La rissa tra economisti è peggio di quella politica
Pubblicato il 2 nov 2013 - rifondazione -
di Nicola Melloni – sbilanciamocin.infoCi troviamo davanti a un fenomeno alquanto bizzarro. Il dibattito politico sull’austerity è stato largamente assente in praticamente tutti i paesi europei. Socialisti e conservatori, chi con entusiasmo, chi con qualche remora, hanno accettato tagli e tasse senza nemmeno discutere la validità di tali ricette economiche. Diversa invece la situazione in campo accademico, dove lo scontro tra neo-lib (e neo-con) e keynesiani è ormai al calor bianco. Non più solo uno scontro di idee, ma uno scontro personale e soprattutto, appunto, politico. In discussione ormai non sono solo certe politiche, ma sistemi di pensiero, onestà intellettuale e ruolo degli intellettuali nella società. Con buone ragioni, amio parere. Per oltre trent’anni l’economia mainstream è stata presentata come una scienza esatta, super partes. Magnificava il mercato e demonizzava l’intervento pubblico quando non la politica tout court, perché così dicevano i numeri. Che questi numeri non fossero proprio una rappresentazione fedele della realtà contava poco. L’economia è diventata una forza decisiva per impostare il dibattito politico, formare la pubblica opinione, incatenare le scelte degli Stati – basti pensare, ben prima della presente austerity, ai parametri di Maastricht. Una scienza strumentale ad un certo tipo di sistema di potere e che dunque si è sviluppata e strutturata su criteri certo non solo legati al merito accademico. (…) La cosa non è certo migliorata con la crisi, tutt’altro. Dopo un iniziale periodo di politiche keynesiane, si è cambiato velocemente rotta. In concomitanza con la crisi greca sono cominciati a circolare i primi importanti contributi accademici in favore dell’austerity. Prima Alesina e Ardagna che sostenevano come una contrazione della spesa pubblica potesse influire positivamente sulla crescita del Pil, poi Reinhart e Rogoff che stabilivano una relazione causale tra debito pubblico troppo alto e bassa crescita. Senonché pian piano è venuta a galla qualche verità un po’ scomoda per i fautori dell’austerity. In primo luogo l’impatto delle politiche restrittive era stato calcolato usando un moltiplicatore sbagliato – e dunque tutte le previsioni sull’andamento del Pil erano state sovrastimate. Ma anche l’impianto teorico fornito dai vari paper che rigettavano il ruolo della spesa pubblica e tutto il contributo keynesiano alla macroeconomia si rivelava clamorosamente fallato. A parte il famoso errore di Excel nell’articolo di Reinhart e Rogoff, i problemi di fondo sono ben altri: dati inseriti e/o esclusi ad arte, pesi dei dati quantomeno dubbiosi, relazioni di causalità invertite. In entrambi i casi si tratta di una evidenza empirica scadente spacciata come incontrovertibile, ed usata poi politicamente per imporre un certo tipo di politiche pubbliche. (…) L’economia è diventata ideologia e dunque lo scontro teorico è divenuta bagarre politica. Ma non tutte le parti sono uguali, in questa mischia. (…) Da parte neoliberale si è ricorso in maniera costante ad una presentazione dei dati davvero poco edificante. (…) Quello cui ci troviamo di fronte è, in realtà, un cortocircuito generale. Che la mistificazione della realtà venga fatta da politici che cercano di difendere il loro operato è in qualche maniera comprensibile, mentre molto meno lo è che non ci siano forze politiche di rilievo che puntino l’indice contro i disastri dell’austerity. Allo stesso tempo, che l’economia venga usata come clava ideologica dovrebbe far riflettere sulla supposta scientificità della disciplina e sul ruolo politico degli intellettuali, sempre più organici al sistema. E non certo super partes.
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