Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

lunedì 31 dicembre 2012

AntiMessaggio di Fine Anno

31 dicembre 2012 - 20.30
- Paolo Becchi -               
Anti-Messaggio di Fine Anno - Paolo Becchi Capodanno 2013

Buona sera e Buon Anno a Voi tutti, italiane e italiani di ogni generazione. È con profonda commozione che mi rivolgo a Voi, cari sudditi … pardon, cari concittadini, in questi tempi così difficili, ma anche così pieni di speranza e di fiducia per il futuro che ci attende. Questo è stato un anno difficile per la nostra amata Costituzione, la nostra amatissima Carta nella quale sono enunciati i valori e i principi fondamentali cui si ispirarono quanti, sacrificando se stessi e la propria vita, hanno consegnato alle generazioni successive una Repubblica nuova e libera. Spetta a ciascuno di noi, in nome di quegli stessi principi, continuare ad amarla e consolidarla, perché, ricordatevi, chi lascia la strada vecchia per la nuova…

Ma cosa sto dicendo?!... Qui bisogna cambiare tutto, anche questi proverbi…scusate, ora ricomincio tutto da capo.
Poveri italiani: I proverbi dei vecchi fanno morire i giovani di fame. Non abbiamo più una Costituzione, dopo che per tutto questo anno è stata stuprata da coloro che erano incaricati di difenderla e di garantirne il rispetto. Essa è stata trasformata nel canovaccio di un indegno spettacolo.
L’anno finisce come era iniziato il precedente: con la liquidazione di ogni forma di governo rappresentativo e con l’eliminazione di ogni garanzia di democrazia a favore dei cittadini e degli elettori. Che sia in carica o dimissionario, il Governo Monti è uno spettro che si aggira dentro la nostra Costituzione. E’ un fantasma, il fantasma di una Terza Repubblica che sta nascendo a forza di interpretazioni faziose del testo costituzionale, di ossequio formale alla legalità e di violazione di ogni principio democratico di legittimità.

Come tutto ciò è cominciato lo sapete: una telefonata. A volte una telefonata allunga la vita - si diceva - una telefonata del Presidente della Repubblica tedesco Christian Wulff a Re Giorgi: “Lieber Giorgio, wie geht’s Frau Clio?” Senti, guarda, abbiamo un problema…bisognerebbe rovesciare il governo di Berlusconi. Già, proprio così. Lo capisci anche tu, ormai la situazione è diventata insostenibile, e non si tratta di Ruby… “Eine schöne Frau, übrigens”. Che ne dici di Monti? Sì, Mario Monti, lui…l’uomo che rappresenta l’Europa nel Bilderberg, consulente internazionale per molti anni di Goldman Sachs. Re Giorgio ascolta, annuisce… Lo spread che sale, sale sempre più, e noi, e noi ancora più giù. Berlusconi si dimette. Si sciolgono le Camere. Si va alle elezioni? E per quale motivo? C’è la “responsabilità” nazionale che ora, stimolati da Re Giorgio, Centro e Sinistra invocano. Monti sale al governo e lo spread scende. Strana storia, una storia sbagliata: una storia da basso impero, una storia da una botta e via, come cantava De André.

Bisogna salvare l’Italia: o meglio l’Europa, o meglio l’Euro, vale a dire gli interessi finanziari di un potere transnazionale, occulto, invisibile, di banchieri e finanzieri. Piccolo inconveniente: per fare tutto ciò, occorre “ritoccare” la Costituzione. Ma che problema c’è? In una sola seduta, nel silenzio pressoché assoluto da parte dei giornali e dei media, il Parlamento ha modificato quattro articoli. Presa in un colpo solo la quaterna: 81, 97, 117 e 119 sulla ruota della Costituzione, introducendo il principio del pareggio di bilancio. Poi si ratifica, senza nessuna obiezione, il fiscal compact. E si va avanti così a colpi di maggioranze bulgare e decreti-legge.

Certo, c’è però in giro un po’ di malcontento. E a Re Giorgio non piace che i suoi sudditi vengano resi inquieti da “facili populismi”. Meno male, dichiara, che sono stati “messi a tacere”. Sono degli irresponsabili. Cosa vogliono? Chi sono? Sono, caro Presidente, le forze di un popolo, quello italiano, che non ne può più, e che si sono organizzate, per la prima volta nella storia di questo Paese, in un MoVimento che, nonostante i continui tentativi di bloccarlo e di infamarlo, è arrivato ad essere la prima forza politica in Sicilia. Doveva accadere che un vero MoVimento di opposizione al potere, al sistema di Bruxelles, alla speculazione parassitaria, alla moneta unica, minacciasse finalmente la pax politica imposta a colpi di spread.
Poco male, per Re Giorgio. Lui, per un po’, non se ne preoccupa, ma continua a telefonare…ma quanto telefona Napolitano? La magistratura lo intercetta, nell’ambito di indagini sulla trattativa Stato-mafia. Telefonate irrilevanti, forse. Fatto sta, che bisogna distruggerle. Lo dice la Corte Costituzionale: l’immunità del Capo dello Stato non si discute. Bisogna distruggere tutto e subito, senza neppure aspettare, come vuole la legge penale, un’apposita udienza davanti al giudice.

