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L’Europa non è uno spazio ottimale L’Europa, si dice, è l’unità territoriale minima per rendere efficace qualunque tipo di politica economica, e di politica tout court. Nel mondo contemporaneo, in cui si muovono giganti come gli Usa e i Brics, ogni entità politica più piccola dell’Unione europea sarebbe incapace di fare alcunché. Nel gergo di noialtri comunisti questa tesi viene in genere riformulata così: poiché il “livello” del capitale è ormai continentale (in quanto la produzione è integrata su scala europea) il “livello” della lotta di classe non può che essere continentale anch’esso: questo è l’unico modo per controllare, almeno potenzialmente, catene del valore che ormai si estendono “dal Manzanarre al Reno”, e oltre. Tesi, queste, non peregrine. In effetti l’Europa sarebbe davvero uno spazio economico-politico ottimale, così come sarebbe davvero opportuno poter agire dentro confini talmente ampi da contenere – e quindi controllare – le reti di produzione volutamente frammentate dal capitalismo. Ma il condizionale, qui, è davvero d’obbligo. L’Unione europea sarebbe uno spazio politico ottimale, ma non lo è , semplicemente perché è uno spazio che, proprio grazie all’euro, non consente nessun’ altra politica che non sia quella funzionale alle necessità di accumulazione del capitale. E’ uno spazio che non dà scelte, e che quindi consente solo politiche antipopolari. L’Unione europea non espande la sovranità popolare, non le consente di agire su scala più vasta, ma semplicemente la elimina: in basso assegnando agli Stati nazionali (ad eccezione dello Stato dominante, quello tedesco) il mero compito di disciplinare i lavoratori e di trasferirne i risparmi verso il capitale finanziario; in alto, sostituendo la sovranità sulla moneta con la sovranità della moneta (che è peraltro una moneta analoga a quella dello Stato dominante). Quindi purtroppo l’idea di utilizzare lo spazio europeo per una politica di più ampio raggio non è realisticamente proponibile. Purtroppo bisogna ripiegare, ma non già su uno spazio esclusivamente nazionale, bensì su poli internazionali meno estesi dell’Unione europea (quale potrebbe essere il polo sudeuropeo) ma forse più capaci di proiezione esterna (verso l’area mediterranea, il Medio oriente ed i Brics) perché non più vincolati ad una moneta rigida come l’euro, che fa temere ad ogni potenziale alleato il rischio di finire strangolato da un debito inestinguibile. E capaci, su questa base, non già di tagliare le reti produttive che li legano al resto d’Europa, ma di gestirle in maniera maggiormente negoziata. Purtroppo chi vuole costruire un vero Stato democratico europeo deve prima distruggere il semi-Stato attuale. Perché non ci sentiamo nazione? Non sono pochi gli europeisti di sinistra disposti a condividere, in tutto o in parte, quanto ho appena scritto. Ma subito dopo si fermano, atterriti da un ostacolo insormontabile: “non possiamo certo tornare al nazionalismo!”, “non possiamo certo isolarci dal mondo!”, e così via. Entra in gioco, qui, un caratteristica profonda della cultura del nostro Paese, ossia la persistente difficoltà dell’Italia a pensarsi come nazione. Difficoltà comprensibile: la Repubblica democratica nasce proprio sulle ceneri di una velleitaria avventura nazionalista; lo sviluppo postbellico e l’improvviso benessere goduto dal Paese sono stati vissuti anche come effetto dell’apertura della nostra economia al mercato mondiale. Decisamente dipendente dall’estero per capacità militare, per fonti energetiche e materie prime, l’Italia si è volontariamente legata, come socio minore, all’alleanza atlantica ed ha fatto a lungo di necessità virtù, deponendo (per fortuna) ogni forma di sciovinismo, ed individuando sempre negli organismi internazionali la principale sede di decisione. L’universalismo cattolico ed una versione sempre più soft dell’internazionalismo comunista hanno certamente rafforzato questa attitudine, il cui esito più concreto ed importante è stato individuato proprio nell’Unione europea, e nell’euro stesso. Sulla base di questa collocazione geopolitica subalterna e delle