Movimenti e organizzazione politica
di Carlo Formenti in alfabetta2 - sinistrainrete -
Dalla fine del ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, è la prima volta che assistiamo alla nascita e allo sviluppo, contemporaneamente e a livello mondiale, di movimenti sociali a carattere antagonistico. Le insorgenze dei trent’anni precedenti – a eccezione del ciclo No Global da Seattle a Genova – erano di tipo «single issue» (movimenti studenteschi, lotte per la pace, contro il nucleare, per i diritti delle donne e dei gay ecc.) né hanno mai assunto – se non marginalmente – carattere anticapitalistico. Anche la marea di rabbia e di odio che oggi vediamo montare a livello globale – dalla primavera araba agli indignati di Spagna, Grecia e Israele, da Occupy Wall Street alle lotte degli operai e contadini cinesi e di altri paesi in via di sviluppo – assume solo episodicamente una natura esplicitamente antagonista, ma il radicale rifiuto di mediazioni politiche istituzionali, di ogni forma di rappresentanza, così come le pratiche di autogestione e autoorganizzazione delle lotte e l’identificazione del nemico principale nella finanza globale e nei governi, di destra e di sinistra, che ne incarnano gli interessi, sembrano condurre in tale direzione.
Le cause del processo sono già state ampiamente analizzate, per cui mi limito a richiamarle brevemente, per passare subito dopo al tema centrale di questo intervento. Decenni di controrivoluzione liberista e di finanziarizzazione dell’economia hanno spazzato via il compromesso fra capitale e lavoro fondato sul welfare. Oggi ai proletari (e alle classi medie proletarizzate) non serve leggere Stato e rivoluzione per capire che lo Stato borghese non è cosa che possa servire – anche in minima parte – i loro interessi. Del resto, non esiste nemmeno più una classe borghese capace di delegare alla politica la gestione di un «interesse generale», sia pure inteso come interesse di tutta la borghesia e non di singole frazioni di essa, esistono solo caste politiche che servono – cinicamente e alla luce del sole – gli interessi delle lobby finanziarie.
Viviamo una situazione in cui il «piano del capitale» si riduce alla creazione e al mantenimento di condizioni che consentano la realizzazione del massimo profitto in tempi brevi, in cui le politiche economiche degli Stati-nazione, anche i più potenti, obbediscono a imperativi di breve termine della finanza globale, senza riguardo agli effetti di medio lungo termine – deindustrializzazione, disoccupazione di massa, immiserimento assoluto e relativo di larghi settori della popolazione ecc. Viviamo sotto regimi politici in palese difetto di legittimazione, che hanno perso ogni parvenza – anche formale – di democraticità (vedi il diktat europeo che ha vietato ai greci di votare sulle misure «anticrisi»), regimi postdemocratici, caratterizzati da processi di personalizzazione e spettacolarizzazione di una politica ridotta a rappresentazione mediatica, dove i cittadini possono «scegliere» fra due destre che si contendono il ruolo di realizzare programmi identici.
Nessuno stupore, quindi, se da un corpo sociale martoriato riemergono spinte e umori antagonisti (stupisce anzi che non sia avvenuto prima, e con radicalità maggiore). Ciò detto, sarebbe lecito aspettarsi una fioritura di riflessioni teoriche sui seguenti interrogativi: disponiamo d’un modello organizzativo in grado di coordinare, estendere e consolidare i movimenti? Esiste un programma in grado di unificarli? Possiamo immaginare la transizione a una civiltà postcapitalista? Invece siamo costretti ad ammettere che ci troviamo di fronte a un grado zero della teoria rivoluzionaria. Appurato che nulla del genere possiamo attenderci da quanto resta del movimento operaio tradizionale (il quale, dopo la conversione delle socialdemocrazie alla retorica della «terza via», si riduce ad alcune frange sindacali e alla rissosa galassia di partitini neocomunisti), le sole componenti che tentino di balbettare qualcosa in proposito sono neoanarchici e neooperaisti. Balbettii che, ad avviso di chi scrive, sono ancora lontani dall’offrire efficaci linee guida per favorire un salto di qualità dell’azione spontanea dei movimenti.