Il messaggio indiretto a Berlusconi è chiaro: se c’è voluta persino la Corte per salvare Re Giorgio dalla giustizia forcaiola, cosa potrà mai fare un Berlusconi abbandonato da tutti? Soli si muore. E così assistiamo, anche se siamo solo a Natale, alla prima resurrezione politica della storia nazionale. Ma come: “Ancora lui, ma non dovevamo rivederlo più? E ci scappa da ridere”, su quello che succede dopo. Ritira informalmente la fiducia al Governo e spara a zero su Monti, poi cambia idea e sperando nell’amorevole compassione di Re Giorgio candida Monti alla guida dei moderati. Il pensiero è stupendo: e tu, e noi, e lui fra noi. Ma Re Giorgio, il triangolo no, non l’aveva considerato, e anzi si è proprio rotto di tutto questo teatro, e impone le elezioni, anticipate quel tanto che basta per essere ancora lui a gestire la formazione del nuovo Governo. Amen, con tanto di sacra benedizione della Conferenza Episcopale Italiana e del Vaticano, ultimi sponsor ufficiali della ditta “Rigor Mortis & Co”. Si ristabilisce finalmente quell’alleanza tra Trono e Altare che era venuta meno con la fine della res publica christiana.

Siamo alla fine dell’anno. “Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’”, mi scrive Domenico Corradini, illustre avvocato nonché filosofo del diritto italiano e decano della disciplina, facendomi un sacco di domande imbarazzanti, del tipo:

  1. Per quanti anni Napolitano ha promulgato senza quasi batter ciglio e senza rinviarle alle Camere le leggi ad personam di Berlusconi? Si è così dimostrato un partigiano della Costituzione?
  2. Perché Napolitano non ci ha mandato alle elezioni dopo che Berlusconi è uscito da palazzo Chigi e ha preferito formare un suo governo tecnico sotto sua tutela e a dispetto della sovranità popolare che al popolo appartiene? Si è così dimostrato un partigiano della Costituzione?
  3. Perché il governo Monti-Napolitano con la Severino al ministero della Giustizia non ha provveduto ad abrogare le leggi ad personam di Berlusconi? Si è così dimostrato un partigiano della Costituzione?
  4. Perché Napolitano ha detto che Monti era incandidabile, ed ora a malincuore è anche disposto a mandare giù il rospo di una sua eventuale candidatura? Si è così dimostrato un partigiano della Costituzione?

Caro amico mio, cosa posso risponderti? Per un anno intero tutti i giornali ci hanno detto che l’Italia era sul baratro, e che solo Monti l’ha salvata. Ci voleva un quotidiano a larga diffusione inglese per rivelarci che «l'Italia ha solo un grave problema economico. Ha la valuta sbagliata». Ci voleva uno studio della Bank of America per scoprire che l'Italia avrebbe da guadagnare più di tutti gli altri membri dell'UE da un'uscita dall’eurozona e dal ripristino di un controllo sovrano sulle leve di politica economica. Ci voleva sempre quel giornale inglese per dire che «Monti può anche essere uno dei migliori gentlemen europei ma è anche il sommo sacerdote del Progetto UE e un personaggio chiave dell'adesione dell'Italia all'euro. Prima se ne va, prima l'Italia può fermare lo scivolamento nella depressione cronica».

Caro amico, siamo alla fine dell’anno. Forse c’è tempo anche per qualche vecchio ricordo. Ricordo una seduta parlamentare di tanti anni fa. Era la fine dell’anno 1978, a dicembre, ed io studiavo allora in Via Balbi 4. Esisteva ancora l’Università italiana: oggi dopo gli ultimi tagli di Rigor Mortis è morta anche quella. Governo Andreotti. Quel giorno si discute dell’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo. Scelta fondamentale, ma anche molto discussa e travagliata. Di quella seduta ricordo in particolare un intervento, molto incisivo, dedicato alle condizioni in cui tale sistema sarebbe potuto nascere. Ve ne leggo qualche stralcio:

Consideriamo non seria la tendenza a liquidare come problema tecnico irrilevante quello di un’attenta verifica dei contenuti della risoluzione di Bruxelles del 5 dicembre per valutarne la rispondenza alle concrete esigenze poste da parte italiana. Quello delle garanzie da conseguire affinché il nuovo sistema monetario possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno della Comunità europea e non sortire un effetto contrario, contribuire ad una maggiore stabilità monetaria e ad un maggiore sviluppo su scala mondiale, è un rilevante problema politico. Ma l’ulteriore alterazione nell’ultimo vertice di Bruxelles, nella formula relativa a questo aspetto essenziale dell’accordo di cambio, è stata solo la conferma di una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica Federale di Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e a sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie dei paesi della Comunità. E’ così venuto alla luce un equivoco di fondo, se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire soltanto a garantire il paese a moneta più forte, la Germania appunto, spingendo un paese come l’Italia alla deflazione.

Sono parole incisive e forti e coraggiose che denunciavano i pericoli dell’entrata dell’Italia nel sistema monetario comune e gli interessi tedeschi che spingevano all’introduzione di quel sistema. Piccolo dettaglio: sapete chi fu a pronunziare quelle parole? Un membro autorevole del Partito Comunista di allora: Giorgio Napolitano. Come si cambia, per non morire. Eppure Napolitano, in quell’occasione, aveva visto giusto. Eppure il Partito Comunista fu in quell’occasione l’unico partito italiano a votare contro l’ingresso dell’Italia nello SME. Aveva ragione, tanto che, come noto, fummo costretti in seguito ad uscire dallo SME e non fu una catastrofe. Oggi, però, il PCI non c’è più e il compagno Napolitano è diventato Re Giorgio. E il Re ha cambiato decisamente opinione. Ora, per lui, dobbiamo restare nell’Euro fino a morirne.