culture che l’hanno, ad un tempo, mascherata ed illusoriamente nobilitata, sono da noi attecchite ideologie che altrove hanno avuto assai minore fortuna: la diffusa convinzione che lo Stato nazionale non conti più nulla; la pretesa che esso possa essere felicemente superato dalle istanze sovranazionali e dall’autonomia del “sociale”; il globalismo che immagina un mondo piatto, privo di confini, dove gli scontri tra blocchi economico-politici sono soltanto un evitabile incidente di percorso; l’idea, infine, che siccome noi non ci comportiamo veramente come nazione nemmeno gli altri debbano farlo: da ciò la persistente illusione sul fatto che “alla fine” la Germania ed i suoi diretti satelliti rinunceranno alla loro gretta strategia mercantilistica e nazionalistica a favore dei nobili ideali del “mondo interconnesso”. Tutto questo insistente chiacchiericcio viene oggi soverchiato dal fragore della crisi, che mostra la vera natura dell’Unione europea, la persistente importanza degli Stati forti nel gestire le gravissime turbolenze economiche, l’emergere di gravi conflitti trai diversi blocchi mondiali. E, soprattutto, l’esaurimento della rendita di posizione che aveva consentito all’Italia di progredire dal punto di vista sia economico che sociale pur nel contesto di una subordinazione geopolitica. E proprio questo è il punto: se la collocazione atlantica ci ha consentito, in passato, di situarci comunque in un’area economica espansiva (anche se ultimamente trainata solo dalla droga finanziaria), oggi questo non è più possibile. Anche l’idea di allontanarci dal rigorismo tedesco per beneficiare del “keynesismo” americano è illusoria: sia perché questo “keynesismo” è in realtà una bolla gigantesca, sia perché la strategia fondamentale degli Stati uniti è quella dell’estensione del più integrale liberoscambismo a tutta l’Europa (unita o meno), è quella della completa demolizione dei limiti posti al movimento dei capitali, e quindi cozza con le esigenze di un Paese come il nostro che, per ricostruire una base produttiva distrutta da decenni di rapine berlusconiane e di svendite prodiane, ha bisogno proprio di rendersi il più possibile autonomo dal capitale finanziario mondiale, di regolarne i movimenti, di riconquistare una capacità di manovra pubblica. Una scelta difficile L’Italia deve quindi riconoscere che non può più identificarsi senza riserve nelle istituzioni del capitalismo atlantico, ed in particolare nell’euro, pena il proprio crescente immiserimento. E che quindi deve costruire, insieme ad altri, un’autonoma posizione internazionale (di potenziale raccordo tra Nord e Sud, Ovest e d Est) come condizione di un’autonoma strategia di crescita civile interna. La difficoltà nel liberarsi dell’euro e nell’immaginarsi senza Unione europea non è che il sintomo, a mio avviso, della sorda percezione e della subitanea rimozione di questo problema epocale, la cui soluzione imporrebbe una decisa e difficile cesura con la cultura politica e con la prassi della sinistra italiana, anche della parte migliore di essa. Difficile ma non impossibile. Se solo si diradasse la nebbia globalista in cui siamo immersi si vedrebbe che, dalla Comune di Parigi alla guerra antinazista dell’Unione Sovietica, dalla Resistenza italiana alle varianti latinoamericane del socialismo, nessuna grande esperienza di emancipazione sociale ha mancato di riferirsi in qualche modo alla nazione. Si vedrebbe che quando il comando del capitale si presenta anche come distruzione o indebolimento dello Stato nazionale, la difesa dello spazio nazionale può essere una forma non di repressione, ma di ripresa della lotta di classe. Si vedrebbe che l’internazionalismo non è – appunto – globalismo, ma patto progressivo tra lavoratori che, avendo riconquistato protagonismo politico nel proprio spazio nazionale, possono proprio per questo costruire uno spazio più ampio, e così resistere in maniera più efficace alle dinamiche del capitalismo mondiale. E la nebbia in cui siamo immersi può essere diradata se le nuove, e peggiori, condizioni sociali imposte dalla crisi sono lette e spiegate da nuove, e migliori, idee sul futuro del Paese.