Partiamo dai neoanarchici. Occorre essere ottusi, leggiamo nel pamphlet L’insurrection qui vient (La fabrique éditions, 2007) pubblicato qualche anno fa dal collettivo Comité invisible, per non capire che c’è del politico in ogni negazione radicale della politica. Un’affermazione cruciale, nella misura in cui pone una differenza fra la politica intesa come sistema istituzionale e il politico inteso come dimensione dell’agire sociale. La distinzione appare tanto più significativa in quanto proviene da una cultura politica che si oppone per principio a qualsiasi organizzazione partitica, in quanto anche quelle che si dicono rivoluzionarie, si dice, operano come «stati in miniatura», adottano la stessa logica di ciò che affermano di voler distruggere. Pur attribuendo la dignità del politico solo alla spontaneità dei movimenti, dunque, anche la teoria anarchica ammette l’esistenza di un’«autonomia del politico», se non come dimensione separata dal sociale, almeno come dimensione tattica dell’agire, come necessità di decidere nella contingenza di questa o quella fase determinata della lotta; o, se si preferisce, come scarto fra capacità di immaginare un futuro differente e capacità di compiere passi concreti per tradurre l’immaginazione in realtà. E occorre anche riconoscere che, rispetto alla sua tradizione, la teoria anarchica ha compiuto sforzi significativi per identificare quali modelli organizzativi, e quali pratiche di movimento potrebbero favorire un processo rivoluzionario non destinato a produrre nuove forme di dominio. Il modello è, in buona sostanza, quello dei network orizzontali fondati sui nuovi media, un modello che si vorrebbe calare dal mondo virtuale nella realtà sociale promuovendo la proliferazione di comuni. Tanto nel testo citato poco sopra, quanto negli scritti di David Graeber, per comuni si intendono dei gruppi di affinità decentrati e orizzontali che prendano decisioni attraverso rigorose procedure di consenso (mutuate dalla pratica femminista, ma anche simili a quelle delle prime comunità hacker). L’insurrezione, da questo punto di vista, non è altro che la proliferazione delle comuni, delle loro relazioni e articolazioni, una proliferazione che Graeber definisce «contaminazionismo»: i militanti che sperimentano l’esperienza dell’azione diretta diventano agenti di diffusione di analoghe esperienze, secondo un modello che evoca il concetto di diffusione virale di idee attraverso la rete. Il tutto, ovviamente, in assenza di leader e gerarchie, in quanto a decidere sono i collettivi attraverso la pratica del consensus process. Molti collettivi degli indignati sembrano funzionare effettivamente in questo modo, ed è difficile stabilire in che misura si tratti di comportamenti spontanei o del frutto dell’egemonia delle correnti politiche che stiamo qui analizzando (che pure vedono come il fumo negli occhi il termine egemonia, ma è la contraddizione in cui cade fatalmente chiunque voglia «organizzare la non organizzazione»!). Ma la vera questione è capire se il modello «funziona». Personalmente ritengo che possa funzionare solo nella fase aurorale dei movimenti, dopodiché è destinato a generare aporie irresolubili:
– Il consensus process è inapplicabile non appena le dimensioni del movimento crescono e la necessità di decisioni rapide ed efficaci si fa impellente.
– Quella dei movimenti senza gerarchie è una vecchia illusione puntualmente smentita dai fatti: anche la più ossessiva procedura egualitaria non può impedire l’emergere di personalità carismatiche, che finiscono per esercitare un dominio superiore a quello che eserciterebbero se il loro potere fosse riconosciuto e limitato.
– Si tratta di un modello inadatto a creare un fronte ampio di lotta, in quanto il vincolo dell’unanimismo fa sì che, in assenza di consenso, si producano fenomeni di forking (la pratica delle scissioni ben nota alle comunità hacker).
Infine, in assenza di una seria analisi della composizione di classe, tendono a prevalere concezioni populiste che agevolano le strategie di divisione che il potere mette in atto facendo concessioni limitate all’ala moderata del movimento.