Cari italiane e italiani, comunque sia, l’anno che sta arrivando, tra un anno passerà. Quello che non passerà è il Governo di quel comitato d’affari della speculazione internazionale che ormai ci è stato imposto dall’Europa della finanza per i prossimi cinque anni. Da un punto di vista sostanziale, infatti, le elezioni, come del resto Re Giorgio ha dichiarato, non cambieranno nulla. Per la prima volta, però, dopo tanti anni avremo nel Parlamento una nuova forza politica antisistema, contro tutto e contro tutti: il MoVimento 5 Stelle. La nuova resistenza è appena cominciata. Siamo in guerra, ed è meglio una fine spaventosa, che uno spavento senza fine.

Governo Hollande

I primi sei mesi del governo Hollande: la pericolosità di un presidente “normale”

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di Lorenzo Battisti per Marx21.it
Sei mesi fa, l’attenzione di tutta Europa si era concentrata sulle elezioni francesi. Molte speranze erano state riposte nell’esito di quella consultazione, poiché avveniva in uno dei due paesi che stavano imponendo le misure di austerità verso il resto dell’area euro. Ogni proposizione del programma di Hollande è stata letta e discussa diffusamente anche fuori dal paese, e in molti hanno seguito la notte delle elezioni. Ma quali sono i risultati dei primi mesi di governo?
La Francia e i Piigs
La sconfitta di Sarkozy è stato sicuramente un risultato importante, sia sul piano interno che internazionale. Questo è infatti stato, senza dubbio, il presidente più liberista e filo-atlantista della storia della Repubblica Francese: basti pensare che ha riportato la Francia nel comando Nato dopo la decisione presa da de Gaulle di uscirne negli anni ‘60. Inoltre è stato il presidente che ha supportato politicamente tutte le decisioni della Germania sulla politica europea. Senza dimenticare il ruolo svolto nella guerra alla Libia.
D’altra parte questa vittoria politica non ha potuto cambiare le condizioni oggettive della Francia all’interno dell’Europa. Se infatti si prende come criterio di distinzione tra centro e periferia europea il saldo della bilancia commercialei (le esportazioni meno le importazioni), si osserva subito che la Francia non fa parte del centro: la sua bilancia è negativa ormai da anni, quindi da un punto di vista economico somigliava già da tempo ai paesi Piigs. La politica di Sarkozy quindi, oltre che insensata, era anche insostenibile.
La vittoria di Hollande è quindi stata letta da molti come una positiva inversione di tendenza. In sostanza si pensava che la Francia avesse preso coscienza della sua vicinanza economica ai paesi periferici e che quindi usasse il proprio peso economico e politico nel dibattito europeo per contrastare le politiche tedesche. E d’altra parte Hollande aveva alimentato queste speranze, promettendo una rinegoziazione dei trattati europeiii, mostrando così di porsi alla testa dei Piigs.
L’austerità socialista
Non si può di certo trarre giudizi definitivi dopo soli sei mesi di governo. Però questi sono già un tempo sufficiente per capire che tendenza hanno le politiche del governo socialista.
Purtroppo la speranza sembra essere stata tradita, confermando i dubbi che avevamo esposto in precedenza.
I trattati europei non sono stati ridiscussi, è solo stato aggiunto un patto sulla crescita i cui obiettivi sono chiaramente incompatibili con quello di stabilità. La Francia ha inserito la regola del pareggio di bilancio tra le leggi francesi di rango costituzionaleiii così come volevano gli accordi e si è impegnata nella riduzione del deficit e del debito così come stabilito dal fiscal compact. Queste manovre, in chiaro contrasto con quanto affermato in precedenza, hanno trovato la sola opposizione dei parlamentari comunisti e del Front de Gauche, mentre i Verdi e i Radicali di Sinistra hanno deciso in maggioranza di sostenere tali decisioni.

L’estremismo, malattia infantile della nuova (vecchia) sinistra

Lavorincorsoasinistra

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di Matteo Pucciarelli da blog Migromega
Alle prossime elezioni sarà presente una lista di sinistra alternativa sia al centrosinistra – il quale non metterà in discussione i vincoli di stampo neoliberista imposti da Bce e Fmi – che al Movimento Cinque Stelle – il quale nega l’esistenza di un processo globale di trasferimento delle risorse, dal basso verso l’alto. Candidato premier Antonio Ingroia.
Ma mentre fuori il mondo fa la guerra a una lista del genere (basti vedere il tam tam mediatico basato sul nulla: Piero Grasso il magistrato buono, l’ex pm di Palermo il magistrato cattivo), dentro la stessa sinistra si riproduce, come un batterio autodistruttivo, la dinamica dei fratelli-coltelli. Proprio nel momento in cui servirebbe fare quadrato per raggiungere l’obiettivo, mettendo da parte i personali desiderata e le antipatie.
Il cliché, quello di sempre, viene puntualmente confermato: gruppi litigiosi tra loro, propensi a fare la guerra al vicino di banco dimenticando cosa succede all’esterno. Chi propende per i partiti, chi per la società civile, ognuno con le proprie ragioni irrinunciabili e con i propri paletti. Com’è facile far saltare il banco, ogni volta.
L’estremismo, «malattia infantile del comunismo», non è più tanto nelle idee quanto negli atteggiamenti. Nella incapacità di trovare una forma di mediazione, di considerare i rapporti di forza in campo e accettarli serenamente, di uscire da una visione del mondo idilliaca e di tornare con i piedi per terra considerando l’opportunità di cedere qualcosa a beneficio di un obiettivo che comunque migliorerebbe l’esistente.
È evidente come in una parte della sinistra sia ancora presente, più che forte che mai, la cultura dell’onorevole sconfitta, del massimalismo fine a sé stesso e della presunzione di possedere la pozione magica per risolvere i problemi del mondo.
La cultura dello spaccamento del capello in quattro, della bella testimonianza, è utile a chi non ha particolari bisogni di trasformazione della società. Come in passato: c’era chi giocava alla rivoluzione, c’era chi sperava davvero nella rivoluzione.

