di natura, ho il terrore che sarà uguale. La poesia europea non credo si libererà facilmente dell’autoreferenzialità che le è propria. Non potrà con facilità raggiungere lo stesso stato di libertà creativa della poesia latino-americana. Dovrebbe essere un atto di coscienza riconoscere che la poesia europea è, da molto tempo, fra le meno rappresentative e le più statiche del mondo.
Come definiresti il tuo libro? A chi è rivolto?
Lo definirei un grido verso gli altri. Un tentativo di condivisione della realtà comune e quotidiana. Un libro che si rivolge a chiunque e parla di quello che ci accade intorno, e quindi dentro, della nostra umanità tradita, svilita, ridotta a produttori e consumatori non solo di beni, ma di vita. Un libro con una pietra che racchiude un sentimento umano in via d’estinzione.
Quando sarai in Italia a presentare il libro?
A fine marzo lo presentiamo a Roma e fine aprile a Milano. Non ci sarà solamente un tizio che legge poesie ma anche musica: un coinvolgimento fra arti che fa bene e che, perché no?, diverte.
Grazie per l’intervista. A presto e in bocca al lupo.
Grazie a te e crepi il lupo.
Massimiliano Damaggio nasce a Desio nel 1969. Negli anni ’90 frequenta il mondo della poesia a Milano e partecipa a varie manifestazioni artistiche nazionali e internazionali, fra le quali la Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo. In seguito, abbandona sia il mondo letterario che l’Italia e si trasferisce. Vive ad Atene.
Autore: Massimiliano Damaggio
Titolo: Poesia come pietra
Editore: Ensemble
Anno di pubblicazione: 2012
Prezzo: 12 euro
Pagine: 126
L’autore, che vive ad Atene da molti anni, è testimone privilegiato di una società in cambiamento che sembra collassare sulla spinta incalzante della globalizzazione.
La prima domanda è doverosa per te che abiti in Grecia: come è la situazione in questo momento? Come la stai vivendo? Si stanno spegnendo o sono ancora accesi i fuochi della rivoluzione?
Oltre le banalizzazioni dei mezzi di comunicazione, oltre la massificazione spicciola dell’informazione, quello che davvero mi colpisce è: fuori di qui non hanno capito cosa sta succedendo in Grecia. Assistiamo a un colpo di stato finanziario/economico/politico che non ha precedenti in Europa dalla II guerra mondiale in poi. L’essere umano, ridotto a consumatore, è sacrificato sull’altare, mica tanto metaforico, del bilancio statale. Oltre le “visioni” macroeconomiche, non c’è più nulla. Per far quadrare i conti, si fa morire di fame la gente. Pensa che lo stipendio base è ora di circa 580 euro ed i prezzi di tutti i beni sono in generale più alti di un 20% rispetto all’Italia. La Grecia ha una popolazione di 11 milioni d’abitanti: un milione sono i disoccupati. Oltre agli innumerevoli immigrati che frugano nella spazzatura, ora vediamo anche i pensionati. Siamo tutti convinti che domani faremo lo stesso. Le “misure” imposte dalla troika l’anno scorso perché la Grecia ottenesse il primo prestito anti-fallimento hanno portato alla chiusura di 168.000 attività commerciali grandi/medie/piccole nel giro di otto mesi. Ora entrano in vigore le nuove “misure” per il secondo prestito. E’ abbastanza chiaro che tutti questi soldi (che i greci non volevano, bisogna essere chiari) non verranno mai restituiti e che quindi, fra uno o due o tre anni, la Grecia fallirà ufficialmente. Vedendola da qui, preferivamo si fallisse prima. Ora, forse, ne staremmo uscendo. E giusto per andare contro a quelli che dicono: “Il fallimento è molto peggio di quello che vivete ora”, ti dirò che la situazione, per noi cittadini, è già quella del fallimento. Le aziende farmaceutiche non forniscono più gli ospedali pubblici di medicinali. Il servizio nazionale sanitario è già semi-fallito un anno fa ed è difficile farsi prescrivere cure, esami e farmaci, oltre al fatto che gli ambulatori quasi non funzionano per mancanza di personale o perché i macchinari sono rotti e non si possono riparare. Il sussidio di disoccupazione è di 300 euro mensili. Quando vai a fare la spesa spendi, per 4 persone, minimo 150 euro la settimana. Non so che dire. E’ osceno. Soprattutto perché non ci permettono di fallire come Stato per salvare l’euro e i soldi delle banche tedesche e francesi. L’haircut, come dicono qui, sui titoli di stato greci, è stato fatto su quelli dei piccoli risparmiatori, non su quelli delle banche. Parliamo di truffa a tutti i livelli. E poi tieni presente questo: si sta sviluppando un’insofferenza, direi quasi un odio, verso la Germania, ritenuta responsabile di questo accanimento. Ci vuole poco a condizionare la testa della gente. La storia ce l’ha mostrato con una ripetitività impressionante. Dici: “No, questa cosa oggi è impossibile, non può succedere”, e poi succede. Non parlo di rivoluzioni: le rivoluzioni, in quest’Europa imbalsamata, mi sembrano improbabili, nel senso che da popoli di “consumatori” non puoi attenderti un’azione radicale. Te la aspetti dalle minoranze che qui, come anche in Italia, credo, non hanno ben chiaro cosa proporre, cosa fare e se, soprattutto, fare qualcosa. Però fa’ attenzione a una cosa: quando l’anno scorso gli “incappucciati” tiravano pietre e molotov, la gente faceva marcia indietro e disapprovava. Ora, l’ultima volta che è successo, tutti abbiamo applaudito.
