Il dibattito corrente tende a premiare (entro certi limiti anche comprensibilmente) le misure più efficaci nell’immediato per attutire la crisi attraversata dall’euro, soffermandosi per lo più su questioni che attengono gli equilibri finanziari europei già da troppo tempo sotto pressione. Non è tuttavia del tutto raro l’emergere di riflessioni sull’importanza dei divari tra le strutture delle diverse economie europee e sulla necessità di politiche di investimento opportunamente mirate, che dovrebbero diminuire l’entità di tali divari per consentire una sostanziale stabilità nel processo di aggiustamento macroeconomico a cui si vuole tendere. Da questo punto di vista, il riconoscimento di divari di natura tecnologica, soprattutto tra paesi nord europei e sud europei, ha assunto un ruolo cruciale poiché è proprio sulla capacità delle economie di sviluppare innovazioni che si giocano i maggiori potenziali di crescita e, di conseguenza, anche le possibilità di rendere meno onerose le situazioni in cui versano i debiti sovrani.
Lo sviluppo della cosiddetta “economia verde” appare attualmente come uno dei volani più promettenti del processo di innovazione al quale in Europa si dovrebbe dare spazio. Le premesse ci sarebbero tutte, poiché è dall’Europa che ha preso corpo il grande programma di lotta al cambiamento climatico che trova nel Protocollo di Kyoto una delle sue pietre miliari. Ma è anche vero che i processi di innovazione non si improvvisano e debbono nutrirsi di apparati di competenze scientifiche e tecnologiche che i paesi dovrebbero aver costruito in precedenza. Pur nel quadro di una giusta intuizione, la visione “ecologista” ha invece spesso sottovalutato questi aspetti, limitandosi a ragionare su come i paesi dovessero attivare risorse per combattere il riscaldamento terrestre, tralasciando le implicazioni collegate alla crescita del reddito e dell’occupazione. E’ solo più di recente che il termine “green growth” (“crescita verde”) ha iniziato ad acquisire una qualche importanza, ma il modo in cui la questione è trattata appare in molti casi ancora insoddisfacente.
In una larga maggioranza di casi si considera la spesa in tecnologie verdi come l’investimento più opportuno per stimolare la crescita: questo è vero, ma solo in parte. L’innovazione di cui si parla, dovrebbe infatti dar vita a nuovi processi produttivi, nuove filiere industriali sostitutive delle vecchie, in grado di soddisfare una domanda che si dirige verso nuovi beni. Immaginare una sorta di “keynesismo verde” come mera azione di spesa di componenti e strumenti per la realizzazione di nuovi metodi di produzione o per la produzione di energia da fonti rinnovabili, non solo sarebbe insufficiente, ma comprometterebbe strutturalmente il processo di crescita, anche nel medio termine. Questo perché se la spesa di cui si parla si dirige sulle importazioni dall’estero – nella misura in cui l’offerta o produzione nazionale sia insufficiente o in casi estremi assenti – l’aumento del reddito che si ottiene in un primo momento come beneficio dell’impatto positivo degli investimenti, incontra un limite nell’emergere di squilibri dal lato delle bilance commerciali. Ma ciò che più conta è che lo squilibrio commerciale può divenire strutturale, man mano che le tecnologie verdi, come è auspicabile, sono destinate a trasformare le modalità dei processi produttivi, se non si opta per politiche di trasformazione del tessuto produttivo, in modo tale che questo sia sempre più adeguato a rispondere ai cambiamenti di composizione della domanda.
Si tratta evidentemente di una questione cruciale, non solo di per sé, ma anche in relazione ai problemi, strutturali per l’appunto, che sono stati individuati nell’area euro in relazione alla persistenza di deficit e surplus commerciali. Ma c’è di più: si tratta infatti di un problema che siamo già in grado di registrare e che riguarda in maniera estremamente significativa proprio l’Italia.
Un caso emblematico è infatti rappresentato dalla straordinaria diffusione del fotovoltaico nel nostro paese che, come in molti altre parti di Europa, ha beneficiato di generosa incentivazione. Il punto è però che nel caso del nostro paese la domanda di componenti si è scaricata pressoché totalmente sulle importazioni, dando luogo a deficit commerciali sempre più ampi nel settore, nonostante l’incedere della crisi economica e della generale stagnazione della domanda interna, diversamente da quanto accaduto negli altri maggiori paesi europei, che hanno dato nel frattempo vita ad un aggiustamento del mix di produzione energetica seguito da aggiustamenti nella produzione nazionale di tecnologie energetiche.
Che l’Italia sia balzata al primo posto della capacità installata per la produzione di energia fotovoltaica, importa fino a un certo punto. Importa cioè fino al punto in cui tutto questo concerne l’abbattimento della produzione di anidride carbonica. Ma se in parallelo un processo di questo tipo dà luogo alla “costruzione” di deficit strutturali della bilancia commerciale, l’orientamento deve essere profondamente rivisto. E anche al più presto: nel caso specifico, infatti, l’Italia ha di fronte a sé un deficit di componenti fotovoltaici che per poco più della metà è riconducibile all’Asia (e in primo luogo alla Cina) e per la restante parte alla Germania, che vanta nei nostri confronti un ampio surplus manifatturiero di cui il fotovoltaico arriva nel 2010 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati) a rappresentare il 10% (per un equivalente di 11 miliardi di dollari correnti).
Si capisce pertanto con quanta attenzione si debba guardare alle realtà che stanno investendo lo sviluppo dell’economia verde. Il caso dell’Italia appena esposto, soprattutto se dovesse divenire paradigmatico di una linea di intervento nei “settori verdi”, ci dice quanto fitta di insidie per la stessa situazione europea potrebbe rivelarsi la rivoluzione verde (nella quale, “per inciso”, la Germania ha già investito abbondantemente, creandosi un substrato competitivo che le consente di vantare crediti commerciali ben al di là delle pratiche di deflazione attuate sui salari interni).
La domanda che il recente articolo su Project Syndicate a cura di Roland Kupers dell’Università di Oxford si pone a proposito della “green economy” come alternativa all’austerità, ci sembra pertanto non solo molto centrata, ma anche assai problematica. Ed è giustamente problematico il modo in cui l’autore si pone di fronte al tema, riconoscendo l’incertezza e la complessità che da sempre hanno accompagnato l’esplicarsi dei processi di innovazione e le loro ricadute sull’attività e lo sviluppo economico.
E’ vero: non siamo oggi in grado di stabilire quale sarà l’effetto di questa nuova sorta di “rivoluzione industriale”. Tuttavia alcune certezze abbiamo la pretesa di offrirle, almeno per quanto riguarda la necessità che paesi in deficit tecnologico – come l’Italia – non ritardino ulteriormente il loro allineamento a quelli più competitivi. Perché l’innovazione è una necessità, e l’”economia verde” è comunque destinata a proseguire il suo percorso.
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