domenica 30 dicembre 2012

De Magistris

De Magistris: "Ingroia speranza per il Paese". Sindaco di Napoli appoggia "Rivoluzione Civile" 
'La candidatura di Ingroia alla presidenza del Consiglio, come leader di uno schieramento alternativo a Monti-Berlusconi-Pd, per la realizzazione di una Rivoluzione Civile, rappresenta una speranza per il Paese. Ogni speranza, pero', racchiude sempre anche una sfida che, nel caso specifico, e' quella di favorire il protagonismo di un solo fondamentale soggetto: la societa' civile'. Lo scrive su facebook il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris.

'Sono fiducioso - aggiunge - che Antonio sapra' farsi garante di questo protagonismo: la sua decisione di mettersi al servizio del Paese nasce infatti dalla coscienza che, oggi, 'quel libro dei sogni da aprire', per citare una sua espressione, potra' essere dischiuso solo dalle cittadine e dai cittadini. Quelle cittadine e quei cittadini che, forti delle battaglie condotte quotidianamente nei loro territori durante la loro vita coraggiosa, possono e devono aprire quel libro, da troppo tempo dimenticato, impegnandosi direttamente nell'azione politica. Una politica concepita come impegno del singolo per il bene collettivo, che risponda alla crisi dei partiti e offra prospettive di novita' e discontinuita' rispetto ad un sistema tradizionale ormai inceneritosi, che veda al centro della sua azione il ruolo delle associazioni, dei movimenti, dei militanti dei partiti che hanno condotto le battaglia a difesa dei diritti e della democrazia, delle donne e degli uomini onesti, anche sconosciuti all'opinione pubblica nazionale, che pero' nei loro territori si sono spesi e impegnati per il cambiamento'.

'Questa esperienza, di cui Antonio sara' riferimento e garante - annuncia il sindaco di Napoli - vedra' il sostegno del Movimento Arancione e il mio stesso appoggio, nei limiti del mio impegno primario che e' quello di sindaco di Napoli. Crediamo infatti nella possibilita' di costruire un'alternativa alle masso-mafie e alle cricche che hanno inquinato la democrazia, al capitalismo senile che ha soffocato la giustizia sociale, al montismo e al berlusconismo e al continuismo di Bersani. Per farlo, ovviamente, c'e' bisogno di politica e di partecipazione, certo non della riproposizione di amalgami non riusciti, come un Arcobaleno bis, oppure di nuove soggettivita' solo apparenti, perche' piegate al trasformismo di una classe partitica che, invece, deve compiere un passo indietro. Un passo indietro per consentire non solo il legittimo protagonismo delle cittadini e dei cittadini, perche' e' giunto il loro momento, ma anche per ritrovare essa stessa linfa e vitalita''.