Nell’analisi neo-operaista, viceversa, l’ordine delle priorità è rovesciato, nel senso che tutte le riflessioni sull’organizzazione nascono dall’analisi della composizione di classe. Nelle Trentatré lezioni su Lenin (manifestolibri, 2004), un testo dei primi anni Settanta ristampato in anni recenti, Antonio Negri liquidava ogni velleità di riproporre il modello del partito leninista, salvando tuttavia la genialità con cui Lenin era riuscito a costruire l’organizzazione come «consapevolezza del rapporto di forza determinato fra classe operaia e capitale». Perseguendo l’obiettivo di unificare politicamente le diversità della stratificazione di classe, argomenta Negri, Lenin aveva saputo identificare l’avanguardia di classe e organizzarla in partito (un partito, dunque, tutto interno alla classe). Senza mai confondere fra composizione politica e composizione tecnica di classe, Lenin aveva intuito che la forza dell’organizzazione era in grado di modificare la composizione stessa di classe, consentendo alle minoranze consapevoli di farsi maggioranza. In quel testo negriano, dunque, c’era ancora spazio per il riconoscimento dell’autonomia del politico, sia pure inteso come funzione, tutta interna al movimento, di semplificazione della complessità sociale, concentrazione della forza contro il nemico di classe, flessibilità tattica in relazione alle contingenze concrete. Il partito leninista, insomma, andava superato in quanto espressione organizzativa di una determinata composizione di classe (che aveva al proprio vertice l’operaio professionale) e del rapporto di forze con il capitale generato da quella composizione, ma non era minimamente messa in questione la funzione dell’organizzazione rivoluzionaria, che occorreva invece reinventare, tenendo conto dell’emergenza di una classe operaia deprofessionalizzata, unificata e omogeneizzata dalla fabbrica fordista, una nuova composizione su cui diveniva possibile costruire dal basso una inedita avanguardia di massa. Infine, pur parlando di un tendenziale superamento della distinzione fra lotta economica e lotta politica, in quel testo c’era ancora il riconoscimento che «la lotta politica non è solo lotta economica e che la lotta economica non è mai direttamente politica».
Quasi quarant’anni dopo, nelle pagine di Comune (Rizzoli 2009), il testo che completa la trilogia su Impero e moltitudini scritta da Negri con Michael Hardt, non troviamo più nulla del genere. Il dissolversi di ogni consapevolezza della specificità funzionale del politico è di nuovo il prodotto dell’analisi della composizione di classe – un’analisi che approda ora a esiti paradossali. Posto che: l’autonomia del lavoro cognitivo appare oggi il necessario presupposto della produzione capitalistica, in una fase storica caratterizzata dalle tecnologie di rete; l’oggettiva impossibilità di misurare il valore in relazione alla quantità di lavoro (essendo quest’ultimo divenuto una frazione irrisoria della potenza della cooperazione sociale e della conoscenza scientifica incorporate nei processi produttivi) fa sì che emozioni, bisogni, desideri e relazioni sociali siano divenute i soli, veri «prodotti», per cui a essere prodotto è il soggetto stesso della produzione; o meglio è il soggetto che si autoproduce nella sua autonomia da un capitale che lo controlla esclusivamente grazie alla violenza combinata di poteri politici locali e flussi finanziari globali; posto tutto ciò, ne deriva che la distinzione fra produzione economica e azione politica non avrebbe più senso. La prima, ovvia critica riguarda il ripresentarsi di un vizio inveterato della tradizione operaista: identificata la tendenzialità di determinati processi la si eleva a necessità immanente. In questo modo ogni fase di sviluppo capitalistico diventa sempre «l’ultima» e ogni strato di classe che vive sulla sua pelle il punto più alto di tensione fra forze produttive e rapporti di produzione diventa l’avanguardia destinata a seppellire il nemico di classe. Ma il vero paradosso consiste nel fatto che, in questo modo, una teoria nata come rivendicazione del ruolo strategico della soggettività approda a una visione oggettivista del processo rivoluzionario. Si rimuove il fatto che i lavoratori cognitivi, proprio perché non si vendono come forza lavoro ma in quanto soggetti, non per quello che sanno fare ma per quello che «sono», sono i più esposti all’egemonia delle ideologie neocapitalistiche (vedi la forza lavoro della New Economy americana), finendo quindi per confondere composizione tecnica e composizione politica di classe. Si «economicizza» la prospettiva rivoluzionaria, riducendola alla costituzione di una «imprenditoria del comune» (basterebbe cioè che i lavoratori cognitivi continuassero a fare quello che già fanno, liberandosi delle sovrastrutture giuridiche che li subordinano al comando del capitale). Non a caso, la transizione alla società postcapitalista viene immaginata in modo del tutto simile alla nascita della società borghese dalla società tardo feudale, postulando che «il nuovo nasce dal grembo del vecchio». Ma in questo modo si elide il carattere eccezionale della fuoriuscita da relazioni sociali fondate sul mercato: la borghesia governava di fatto economia e società già prima di abbattere l’Ancien Régime, mentre il proletariato non governa nulla, nemmeno nell’attuale fase tardo-capitalista, e il capitalismo, in assenza di assalti politicamente organizzati potrebbe sopravvivere per secoli.