“Poesia come pietra”. È quella che dai tu la definizione più giusta? Te ne vengono in mente altre?
Mah, non lo so se è la più giusta. Questo titolo m’è venuto in mente dopo che una mia amica mi aveva detto: “Interessanti ‘ste cose che scrivi, ma le trovo un po’… pietrose. E anche tu mi sembri pietroso. E’ tutto molto forte e duro: perché?” Il perché non lo so. Credo che sia il mio carattere. Bordini, nella prefazione, ha detto che io tolgo la cipria alla realtà, e che la realtà m’interessa moltissimo. Sì, cerco di fare il “reporter” d’una realtà allucinata che mi sembra altri non vedano. O forse sono io un allucinato. Fatto sta che ho cominciato a scrivere poesie perché sentivo di dover filtrare la realtà attraverso uno strumento di conoscenza quale considero la poesia. Quando vedi un mondo che si “plastifica” e quindi diventa fittizio sotto tutti gli aspetti, come devi reagire? Quando ho scritto “Neon”, nel ’93, avevo 23 anni. Credo d’aver avuto un’allucinazione, quel giorno, in metropolitana. Ho sentito, forse ho constatato, che tutto era in fase di assoluta plastificazione, e ho reagito. Vedendo cosa poi è successo negli anni ’90 e negli ’00, non posso che dire che avevo ragione. Ora ho capito che si trattava della globalizzazione, della creazione dei “non luoghi” di Marc Augé. L’uomo si è però spinto molto oltre, facendo dell’essere umano il “non luogo” per eccellenza. In 1984 di Orwell, quando Winston Smith e gli altri vedono il grande fratello sullo schermo, durante i quotidiani “2 minuti dell’odio”, gli lanciano rabbiosi delle sedie. A me viene voglia di lanciare pietre, che sono storicamente più legate alla rivolta. Lo voglio fare scrivendo.
Negli anni passati stavi riscuotendo diversi successi come poeta, hai partecipato anche alla Biennale dei Giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Come mai hai deciso di lasciar perdere tutto? E come mai hai deciso di tornare? Come sei arrivato alle Edizioni Ensemble?
Sì, ho partecipato a una serie di letture su invito di Majorino. Non era cosa da tutti i giorni, se ci penso ora. Ho partecipato alla Biennale per ben due volte: non ci hanno nemmeno organizzato una lettura… I poeti non contavano niente. Stavano lì, così, come turisti, anche un po’ smarriti. Perché ho smesso… Sai, alla fine, dipende da che idea hai dell’arte e, nel mio caso, della poesia. Se credi che sia esercitata per pura soddisfazione personale, per egocentrismo e per ritirare qualche premio qua e là, allora non smetti mai di praticarla. Se invece ti rendi conto che l’arte non ha nessun tipo d’influenza, o magari anche solo di “interferenza”, con la realtà, allora smettere è facile. Ognuno ha le proprie idee al riguardo, e tutte sono giuste e sbagliate allo stesso tempo. La mia è che la poesia non debba allontanarsi troppo dalle esigenze comunicative basilari dell’uomo, che non sia né filosofia né fine a se stessa. Quando ho cominciato, m’è sembrato che molti intorno a me facessero poesia per il proprio “tornaconto personale”, diciamo così. E che la poesia fosse costituita da piccole lobby chiuse cui fosse possibile accedere solo tramite amicizie. Siccome io non sono mai stato bravo nelle “pr”, non mi sono mai fatto le amicizie giuste. Anche perché la maggior parte di quello che leggevo non mi piaceva, e non riesco a fingere. E io ero strano (sono strano) e non di facilissima lettura. Non sono tanto per la poesia intimista ancora così in voga in Italia. Sono diverso. Sono un poeta “visivo”, che parla per immagini, che deforma le parole, che ama le iperboli. In Italia non c’è più una cultura diffusa per ciò che non è allineato al gusto corrente. Tutto deve essere piano, bisogna essere un po’ filosofi, bisogna magari darsi un certo tono. Il poeta, da noi, è ancora