Tecnici del disastro

Da una cricca a un’altra: Monti e i suoi amici - umanitanova -

Berlusconi e la sua cricca se ne sono andati, nel condivisibile tripudio generale degli italiani che, però, rischiano di pagare salata questa piccola soddisfazione. All’inizio l’idea di un governo a guida Mario Monti era, tutto sommato, vissuta generalmente se non con simpatia, quanto meno con un sentimento del tipo “chiunque verrà, non potrà essere peggio di lui”; man mano che il programma del nuovo governo si delinea nel concreto, però, si sta facendo sempre più strada il vecchio adagio popolare per cui al peggio non c’è mai fine – soprattutto in tema di governi...
L’equivoco iniziale era prevedibile: per la maggior parte degli italiani, Mario Monti era un nome semisconosciuto, casomai sentito citare talvolta come un “tecnico” di fama e ruolo internazionale, “al di sopra delle parti”, “rispettato all’estero”, ecc. Sostanzialmente, solo nel circuito militante se ne conosceva nei dettagli la storia e le posizioni e, soprattutto, il suo ruolo proprio in merito a quella crisi che, ci dicono, dovrebbe andare a risolvere...
Il novello “Salvatore della Patria”, infatti, è stato nel 1981 relatore della commissione sulla difesa del risparmio finanziario dall’inflazione, tra il 1981 ed il 1982 presidente della commissione sul sistema creditizio e finanziario e via di questo passo per giungere infine, nel 1995, alla nomina a membro della Commissione Europea di Santer, con l’incarico di responsabile per il mercato interno, servizi finanziari e integrazione finanziaria, dogane e questioni fiscali. Nel 2005, ciliegina sulla torta, lo troviamo International Advisor di Goldman Sachs, la banca che di lì a poco diverrà tristemente nota per il suolo svolto nella speculazione sui mutui “subprime” e la caduta di Lehmann Brothers e, in tempi più recenti, nell’essere stata alle spalle della “finanza creativa” dei governi greci e tra le principali fonti di speculazione sull’attuale crisi greca.
Insomma, se proprio si volesse dare un nome ed un volto ai responsabili materiali della crisi, Mario Monti sarebbe un candidato perfetto: come abbiamo appena visto, è stato ai vertici sia della ridefinizione in senso ultra liberistico delle regole del sistema finanziario che hanno portato al disastro, sia delle istituzioni che materialmente l’hanno attuato. Se Mario Monti è diventato Presidente del Consiglio in funzione “anticrisi”, in questa stessa logica dobbiamo aspettarci che alla prossima emergenza mafiosa metteranno Toto Riina al Ministero della Giustizia...
La situazione non cambia certo se guardiamo alla sua squadra di governo: un governo di “tecnici”, provenienti dall’interno delle istituzioni economiche, sociali e finanziarie pubbliche e private e non dal mondo della politica, che hanno maturato una notevole esperienza nel loro campo. Nulla da obiettare, se non che il problema è proprio questo: se in questi anni hanno fatto carriera, è proprio perché sono stati fedeli esecutori delle politiche economiche e sociali liberistiche che ci hanno condotti al disastro attuale. Esperti, dunque, lo sono sicuramente tutti, e di alto livello, ma esperti nel creare ed approfondire le condizioni della crisi attuale.
Se davvero si fosse voluto combattere la crisi, pur restando all’interno del regime capitalistico attuale, sarebbe stato meglio un governo di dilettanti allo sbaraglio: questi magari avrebbero potuto fare, per puro caso, qualche mossa giusta – gli esperti, invece, non rischieranno di fare questi “errori”.
La crisi, infatti, è tale solo per noi del cosiddetto “99%”: per i potenti della terra è una meravigliosa occasione di profitto e di disciplinamento del corpo sociale che hanno costruito in tutti questi anni con cura – la carriera di Mario Monti appena descritta ne è un esempio paradigmatico – e che non abbandoneranno così facilmente.
Il capitalismo non è arrivato alla sua crisi finale: se volesse, potrebbe tranquillamente riprendere le politiche anticrisi di stampo keynesiano che hanno perfettamente funzionato negli anni passati – politiche che personaggi come Mario Monti conoscono benissimo, data la loro formazione di economisti. Ma se le tengono, come già nel secondo dopoguerra, come ultima risorsa per quando le rivolte popolari contro il loro odio di classe diverranno incontenibili. Per il momento, si divertono a vedere gli sfruttati credere alle loro balle ed a considerare la macelleria sociale come una dura “necessità” a favore del “bene comune” – che, guarda un po’, alla fine coincide con quello delle classi dominanti. La crisi, se non esistesse, se la dovrebbero inventare... ma forse l’hanno già fatto.

Shevek dell’OACN-FAI

BERLUSCONI TAKES THE FIELD (AGAIN !)
 
 

Crisi Europa: la Germania "deporta" anziani e malati ad est

Si delocalizzano a forza i vecchi, in Asia e all'est: spediti altrove perché non ci sono soldi per mantenerli in Patria. L'Europa è un orrore senza fine.

anzianigermania.jpgLa parola brucia, scotta. Eppure è il Guardian, autorevole quotidiano britannico, ad usarla nel catenaccio sotto il titolo: "inumana deportazione".
Si tratta della sbalorditiva notizia che arriva dalla Germania. Ecco il testo del Guardian, in traduzione:
Un crescente numero di anziani e malati tedeschi vengono spediti all'estero per cure di lungodegenza in ospizi o centri di riabilitazione, a causa dei costi crescenti e del livello in declino dell'assistenza tedesca. L'iniziativa, che ha visto migliaia di pensionati ricollocati in case dell'Europa dell'Est e dell'Asia è stata pesantemente criticata dalle organizzazioni di welfare come "deportazione inumana".
Il problema è la popolazione che invecchia e gli alti costi sociali dell'assistenza, che in un momento di tagli ed austerity non può provvedere a tutti. Così, come si delocalizzano le industrie per risparmiare sui costi, ora si delocalizzano a forza anche anziani e malati per lo stesso motivo. Ma qui si tratta di esseri umani, e non di macchinari.
Circa 7000 di essi si trovano oggi in ospizi in Ungheria, 3600 in Repubblica Ceca e Slovacchia, altre centinaia in Spagna, Grecia e persino Thailandia o le Filippine. Il Guardian ha parlato con molti di essi, ed hanno dichiarato che sono stati costretti a tale scelta con estrema riluttanza. Inoltre, sembra che aziende specializzate nel business degli anziani stiano aprendo sedi in questi Paesi proprio per stipulare convenzioni col sistema sanitario tedesco e "ricevere" i vecchietti spediti colà dalla Germania.
Le associazioni lanciano l'allarme: anziani spesso poco presenti a se stessi che si ritrovano in posti lontani, con lingue diverse, fuori dalla loro casa e dal loro quartiere. In posti dove, come accade per le industrie, l'obiettivo è il risparmio all'osso.
Non so esprimere quanto trovo agghiacciante quello che sta accadendo. Non voglio arrivare a fare orridi paragoni col passato. Ma sempre più trovo inumana e terribile questa orrenda Europa e il suo metodo di governo, da cui vorrei scappare insieme a tutto il mio Paese. Ripeto ciò che ho detto altre volte: chi voterà "per l'Europa" è mio nemico.

sabato 29 dicembre 2012

Ingroia scioglie la riserva e si candida: Rivoluzione Civile!