Le critiche che ho appena formulato fanno capire, a mio avviso, i motivi per cui il contributo della teoria neo-operaista al dibattito sull’organizzazione rivoluzionaria appare, se possibile, ancora più debole di quello dei teorici neoanarchici. Quest’ultimi, come si è visto, compiono almeno uno sforzo per delineare un modello organizzativo, mentre gli operaisti pensano (per usare le parole di Bifo nel suo ultimo lavoro, La sollevazione, Manni 2011) che «il nostro compito non è organizzare l’insurrezione, perché l’insurrezione è nelle cose». Del resto, quel poco che viene detto, e che riguarda sostanzialmente la necessità di strutturare dal basso un processo realmente democratico, adottando modelli e procedure organizzativi che evitino di riprodurre i dispositivi del dominio, non differisce sostanzialmente da quanto dicono i neo anarchici. È sufficiente? Sono convinto di no. Penso che i movimenti siano in grado di sperimentare e scegliere da soli i modelli e le procedure da adottare per organizzarsi, così come è sempre avvenuto nella storia delle lotte di classe, dalla Comune di Parigi, ai Soviet, ai Consigli tedeschi alle nuove forme di organizzazione che sfruttano le tecnologie di rete (quelli che altrove ho chiamato cybersoviet). Ma penso anche che la classe è fuori dal rapporto di capitale solo quando e se si organizza consapevolmente per realizzare un programma rivoluzionario. Un conto è prendere atto che la «forma partito» non ha più senso, un conto è rinunciare all’esistenza di qualsiasi organizzazione in grado di accompagnare i movimenti verso un salto di qualità rivoluzionario. Nessuno pretende di rappresentare politicamente gli interessi di classe, ma è indispensabile che la classe esprima, dal proprio interno, un’intelligenza politica organizzata che svolga le funzioni irrinunciabili del politico, non della politica, vale a dire ricostruire l’unità del proletariato come parte sociale in opposizione antagonistica al capitale. Quanto agli abbozzi programmatici che la maggior parte delle componenti della sinistra radicale sembrano ormai condividere – reddito di cittadinanza, cancellazione dei debiti, espropriazione delle ricchezze accumulate dalla finanza e loro ridistribuzione, drastica riduzione dell’orario di lavoro ecc. – mi pare ovvio che si tratti di obiettivi riformisti, ancorché radicali, il cui carattere «sovversivo» nasce dalla estrema difficoltà, se non impossibilità, che le oligarchie finanziarie e i regimi politici che ne gestiscono gli interessi possano accettarli, anche di fronte a fortissime pressioni dal basso. Il metodo della governance durerà solo fintanto che i governi saranno in grado di contenere l’impeto dei movimenti, dopodiché la faccia violenta del potere tornerà a mostrarsi in tutta la sua ferocia. E allora?
Non ho qui lo spazio per affrontare questo interrogativo cruciale, per cui mi limito ad abbozzare una risposta indiretta, partendo dalle polemiche che gli eventi del 15 ottobre scorso hanno innescato sul tema violenza/non violenza. Credo francamente che si tratti di un falso dilemma, soprattutto se la discussione viene impostata in termini di principio. In un intervento sulla mia pagina facebook ho espresso un giudizio severo sui gruppi che hanno organizzato gli scontri; giudizio che non rispecchia convinzioni pacifiste di principio ma nasce da un’analisi politica:
– La violenza di piazza infligge danni ridicoli al nemico di classe, e si giustifica solo in quanto autodifesa da eventuali aggressioni.
– In un’epoca in cui le forze di repressione sono militari di professione è illusorio immaginare che possano essere indotte a solidarizzare con i movimenti, per cui ogni scontro frontale è destinato a causare sconfitte.
– Non violenza e disobbedienza civile possono rivelarsi armi poderose, a condizione che il movimento sia in grado di concentrare forze adeguate (forza e violenza sono concetti diversi, se non opposti: di quanta più forza si dispone, tanto meno occorre ricorrere alla violenza).
Nel caso del 15 ottobre l’errore è consistito nel non prendere atto che la schiacciante maggioranza dei partecipanti al corteo era contraria allo scontro, non tenerne conto ha voluto dire dividere il movimento e quindi indebolirlo. Gli indignati italiani hanno il difetto di nutrire illusioni «legalitarie» (è la critica che rivolge loro Bifo nel libro sopra citato)? Le manifestazioni sono egemonizzate da forze neo istituzionali che non vogliono collidere con i simboli del potere politico e finanziario? Benissimo, allora il compito degli antagonisti è stare in mezzo alle masse per estendere la propria influenza (o egemonia, volendo irritare i fan della politically correctness). Ma per essere all’altezza del compito occorre tornare a interrogarsi seriamente sul problema dell’organizzazione rivoluzionaria.
