Analizzando l’esperienza del Front de Gauche (FdG) colpisce in primo luogo il coraggio di assumere a base del suo programma l’analisi economica eterodossa, con un risultato che mi sembra ragionevole [1]. Su un piano economico, ad esempio, si individuano le radici dell’attuale crisi economica nella redistribuzione del reddito a favore dei profitti operata negli ultimi 30 anni, e si considera il debito pubblico una “vittima”, e non un “artefice”, della crisi - cose spesso affermate da economisti critici, ma raramente da un partito politico. Su un piano politico, vi si trova l’idea che nello scontro di interessi tra “popoli” e “mercati” non possano vincere entrambi, e che la mondializzazione del capitale, il potere della finanza, la competizione internazionale non siano una fatalità, o una legge di natura, bensì piuttosto “un processo politico interamente comandato dai governi nazionali che fanno, in realtà quello che vogliono”, sicchè “(u)n governo determinato può sbarazzarsi degli speculatori, riprendere il controllo della finanza, superare la crisi del debito pubblico, liberarsi dalle costrizioni imposte dai trattati europei, senza nemmeno uscire dalla Unione Europea o dall’Euro”.[2]
Dell’esperienza del FdG colpisce però anche la provenienza dei suoi dirigenti politici. Una spinta importante al FdG è stata impressa da politici che vengono dall’establishment, dalla sinistra del Partito Socialista francese: Jean-Luc Mélénchon, Jacques Généreux, Marc Dolez. Essi hanno riconosciuto i loro sbagli – tra i più salienti, ma non i soli, l’appoggio al trattato di Maastricht (Mitterand, 1992) e la resa a quello di Amsterdam (Chirac/Jospin, 1997). Il loro distacco dal Partito Socialista (PS) è cominciato nel 2005 quando, contro le indicazioni del partito, si sono schierati per il no al referendum sulla Costituzione Europea promuovendo un dibattito pubblico e vincendo. Nel 2008 sono usciti dal PS per fondare il Parti de Gauche (che è una delle componenti del Front de Gauche), ed hanno portato con questo processo la “sinistra-sinistra” ad ottenere un risultato a 2 cifre nelle elezioni francesi che non si aveva dal 1981, denunciando il fatto che lo smarrimento delle sinistre europee starebbe nell’avvenuta introiezione – nell’assorbimento senza consapevolezza - dell’ideologia del “libero mercato”, frutto di uno stillicidio durato decenni, che le terrebbe prigioniere, contagiando e confondendo l’elettorato, con il risultato di gettarlo nella rassegnazione (there is no alternative), oppure di spingerlo alla rivolta reazionaria. Per il FdG, lo stesso Hollande, con il suo programma di “austerità dolce” e la sua intenzione di trovare un compromesso con la Merkel e la BCE, non si sarebbe veramente liberato da questo incantesimo ideologico, e sarà ovviamente interessante al riguardo seguire le prossime mosse del nuovo presidente francese.
Ma ciò che più colpisce del FdG è la radicalità sensata delle misure che propone per rilanciare la produzione e l’occupazione (molte delle quali presenti, in forma più blanda o più incerta nel finanziamento, nel Programma di Hollande). Le principali proposte sono:
● aumentare il salario minimo, lo SMIC, del 21% a 1.700 Euro lordi, che dovrebbero diventare netti a fine legislatura (ogni paese europeo dovrebbe adottare uno SMIC non inferiore al 60% del salario medio);
● imporre un rapporto massimo di 1:20 tra la paga più bassa e quella più alta nelle imprese;
● fissare un reddito annuo massimo di 360.000 Euro oltre il quale lo Stato prende tutto;
● porre limiti ai licenziamenti nelle imprese che distribuiscono dividendi; eliminare i contratti di precariato, cominciando da quelli esistenti nel pubblico impiego;
● restituire il diritto di andare in pensione a 60 anni, pensione minima pari allo SMIC, difendere il sistema retributivo;
● ritornare alle 35 ore;
● istituire una sanità interamente pubblica e universale;
● lanciare la pianificazione ecologica (un vasto programma di reindustrializzazione ecologica, di uscita pianificata dal petrolio e dal nucleare, di investimenti pubblici ecologici e sociali);
● nazionalizzare l’energia (mi limito a questo esempio per indicare una strategia più vasta di difesa da privatizzazioni indiscriminate, ma non necessariamente di nazionalizzazione, di settori come, oltre all’energia, le telecomunicazioni, i trasporti, la ricerca, la sanità, l’educazione, il credito, l’acqua, l’abitazione e, naturalmente, la protezione sociale, la sicurezza, la difesa, la giustizia).