- fonte -

20121229-141410.jpgda agenzia tg1
L’intento è “impersonare la politica nuova della
coerenza, una coerenza che il Pd mi sembra abbia smarrito,
rimaniamo noi a doverla interpretare”. Così Antonio Ingroia,
intervenendo in conferenza stampa a Roma. “A Bersani, che ho
definito persona seria e credibile – ha aggiunto l’ex pm di Palermo
- dico di uscire dalle contraddizioni in cui la sua linea politica
si è impantanata”. Al segretario del Partito democratico, ha
aggiunto Ingroia, “ho fatto un appello” e “lui ha risposto in modo
un po’ stravagante, dicendo che non risponde ad appelli pubblici,
ma mi auguro che Bersani sappia che l’avevo cercato personalmente,
ma non ho ricevuto risposta, me ne farò una ragione. Evidentemente
si sente un po’ il padre eterno, Falcone e Borsellino quando li
cercavo rispondevano subito”. La porta per il Pd, ha voluto
specificare ancora Ingroia, “rimane aperta”.Quella che proponiamo è
una “vera lista nuova, una vera lista civica”. “Le nostre liste
sono ancora un cantiere aperto alle parti più nobili della società
civile”. Così Antonio Ingroia, in conferenza stampa a Roma.”Questa
è la nostra rivoluzione, noi vogliamo la partecipazione dei
cittadini. Antonio Ingroia non si propone come salvatore della
patria, ma di essere solo un esempio come tanti cittadini che si
mettono in gioco, assumendo rischi”, “come dev’essere chiesto a
ciascun cittadino” in momenti di emergenza. Così lo stesso Antonio
Ingroia. Non siamo in un Paese normale, non siamo in una situazione
normale, siamo in un’emergenza democratica dovuta allo strapotere
dei sistemi criminali, dovuta alle insufficienze e alle
inadeguatezza della politica”. Allora, ha proseguito l’ex pm di
Palermo, “è venuto il momento della responsabilità e non solo della
responsabilità istituzionale, ma di quella politica”.

Grandi opere in perdita nei porti italiani

di Sergio Bologna - sbilanciamoci -

Il business dei container è prossimo al crack? E allora mettiamoci fondi pubblici. Ecco le grandi opere in corso nei porti italiani, da Venezia ad Augusta. Soldi buttati in mare / 2