di Carlo Formenti in alfabetta2 - sinistrainrete -
Dalla fine del ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, è la prima volta che assistiamo alla nascita e allo sviluppo, contemporaneamente e a livello mondiale, di movimenti sociali a carattere antagonistico. Le insorgenze dei trent’anni precedenti – a eccezione del ciclo No Global da Seattle a Genova – erano di tipo «single issue» (movimenti studenteschi, lotte per la pace, contro il nucleare, per i diritti delle donne e dei gay ecc.) né hanno mai assunto – se non marginalmente – carattere anticapitalistico. Anche la marea di rabbia e di odio che oggi vediamo montare a livello globale – dalla primavera araba agli indignati di Spagna, Grecia e Israele, da Occupy Wall Street alle lotte degli operai e contadini cinesi e di altri paesi in via di sviluppo – assume solo episodicamente una natura esplicitamente antagonista, ma il radicale rifiuto di mediazioni politiche istituzionali, di ogni forma di rappresentanza, così come le pratiche di autogestione e autoorganizzazione delle lotte e l’identificazione del nemico principale nella finanza globale e nei governi, di destra e di sinistra, che ne incarnano gli interessi, sembrano condurre in tale direzione.
Le cause del processo sono già state ampiamente analizzate, per cui mi limito a richiamarle brevemente, per passare subito dopo al tema centrale di questo intervento. Decenni di controrivoluzione liberista e di finanziarizzazione dell’economia hanno spazzato via il compromesso fra capitale e lavoro fondato sul welfare. Oggi ai proletari (e alle classi medie proletarizzate) non serve leggere Stato e rivoluzione per capire che lo Stato borghese non è cosa che possa servire – anche in minima parte – i loro interessi. Del resto, non esiste nemmeno più una classe borghese capace di delegare alla politica la gestione di un «interesse generale», sia pure inteso come interesse di tutta la borghesia e non di singole frazioni di essa, esistono solo caste politiche che servono – cinicamente e alla luce del sole – gli interessi delle lobby finanziarie.
Viviamo una situazione in cui il «piano del capitale» si riduce alla creazione e al mantenimento di condizioni che consentano la realizzazione del massimo profitto in tempi brevi, in cui le politiche economiche degli Stati-nazione, anche i più potenti, obbediscono a imperativi di breve termine della finanza globale, senza riguardo agli effetti di medio lungo termine – deindustrializzazione, disoccupazione di massa, immiserimento assoluto e relativo di larghi settori della popolazione ecc. Viviamo sotto regimi politici in palese difetto di legittimazione, che hanno perso ogni parvenza – anche formale – di democraticità (vedi il diktat europeo che ha vietato ai greci di votare sulle misure «anticrisi»), regimi postdemocratici, caratterizzati da processi di personalizzazione e spettacolarizzazione di una politica ridotta a rappresentazione mediatica, dove i cittadini possono «scegliere» fra due destre che si contendono il ruolo di realizzare programmi identici.
Nessuno stupore, quindi, se da un corpo sociale martoriato riemergono spinte e umori antagonisti (stupisce anzi che non sia avvenuto prima, e con radicalità maggiore). Ciò detto, sarebbe lecito aspettarsi una fioritura di riflessioni teoriche sui seguenti interrogativi: disponiamo d’un modello organizzativo in grado di coordinare, estendere e consolidare i movimenti? Esiste un programma in grado di unificarli? Possiamo immaginare la transizione a una civiltà postcapitalista? Invece siamo costretti ad ammettere che ci troviamo di fronte a un grado zero della teoria rivoluzionaria. Appurato che nulla del genere possiamo attenderci da quanto resta del movimento operaio tradizionale (il quale, dopo la conversione delle socialdemocrazie alla retorica della «terza via», si riduce ad alcune frange sindacali e alla rissosa galassia di partitini neocomunisti), le sole componenti che tentino di balbettare qualcosa in proposito sono neoanarchici e neooperaisti. Balbettii che, ad avviso di chi scrive, sono ancora lontani dall’offrire efficaci linee guida per favorire un salto di qualità dell’azione spontanea dei movimenti.