un piccolo essere superiore, seppur sconosciuto dal 99% dei nostri compaesani. E’ stato questo che mi ha, a un certo punto, dato fastidio. E allora ho smesso. Scrivere per non farsi leggere che dai propri amici, che senso ha? La poesia è comunicazione. Ho fatto tante altre cose. Ho lavorato per mantenere la mia famiglia. Faccio un lavoro qualsiasi, il commerciale, e ora lo trovo il più indicato per la mia evoluzione poetica. Non sarei mai potuto essere uno studioso. La poesia è azione, è fare. Sono tornato perché le cose sono cambiate. E’ arrivato internet, che ritengo uno strumento eccezionale per tutte quelle arti senza mercato (che cioè hanno mantenuto il loro carattere artistico puro senza doversi adeguare alle vendite) di cui la poesia ne è l’esempio massimo. Ho trovato diversi editori che fanno il proprio mestiere e pubblicano un libro perché lo legga soprattutto la gente, come appunto Ensemble, come Edizioni della Sera, come Perrone. Editori che non chiedono soldi e vivono sulla promozione sul territorio del libro: un’idea non nuova ma che è stata abbandonata da grossi e medi editori, i quali hanno perduto ogni contatto con la realtà dei lettori odierni. Oggi non occorre essere degli Ungaretti. Occorre anzitutto riportare la poesia fra la gente. E se in mezzo a tutto ciò nasce un Ungaretti, tanto meglio.
Sei soddisfatto di questo “ritorno” letterario? Com’è stato? Senti interesse intorno al tuo libro?
Più che un ritorno, è un affacciarsi. Com’è stato? Dopo anni di silenzio, è certo molto strano che ci sia qualcuno che ti legga e che magari ti dica m’è piaciuta oppure non m’è piaciuta ‘sta cosa. Timidamente, ho prima inviato qualche testo ad alcuni poeti. Il fatto d’aver ricevuto risposte positive da gente come Rondoni, Quintavalla ed Emilio Piccolo mi ha incoraggiato a tentare di pubblicare. Poi c’è stato l’incontro con Carlo Bordini, che mi ha definitivamente convinto a proseguire. Bordini non solo è un ottimo poeta ma, anche, una persona di cuore. Lo devo ringraziare non solo per la prefazione ma anche e soprattutto per il sincero interesse che ha dimostrato nei miei confronti. Un giorno, in preda alle mie solite indecisioni, gli ho scritto: “Carlo, non so se valga la pena buttare carta per stampare questa roba qua.” La sua risposta è stata tanto semplice quanto bella: “Le tue poesie sono belle. Le devi pubblicare. Punto e basta.” Io sono pietroso, come dicevo prima, però mi sono messo a piangere davanti al computer. Chi se l’aspettava una risposta così? Se sono soddisfatto? Questo non lo so ancora. Bisognerà vedere se questo libro riuscirà a comunicare con la gente, a lasciare qualcosa a qualcuno.
Perché la forma “poesia”? Con i versi si può dire ancora molto?
Non saprei perché la poesia. In principio, per me, era la pittura. Ho studiato arte. Ho cominciato a scrivere verso i 16 anni ma solo verso i 20 ho abbandonato la pittura. Per me è sempre stata l’immagine alla base della mia vita. Per questo mi piacciono quelle poesie che hanno qualcosa di profondamente visivo. L’uomo di oggi è prima di tutto un animale visivo e sono convinto che la poesia debba trasformarsi per comunicare “visivamente” e recuperare altro pubblico. Io, in sostanza, rappresento visivamente quei molteplici deficit dell’uomo contemporaneo e della realtà che lo definisce, lo plasma, lo plastifica, lo frantuma e lo ricompone secondo i propri schemi e bisogni. Cerco di fare questo in poesia perché la poesia ha la qualità della sintesi. E’ un’arma di comunicazione fenomenale. Così fenomenale che non solo “si può dire ancora molto” tramite essa, ma “si può dire assolutamente tutto”.
Ci sono dei modelli letterari a cui ti ispiri? C’è qualcuno che ti senti di dover ringraziare nel tuo percorso letterario e umano?