Di tutto il bailamme legato alla bolla dei mari, in Italia non si è avuto sentore. Come dei sonnambuli, i rappresentanti della nostra classe dirigente, a livello nazionale ministri e sottosegretari, a livello locale deputati delle città portuali, assessori regionali, sindaci, alcuni presidenti di Autorità portuali, hanno continuato a vaneggiare di progetti per il potenziamento dei porti, che non hanno alcun senso comune.
1. Era cominciata con il progetto del superporto di Monfalcone, elaborato da Unicredit, che pretendeva di farlo in project financing (ma garantito dallo stato, quindi debito pubblico), un porto nuovo fatto in faccia al porto di Trieste, il quale ha dei fondali da poter far arrivare navi da 14 mila Teu, un’opera che avrebbe reso necessario rimuovere 9 milioni di tonnellate di materiale (in parte inquinato) a spese del contribuente, progetto grazie al cielo finito nel nulla ma sul quale si sono spesi i deputati e gli eurodeputati friulani (e qualcuno di questi non se lo è ancora tolto dalla testa). Poi il presidente dell’Autorità portuale di Venezia ha tirato fuori il progetto di un terminal container da 1 milione e passa di Teu al largo della costa, un terminal off shore, che avrebbe potuto avere senso se il porto di Venezia avesse dovuto realizzare il porto petroli off shore, deciso anni fa e finanziato per poter allontanare le petroliere dalla laguna, ma oggi non più necessario perché gli impianti Eni che consumavano il greggio trasportato dalle petroliere, non ne consumano più. E allora il presidente dell’AP è costretto a giustificare il terminal off shore come opera di “mitigazione” del Mose, tesi piuttosto ardita ma che l’ineffabile Ciaccia – già responsabile, come ricordava Il Fatto Quotidiano di ottobre, di aver lasciato la banca a lui affidata da Passera, la Banca Infrastrutture e Servizi (Biis), con 500 milioni di buco 1 – aveva accolto con convinzione. Particolarmente sconcertante, questa vicenda, perché rischia di azzerare una delle poche “vision” di grande respiro partorite dalla portualità italiana in questi ultimi anni, proprio per merito del presidente dell’AP di Venezia, la visione di una proiezione strategica dei porti del Nord Adriatico sul “corridoio” Adriatico-Baltico, progetto europeo appoggiato dal Commissario ai trasporti Kallas, ex primo ministro dell’Estonia. Se portato avanti con intelligenza, questo progetto potrà contribuire a spostare l’equilibrio dei traffici container tra nord e sud, e sottrarre una parte di traffici ai porti tedeschi per restituirli ai porti dell’Alto Adriatico. Basti pensare che 22 dei 50 servizi feeder del porto di Amburgo sono destinati alle repubbliche baltiche e a San Pietroburgo. È un progetto questo che può correre solo su gambe ferroviarie, può avere successo a condizione che i porti del Nord Adriatico sappiano poter dire a un operatore logistico o a un grande spedizioniere della Baviera, della Slovacchia, della Repubblica Ceca, dell’Ungheria, della Serbia: “questa è la tariffa se passi da sud, confrontala con quello che paghi al nord”. Invece di ragionare così, il porto di Venezia, come la grande maggioranza dei porti italiani, pensa solo a scavare fondali ed a costruire banchine di dimensioni tali che nemmeno un boom economico decennale riuscirebbe a riempire, puri esercizi di megalomania, prodotti di previsioni di traffico fantasiose quanto superficiali. Appunto, previsioni che non hanno mai tenuto conto di quel che succede nel traffico container e nelle istituzioni che lo finanziano. E continuano ad ignorarlo, con imperdonabile leggerezza. Basti pensare che oggi il porto di Venezia non riceve e non spedisce nemmeno un container (1) via treno, mentre Trieste alla fine di quest’anno avrà realizzato 3.900 treni di trasporti intermodali per il centro Europa, unico porto italiano a servire i mercati d’oltralpe.
2. Ma le enormità non sono finite e percorrendo le coste dell’Italia giù verso Ravenna, Ancona, Bari, Brindisi, incontriamo la martoriata città di Taranto alla quale una stampa irresponsabile promette 50 mila posti di lavoro che risulterebbero dalla realizzazione di un’improbabile “piastra logistica”, partorita da alcune lobbies locali per regalare soldi pubblici ai soliti costruttori. 2 E poi, proseguendo lungo la costa ionica arriviamo a Gioia Tauro, gioiello un tempo delle tecniche di transhipment ma ormai in difficoltà per la concorrenza dei tanti porti di transhipment mediterranei. Ma basta spostarsi ancora un po’ a ovest, lungo le coste della Sicilia, per imbattersi in quello che, onestamente, stentiamo a credere: il progetto di un nuovo terminal container nel porto di Augusta. Qui debbo introdurre un ricordo personale. Alcuni anni fa, si era ancora nel periodo del boom dei traffici marittimi est-ovest, Sviluppo Italia (l’attuale Investitalia) mi chiese di far parte di un gruppo di esperti che doveva esprimere un parere “scientifico” sulla fattibilità di un terminal di transhipment nel porto di Augusta (un porto che è come un distributore di benzina, serve alle navi per fare bunkeraggio). Non mi ci volle molto studio per dare una risposta assolutamente negativa, sapevo che nel Mediterraneo si stavano costruendo a pieno ritmo i porti di trasbordo, sarebbero entrati in servizio in tempi rapidi, quelli italiani già cominciavano a vedere il traffico calare, Cagliari in particolare, Taranto cercava nuovi soci, insomma una situazione che sconsigliava un investimento destinato ad avere la vita assai dura, una volta ultimato. Ricordo di aver avuto l’opportunità di parlare senza peli sulla lingua a una riunione presieduta da una bravissima dirigente della Regione Sicilia e che non faticai molto a convincerla. Negli anni successivi non ne sentii più parlare, ma evidentemente qualche talpa ha continuato a scavare e, sorpresa delle sorprese, le sue gallerie sbucano ai giorni nostri, non a Roma, come si potrebbe credere, ma a Bruxelles. È con occhi increduli che leggo il comunicato stampa della Commissione Europea Aiuti di Stato: la Commissione approva un aiuto di 100 milioni di euro per il porto di Augusta. La data è il 19 dicembre 2012 – un mese esatto dopo la dichiarazione della Maersk che il business del container è un business in perdita. Si dice che la Commissione approva “un aiuto di 100 milioni di EUR concesso dall’Italia a fronte di un progetto di investimento di 145,33 milioni di EUR nelle infrastrutture del porto siciliano di Augusta”. Il progetto consentirà “al porto di Augusta di ristrutturare le infrastrutture esistenti destinate al traffico di merci e di ospitare il traffico di container”. E prosegue “L’aiuto è stato ritenuto compatibile con le norme dell’Ue in materia di aiuti di Stato in quanto persegue un obiettivo di comune interesse, ossia l’adattamento delle infrastrutture esistenti al trasporto intermodale (…) le potenziali distorsioni della concorrenza sono relativamente limitate.” Il passaggio dal trasporto tradizionale a quello intermodale avviene quando più di un modo di trasporto viene coinvolto nella catena, nel caso specifico la nave e il treno, ma non risulta che ad Augusta siano in corso progetti di terminal intermodali ferroviari; Gioia Tauro non è lontana, che farà Augusta quando sarà pronto il terminal? Taglierà le tariffe per portare via traffico a Gioia Tauro, tipica concorrenza suicida, non è distorsione della concorrenza questa? Facciamoci coraggio e continuiamo la lettura: ”Per quanto riguarda il progetto di investimento nelle infrastrutture del porto di Augusta, l’Italia ha condotto un’approfondita analisi del rapporto tra costi e benefici economici e finanziari, dalla quale risulta che gli introiti per l’autorità portuale generati dall’utilizzo dell’infrastruttura non sarebbero sufficienti a coprire i costi degli investimenti. Il tasso di gap finanziario per il progetto è stato stimato a 68,87%.” Dunque gli introiti previsti riusciranno a coprire solo il 31,13% dell’investimento. Non è ragione sufficiente per dire che è un investimento sbagliato, non abbiamo sempre detto che vogliamo i privati nei porti? Ci manca il fiato, ma continuiamo. “Il finanziamento pubblico di 100 milioni di EUR è pertanto indispensabile per realizzare il progetto ed è limitato a quanto necessario per sopperire al deficit di finanziamento. La capacità supplementare di traffico di merci e di container che sarà generata dal progetto nel porto di Augusta dal 2015, anno in cui è previsto il completamento del progetto, non è tale da provocare significative distorsioni della concorrenza e sugli scambi tra Stati membri.” Cioè il traffico previsto è poca roba, ininfluente sul terreno competitivo, e allora che senso ha farlo? E conclude: “La versione non riservata della decisione sarà consultabile con numero di riferimento SA.33540 nel Registro degli aiuti di Stato, sul sito internet della DG Concorrenza, una volta risolte eventuali questioni di riservatezza.” Rigore vorrebbe che prima di esprimere giudizi si debba leggere il testo della decisione, ma in quel momento mi vien solo da pensare alle decine e decine di progetti, dettagliati nella loro parte economica, presentati da soggetti imprenditoriali di provata serietà, credibili, ragionevoli – soprattutto nel campo dei trasporti intermodali – che la DG Concorrenza ha bocciato perché il sostegno pubblico che questi progetti chiedevano per potersi avviare veniva cassato come “aiuto di Stato, contrario alle regole di concorrenza della UE”. Ma mi viene da pensare anche ai milioni di precari italiani che non hanno uno straccio di sostegno al reddito o di sussidio di disoccupazione, ai professionisti con partita Iva, agli artigiani, ai microimpreditori che non ce la fanno più a portare avanti l’attività, oberati dal fisco, dalle vessazioni della burocrazia, da normative assurde, indifesi rispetto ai clienti che non li pagano. Allora mi sale alla gola un grido: fermiamoli, con tutti i mezzi possibili!
1 Il cemento di Ciaccia: la fabbrica degli sprechi, di Giorgio Meletti, 18 ottobre 2012
2 Corriere della Sera, inserto Sette, di Ferruccio Pinotti, 31 agosto 2012.Taranto, dal porto arriva la speranza. Un piano da 400 milioni per fare della città la Rotterdam del Mediterraneo. Ma i cinesi minacciano di lasciare lo scalo, se non si fa in fretta