Partiamo dai neoanarchici. Occorre essere ottusi, leggiamo nel pamphlet L’insurrection qui vient (La fabrique éditions, 2007) pubblicato qualche anno fa dal collettivo Comité invisible, per non capire che c’è del politico in ogni negazione radicale della politica. Un’affermazione cruciale, nella misura in cui pone una differenza fra la politica intesa come sistema istituzionale e il politico inteso come dimensione dell’agire sociale. La distinzione appare tanto più significativa in quanto proviene da una cultura politica che si oppone per principio a qualsiasi organizzazione partitica, in quanto anche quelle che si dicono rivoluzionarie, si dice, operano come «stati in miniatura», adottano la stessa logica di ciò che affermano di voler distruggere. Pur attribuendo la dignità del politico solo alla spontaneità dei movimenti, dunque, anche la teoria anarchica ammette l’esistenza di un’«autonomia del politico», se non come dimensione separata dal sociale, almeno come dimensione tattica dell’agire, come necessità di decidere nella contingenza di questa o quella fase determinata della lotta; o, se si preferisce, come scarto fra capacità di immaginare un futuro differente e capacità di compiere passi concreti per tradurre l’immaginazione in realtà. E occorre anche riconoscere che, rispetto alla sua tradizione, la teoria anarchica ha compiuto sforzi significativi per identificare quali modelli organizzativi, e quali pratiche di movimento potrebbero favorire un processo rivoluzionario non destinato a produrre nuove forme di dominio. Il modello è, in buona sostanza, quello dei network orizzontali fondati sui nuovi media, un modello che si vorrebbe calare dal mondo virtuale nella realtà sociale promuovendo la proliferazione di comuni. Tanto nel testo citato poco sopra, quanto negli scritti di David Graeber, per comuni si intendono dei gruppi di affinità decentrati e orizzontali che prendano decisioni attraverso rigorose procedure di consenso (mutuate dalla pratica femminista, ma anche simili a quelle delle prime comunità hacker). L’insurrezione, da questo punto di vista, non è altro che la proliferazione delle comuni, delle loro relazioni e articolazioni, una proliferazione che Graeber definisce «contaminazionismo»: i militanti che sperimentano l’esperienza dell’azione diretta diventano agenti di diffusione di analoghe esperienze, secondo un modello che evoca il concetto di diffusione virale di idee attraverso la rete. Il tutto, ovviamente, in assenza di leader e gerarchie, in quanto a decidere sono i collettivi attraverso la pratica del consensus process. Molti collettivi degli indignati sembrano funzionare effettivamente in questo modo, ed è difficile stabilire in che misura si tratti di comportamenti spontanei o del frutto dell’egemonia delle correnti politiche che stiamo qui analizzando (che pure vedono come il fumo negli occhi il termine egemonia, ma è la contraddizione in cui cade fatalmente chiunque voglia «organizzare la non organizzazione»!). Ma la vera questione è capire se il modello «funziona». Personalmente ritengo che possa funzionare solo nella fase aurorale dei movimenti, dopodiché è destinato a generare aporie irresolubili:
– Il consensus process è inapplicabile non appena le dimensioni del movimento crescono e la necessità di decisioni rapide ed efficaci si fa impellente.
– Quella dei movimenti senza gerarchie è una vecchia illusione puntualmente smentita dai fatti: anche la più ossessiva procedura egualitaria non può impedire l’emergere di personalità carismatiche, che finiscono per esercitare un dominio superiore a quello che eserciterebbero se il loro potere fosse riconosciuto e limitato.
– Si tratta di un modello inadatto a creare un fronte ampio di lotta, in quanto il vincolo dell’unanimismo fa sì che, in assenza di consenso, si producano fenomeni di forking (la pratica delle scissioni ben nota alle comunità hacker).
Infine, in assenza di una seria analisi della composizione di classe, tendono a prevalere concezioni populiste che agevolano le strategie di divisione che il potere mette in atto facendo concessioni limitate all’ala moderata del movimento.