Io devo ringraziare tutto quello che ho letto e quelli che l’hanno scritto. Ma proprio tutto. Anche le cose che non mi sono piaciute. Detto questo, io amo la poesia latino-americana, e in particolare quella brasiliana, sopra ogni altra cosa. Avevo 19 anni quando ho scoperto gente come Drummond de Andrade, Manuel Bandeira, João Cabral de Melo Neto, Haroldo de Campos, Ferreira Gullar e gli altri, i tanti altri che mi hanno cambiato la vita. Ma me l’hanno cambiata veramente. La poesia cambia la vita, ti trasforma, ti fa del bene, ti fa del male. Quando leggi una cosa così: “In questa città di Rio, / di due milioni d’abitanti, / solo solo nella stanza, / sono solo nel mondo”, vuoi che non ti cambi la vita? Ogni volta che rileggo Drummond, nonostante io sia pietroso, piango, o anche rido, o mi diverto, o penso, o faccio migliaia di altre cose che ritengo utili. Lui è quello che sicuramente m’ha insegnato la pietà e l’umanità in poesia. E’ uno dei miei maestri. Gli altri, parlando ancora di poesia, sono Nicanor Parra, Blaise Cendrars e Vladimir Majakovskij. Artefice del mio percorso umano è stato invece un uomo irripetibile: mio padre.
Conosci la poesia greca? Chi sono gli autori più interessanti? E del panorama italiano? C’è qualcuno della nuova leva che ritieni particolarmente interessante?
La poesia greca è particolare. Tieni presente che non ha mai avuto un vero e proprio movimento di rottura con la tradizione. Possiamo dire che è stata in una costante e lenta evoluzione rimanendo però più o meno sugli stessi binari espressivo-stilistici. E’ molto “classica”, piana, colloquiale. Ora come ora, ritengo che gli autori più interessanti siano, fra quelli già affermati, Sotìris Pastàkas, Tìtos Patrìkios, Yànnis Gùmas, Yòrgos Blànas. Fra i giovani, si sente una certa ripetitività di temi e di stili che stanca. Un po’ come in Italia, non riescono a liberarsi del loro enorme Io che, però, non riescono neanche a esprimere con la stessa intensità dei loro predecessori. In generale, sia per l’Italia che per la Grecia, direi che non ci si riesce a liberare d’un certo provincialismo culturale che impedisce una crescita significativa in poesia. In Italia, oltre ai già affermati, fra cui mi sembra spicchino Bordini, Rondoni, Quintavalla, Giovanna Mulas e Antonella Anedda, ho trovato interessantissima Irene Ester Leo e molto significativo Fabio Franzin.
Del tuo corpus mi piace molto “Poesia odierna”. Come avresti scritto una “Poesia antica” o, soprattutto, una “Poesia futura”? Cosa ti aspetti dal domani?
“Poesia odierna” parla della tendenza di certa cultura italiana a chiudersi in salottini estromettendo non solo altri esponenti della cultura, ma il mondo intero. Sino ad arrivare a non fare più parte del mondo. Sino a diventare inutili. Mi sembra che sia sempre stato così. “Poesia antica” sarebbe all’incirca lo stesso, o forse peggio. “Poesia futura” non lo so. Sono pessimista di natura, ho il terrore che sarà uguale. La poesia europea non credo si libererà facilmente dell’autoreferenzialità che le è propria. Non potrà con facilità raggiungere lo stesso stato di libertà creativa della poesia latino-americana. Dovrebbe essere un atto di coscienza riconoscere che la poesia europea è, da molto tempo, fra le meno rappresentative e le più statiche del mondo.
Come definiresti il tuo libro? A chi è rivolto?
Lo definirei un grido verso gli altri. Un tentativo di condivisione della realtà comune e quotidiana. Un libro che si rivolge a chiunque e parla di quello che ci accade intorno, e quindi dentro, della nostra umanità tradita, svilita, ridotta a produttori e consumatori non solo di beni, ma di vita. Un libro con una pietra che racchiude un sentimento umano in via d’estinzione.
Quando sarai in Italia a presentare il libro?
A fine marzo lo presentiamo a Roma e fine aprile a Milano. Non ci sarà solamente un tizio che legge poesie ma anche musica: un coinvolgimento fra arti che fa bene e che, perché no?, diverte.
Grazie per l’intervista. A presto e in bocca al lupo.
Grazie a te e crepi il lupo.
Massimiliano Damaggio nasce a Desio nel 1969. Negli anni ’90 frequenta il mondo della poesia a Milano e partecipa a varie manifestazioni artistiche nazionali e internazionali, fra le quali la Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo. In seguito, abbandona sia il mondo letterario che l’Italia e si trasferisce. Vive ad Atene.
Autore: Massimiliano Damaggio
Titolo: Poesia come pietra
Editore: Ensemble
Anno di pubblicazione: 2012
Prezzo: 12 euro
Pagine: 126
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