Rompere l’alleanza tra lavoro e capitale europeista Ma la battaglia ideale non basta. Perché i motivi dell’insano attaccamento all’euro non sono semplicemente culturali, ma, come dicevo, anche molto prosaici. Più che l’attaccamento all’euro conta qui – passatemi l’espressione – la fame di “euri”. Quella del ceto politico PD, che trova linfa e sostegno nell’essere parte integrante del blocco dominante “eurista”. Ma anche quella del ceto sindacale che sopravvive grazie all’indiscussa accettazione della prospettiva europea, che comporta in cambio legittimazione, partecipazione ad enti bilaterali, alla gestione della formazione ed altro. Ma anche quella di una parte delle associazioni civili (e dei movimenti di cui esse sono struttura portante) che pur seguitando a criticare in tutti i modi le idee neoliberiste, accettano senza batter ciglio le pratiche neoliberiste della governance, che implicano riduzione dello Stato, sussidiarietà, e, ovviamente finanziamento diretto (tramite fondi europei) delle associazioni stesse. Ma ciò che più importa è che, purtroppo, la traballante struttura dell’euro è sostenuta soprattutto dallo stesso blocco sociale che sostiene la sinistra, ossia da quei lavoratori della grande industria, del pubblico impiego e delle nuove professioni intellettuali, nonché dai pensionati, che, pur vedendo sempre più minacciata la propria relativa stabilità, temono che le inevitabili difficoltà dell’uscita dall’euro si riversino soprattutto sulle loro spalle. Temono, insomma, più il futuro del presente. Mentre i lavoratori meno stabili ed i microimprenditori (che sono quasi sempre proletari costretti alla partita IVA), in stato di crescente disperazione, temono più l’oggi che il domani ed oscillano tra l’astensione e l’appoggio alla retorica antisistema – ed antieuropea – della destra. Dobbiamo quindi concluderne che i lavoratori cosiddetti garantiti sono gli avversari di oggi? Tutt’altro. Questo è proprio l’atteggiamento della destra, è l’atteggiamento di Grillo (ma non certo di tutto il M5S), che consiste nel mettere i lavoratori gli uni contro gli altri per poi fregarli tutti insieme, distruggendo ogni tipo di struttura sindacale e di autonomia politica. No. Noi dobbiamo ovviamente puntare sull’unità di tutti i lavoratori. Ma dobbiamo anche riconoscere che, in determinati momenti storici, i lavoratori più deprivati sono gli unici capaci di scelte politiche radicali. E che quindi bisogna prendere le mosse proprio dall’organizzazione di questi lavoratori, dall’alleanza tra essi ed una parte delle piccole e medie imprese, dalla definizione di un programma per la rinascita economica e civile del Paese. E che successivamente bisogna, su questa base, riconquistare un rapporto unitario con la parte “forte”, ma in realtà sempre più debole, del lavoro, momentaneamente alleata col grande capitalismo europeista. Anche il lavoro apparentemente stabile, infatti, è e si sente continuamente minacciato di declassamento sociale, e questa sensazione si accrescerà sempre di più. Dobbiamo accompagnarla chiarendo il ruolo negativo dell’euro e la possibilità di un’uscita a sinistra. Ossia di un uscita che non si traduca semplicemente in svalutazione ed inflazione (anche se la svalutazione ci è fisiologicamente necessaria ed anche se l’inflazione non consegue automaticamente, ed in misura proporzionale, alla svalutazione), ma comporti controllo dei capitali e dei prezzi, indicizzazione delle retribuzioni, nazionalizzazione del credito, ripresa della sovranità monetaria, quindi della politica industriale e quindi della stabilità occupazionale. E comporti una rivendicazione della sovranità nazionale come condizione della sovranità popolare, e la rivendicazione di una nuova costruzione europea basata sul coordinamento graduale delle diverse economie, ma soprattutto su motivi più politici che economici: sulla scelta, cioè, di un ruolo di gestione cooperativa e pacifica dei conflitti mondiali. Tutto questo si può fare. In fondo i lavoratori più disperati si rivolgono a destra perché nessuna sinistra ha offerto loro una pur minima speranza. E quelli meno disperati sostengono al momento il grande capitale europeista non solo perché hanno ancora qualcosa da perdere, ma anche perché nessuno ha mai offerto loro un’alternativa credibile. La speranza e l’alternativa potranno essere offerte soltanto da una formazione politica che capisca che “sinistra”, da sola, è una parola vuota che ben può associarsi a corruzione parlamentare, bellicismo, colpevole adesione culturale all’ideologia del più forte. La “sinistra senza aggettivi”, tanto cara a Niki Vendola; combina solo disastri: serve una sinistra che ritrovi gli aggettivi che la legano alle grandi ideologie di emancipazione popolare, al comunismo, al socialismo, allo stesso cattolicesimo sociale. Serve aver chiaro che non si tratta solo di “uscire a sinistra dall’euro”, ma di uscire dalla crisi del Paese con un inizio di strategia socialista. Sette novembre 2013
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