Nell’analisi neo-operaista, viceversa, l’ordine delle priorità è rovesciato, nel senso che tutte le riflessioni sull’organizzazione nascono dall’analisi della composizione di classe. Nelle Trentatré lezioni su Lenin (manifestolibri, 2004), un testo dei primi anni Settanta ristampato in anni recenti, Antonio Negri liquidava ogni velleità di riproporre il modello del partito leninista, salvando tuttavia la genialità con cui Lenin era riuscito a costruire l’organizzazione come «consapevolezza del rapporto di forza determinato fra classe operaia e capitale». Perseguendo l’obiettivo di unificare politicamente le diversità della stratificazione di classe, argomenta Negri, Lenin aveva saputo identificare l’avanguardia di classe e organizzarla in partito (un partito, dunque, tutto interno alla classe). Senza mai confondere fra composizione politica e composizione tecnica di classe, Lenin aveva intuito che la forza dell’organizzazione era in grado di modificare la composizione stessa di classe, consentendo alle minoranze consapevoli di farsi maggioranza. In quel testo negriano, dunque, c’era ancora spazio per il riconoscimento dell’autonomia del politico, sia pure inteso come funzione, tutta interna al movimento, di semplificazione della complessità sociale, concentrazione della forza contro il nemico di classe, flessibilità tattica in relazione alle contingenze concrete. Il partito leninista, insomma, andava superato in quanto espressione organizzativa di una determinata composizione di classe (che aveva al proprio vertice l’operaio professionale) e del rapporto di forze con il capitale generato da quella composizione, ma non era minimamente messa in questione la funzione dell’organizzazione rivoluzionaria, che occorreva invece reinventare, tenendo conto dell’emergenza di una classe operaia deprofessionalizzata, unificata e omogeneizzata dalla fabbrica fordista, una nuova composizione su cui diveniva possibile costruire dal basso una inedita avanguardia di massa. Infine, pur parlando di un tendenziale superamento della distinzione fra lotta economica e lotta politica, in quel testo c’era ancora il riconoscimento che «la lotta politica non è solo lotta economica e che la lotta economica non è mai direttamente politica».
Quasi quarant’anni dopo, nelle pagine di Comune (Rizzoli 2009), il testo che completa la trilogia su Impero e moltitudini scritta da Negri con Michael Hardt, non troviamo più nulla del genere. Il dissolversi di ogni consapevolezza della specificità funzionale del politico è di nuovo il prodotto dell’analisi della composizione di classe – un’analisi che approda ora a esiti paradossali. Posto che: l’autonomia del lavoro cognitivo appare oggi il necessario presupposto della produzione capitalistica, in una fase storica caratterizzata dalle tecnologie di rete; l’oggettiva impossibilità di misurare il valore in relazione alla quantità di lavoro (essendo quest’ultimo divenuto una frazione irrisoria della potenza della cooperazione sociale e della conoscenza scientifica incorporate nei processi produttivi) fa sì che emozioni, bisogni, desideri e relazioni sociali siano divenute i soli, veri «prodotti», per cui a essere prodotto è il soggetto stesso della produzione; o meglio è il soggetto che si autoproduce nella sua autonomia da un capitale che lo controlla esclusivamente grazie alla violenza combinata di poteri politici locali e flussi finanziari globali; posto tutto ciò, ne deriva che la distinzione fra produzione economica e azione politica non avrebbe più senso. La prima, ovvia critica riguarda il ripresentarsi di un vizio inveterato della tradizione operaista: identificata la tendenzialità di determinati processi la si eleva a necessità immanente. In questo modo ogni fase di sviluppo capitalistico diventa sempre «l’ultima» e ogni strato di classe che vive sulla sua pelle il punto più alto di tensione fra forze produttive e rapporti di produzione diventa l’avanguardia destinata a seppellire il nemico di classe. Ma il vero paradosso consiste nel fatto che, in questo modo, una teoria nata come rivendicazione del ruolo strategico della soggettività approda a una visione oggettivista del processo rivoluzionario. Si rimuove il fatto che i lavoratori cognitivi, proprio perché non si vendono come forza lavoro ma in quanto soggetti, non per quello che sanno fare ma per quello che «sono», sono i più esposti all’egemonia delle ideologie neocapitalistiche (vedi la forza lavoro della New Economy americana), finendo quindi per confondere composizione tecnica e composizione politica di classe. Si «economicizza» la prospettiva rivoluzionaria, riducendola alla costituzione di una «imprenditoria del comune» (basterebbe cioè che i lavoratori cognitivi continuassero a fare quello che già fanno, liberandosi delle sovrastrutture giuridiche che li subordinano al comando del capitale). Non a caso, la transizione alla società postcapitalista viene immaginata in modo del tutto simile alla nascita della società borghese dalla società tardo feudale, postulando che «il nuovo nasce dal grembo del vecchio». Ma in questo modo si elide il carattere eccezionale della fuoriuscita da relazioni sociali fondate sul mercato: la borghesia governava di fatto economia e società già prima di abbattere l’Ancien Régime, mentre il proletariato non governa nulla, nemmeno nell’attuale fase tardo-capitalista, e il capitalismo, in assenza di assalti politicamente organizzati potrebbe sopravvivere per secoli.