I costi annui di questi interventi ammonterebbero a 130-140 mld di Euro l’anno (esclusa la nazionalizzazione dell’energia che dovrebbe ripagarsi da sé), e le fonti di finanziamento sono valutate in 160-190 mld (si tratterebbe, grosso modo, di riprendersi il 10% circa del PIL francese che, prendendo come base di partenza la media degli anni ’60, si sarebbe spostato dai salari ai profitti e rendite). Queste cifre sono state validate dall’Institut de l’Entreprise, il think tank privato che ha valutato la sostenibilità dei programmi di tutti i candidati alle presidenziali francesi del 2012.[3]
Secondo il FdG un Governo francese che volesse realizzare queste misure di rilancio della produzione e dell’occupazione dovrebbe al tempo stesso necessariamente:
● ristabilire un controllo sui movimenti di capitale;
● ristabilire un controllo sui movimenti delle merci, introducendo un visto ecologico e sociale;
● riprendere il controllo del finanziamento pubblico (perso in Francia a cominciare dalla Legge Pompidou-Giscard del 1973 che obbligava il Tesoro a finanziarsi sui mercati.
Nessuna di queste politiche è attualmente permessa dai trattati europei, ma il FdG propone una strategia alternativa all’uscita dall’Unione Europea e dall’Euro basata principalmente su due punti:
1°. appellarsi al “Compromesso di Lussemburgo” per uscire dal trattato di Lisbona – riformando, se necessario, la Costituzione Francese e lo statuto della banca centrale nazionale. Secondo il Compromesso di Lussemburgo, infatti, quando una questione europea concerne un “interesse vitale” di un paese aderente, il Consiglio Europeo deve trovare un compromesso che abbia l’accordo unanime; nel frattempo il paese che si è appellato al compromesso può usufruire di una clausola di eccezione senza dover uscire dalla UE;
2°. disobbedire alla BCE e far fare alla Banca di Francia, che ne ha tutti gli strumenti tecnici, quello che la BCE non vuole fare – ad esempio prestare allo Stato francese al tasso del 1%.[4]
Lo scopo immediato di questa strategia è quello di rompere il blocco neo-liberale che governa l’Europa, contando sull’effetto imitazione dei governi di altri paesi che stanno trovando i vincoli europei insostenibili, per il loro alto costo sociale. Se ciò avvenisse, si aprirebbero vari scenari, ampiamente dibattuti in Francia[5], che vanno dalla rifondazione dell’Euro, alla creazione di un “Eurosud”, alla creazione di una moneta comune ispirata a quanto proposto da Keynes e Schumacher nel 1944 (con riferimento, in particolare, alla penalizzazione dei paesi strutturalmente in surplus/deficit, per spingerli al gioco cooperativo mirato all’equilibrio degli scambi e alla convergenza verso l’alto delle economie, dei salari, delle protezioni sociali[6]).
Il programma del FdG ha certamente punti discutibili, ma una discussione approfondita su di esso sembrerebbe auspicabile. Esso può offrire un esempio, indicare una direzione, per uscire dalla frammentazione e dal disordine del discorso della sinistra, che sta generando confusione, insicurezza, senso di impotenza, e quindi, alla fine, grande dispersione di forze. Uscire da quella frammentazione e da quel disordine appare d’altra parte sempre più necessario, dati i costi sociali sempre più alti della crisi e gli incerti (e forse cupi) scenari politici che ne potrebbero derivare.
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