Le critiche che ho appena formulato fanno capire, a mio avviso, i motivi per cui il contributo della teoria neo-operaista al dibattito sull’organizzazione rivoluzionaria appare, se possibile, ancora più debole di quello dei teorici neoanarchici. Quest’ultimi, come si è visto, compiono almeno uno sforzo per delineare un modello organizzativo, mentre gli operaisti pensano (per usare le parole di Bifo nel suo ultimo lavoro, La sollevazione, Manni 2011) che «il nostro compito non è organizzare l’insurrezione, perché l’insurrezione è nelle cose». Del resto, quel poco che viene detto, e che riguarda sostanzialmente la necessità di strutturare dal basso un processo realmente democratico, adottando modelli e procedure organizzativi che evitino di riprodurre i dispositivi del dominio, non differisce sostanzialmente da quanto dicono i neo anarchici. È sufficiente? Sono convinto di no. Penso che i movimenti siano in grado di sperimentare e scegliere da soli i modelli e le procedure da adottare per organizzarsi, così come è sempre avvenuto nella storia delle lotte di classe, dalla Comune di Parigi, ai Soviet, ai Consigli tedeschi alle nuove forme di organizzazione che sfruttano le tecnologie di rete (quelli che altrove ho chiamato cybersoviet). Ma penso anche che la classe è fuori dal rapporto di capitale solo quando e se si organizza consapevolmente per realizzare un programma rivoluzionario. Un conto è prendere atto che la «forma partito» non ha più senso, un conto è rinunciare all’esistenza di qualsiasi organizzazione in grado di accompagnare i movimenti verso un salto di qualità rivoluzionario. Nessuno pretende di rappresentare politicamente gli interessi di classe, ma è indispensabile che la classe esprima, dal proprio interno, un’intelligenza politica organizzata che svolga le funzioni irrinunciabili del politico, non della politica, vale a dire ricostruire l’unità del proletariato come parte sociale in opposizione antagonistica al capitale. Quanto agli abbozzi programmatici che la maggior parte delle componenti della sinistra radicale sembrano ormai condividere – reddito di cittadinanza, cancellazione dei debiti, espropriazione delle ricchezze accumulate dalla finanza e loro ridistribuzione, drastica riduzione dell’orario di lavoro ecc. – mi pare ovvio che si tratti di obiettivi riformisti, ancorché radicali, il cui carattere «sovversivo» nasce dalla estrema difficoltà, se non impossibilità, che le oligarchie finanziarie e i regimi politici che ne gestiscono gli interessi possano accettarli, anche di fronte a fortissime pressioni dal basso. Il metodo della governance durerà solo fintanto che i governi saranno in grado di contenere l’impeto dei movimenti, dopodiché la faccia violenta del potere tornerà a mostrarsi in tutta la sua ferocia. E allora?
Non ho qui lo spazio per affrontare questo interrogativo cruciale, per cui mi limito ad abbozzare una risposta indiretta, partendo dalle polemiche che gli eventi del 15 ottobre scorso hanno innescato sul tema violenza/non violenza. Credo francamente che si tratti di un falso dilemma, soprattutto se la discussione viene impostata in termini di principio. In un intervento sulla mia pagina facebook ho espresso un giudizio severo sui gruppi che hanno organizzato gli scontri; giudizio che non rispecchia convinzioni pacifiste di principio ma nasce da un’analisi politica:
– La violenza di piazza infligge danni ridicoli al nemico di classe, e si giustifica solo in quanto autodifesa da eventuali aggressioni.
– In un’epoca in cui le forze di repressione sono militari di professione è illusorio immaginare che possano essere indotte a solidarizzare con i movimenti, per cui ogni scontro frontale è destinato a causare sconfitte.
– Non violenza e disobbedienza civile possono rivelarsi armi poderose, a condizione che il movimento sia in grado di concentrare forze adeguate (forza e violenza sono concetti diversi, se non opposti: di quanta più forza si dispone, tanto meno occorre ricorrere alla violenza).
Nel caso del 15 ottobre l’errore è consistito nel non prendere atto che la schiacciante maggioranza dei partecipanti al corteo era contraria allo scontro, non tenerne conto ha voluto dire dividere il movimento e quindi indebolirlo. Gli indignati italiani hanno il difetto di nutrire illusioni «legalitarie» (è la critica che rivolge loro Bifo nel libro sopra citato)? Le manifestazioni sono egemonizzate da forze neo istituzionali che non vogliono collidere con i simboli del potere politico e finanziario? Benissimo, allora il compito degli antagonisti è stare in mezzo alle masse per estendere la propria influenza (o egemonia, volendo irritare i fan della politically correctness). Ma per essere all’altezza del compito occorre tornare a interrogarsi seriamente sul problema dell’organizzazione rivoluzionaria.
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