2-fine. La prima parte è qui: La nuova bolla esploderà dal mare.

La nuova bolla esploderà dal mare


di Sergio Bologna - sbilanciamoci -

Un altro grande crollo è in vista: quello del business che ruota attorno al trasporto merci nei container via mare. Un settore basato su finanza e gigantismo, prossimo al crack / 1

Un nuovo crack finanziario si profila all’orizzonte, meno eclatante di quello dei mutui subprime ma con conseguenze che potrebbero incidere pesantemente sui meccanismi della globalizzazione.1 Sappiamo qual è la ratio di fondo di questi meccanismi: produrre in una parte dell’emisfero terrestre e consumare i prodotti nell’emisfero opposto, produrre in paesi a basso costo del lavoro e consumare in paesi a reddito pro capite elevato. Il circuito immateriale del denaro governa questo scambio, ma c’è un altro circuito indispensabile al suo funzionamento: il circuito fisico. I prodotti debbono essere materialmente trasportati sui mercati di consumo, i semilavorati debbono arrivare alle fabbriche di produzione finale, i componenti debbono arrivare all’impianto di assemblaggio. Come? Per mare, in container la massima parte, oppure in aereo, se sono di alto valore. Del trasporto in container per mare se ne occupano una ventina di compagnie di navigazione. Le prime cinque per dimensioni, potenza della flotta, copertura planetaria delle rotte, si chiamano Maersk (che organizza anche una buona fetta della logistica militare USA), MSC (invenzione geniale di un sorrentino che ha stabilito il quartier generale a Ginevra), CMA CGM di un libanese naturalizzato francese (che naviga da tempo in cattive acque finanziarie), COSCON (cinese, di stato, che naviga forse in acque peggiori), Hapag Lloyd (tedesca, di antica tradizione, il cui azionista di riferimento, il gruppo TUI, cerca di scaricare sulle spalle di qualcun altro, magari con il contributo della Merkel, così come Hollande cerca di venire in soccorso a CMA CGM). Maersk ha perso l’anno scorso 600 milioni di dollari, MSC è un mistero, non fornisce informazioni all’esterno. L’indebitamento che queste 20 compagnie hanno accumulato dal 2007 ad oggi è, secondo stime di una nota società di consulenza, di 90 miliardi di dollari.2 La stessa società ne ha analizzate alcune in profondità, pubblicando i risultanti ad ottobre: la metà di quelle prese in considerazione “non è in grado di pagare gli interessi sul debito”. Perché perdono tanti soldi? Esaltate dai ritmi di crescita dei primi anni 2000 hanno cominciato a ordinare navi ai cantieri, sempre più grandi (12 mila, 14 mila Teu, adesso è appena entrata in servizio una da 16 mila Teu).3 Hanno creato in tal modo una sovraofferta di stiva, i noli sono crollati, le navi più sono grandi più perdono soldi ad ogni viaggio se vengono riempite al 60/65%.
I cantieri del Far East, coreani, cinesi, giapponesi, sussidiati dai governi, le fabbricano a prezzi sempre più stracciati, pur essendo sempre più sofisticate tecnologicamente. E le compagnie di navigazione le ordinano, le ritirano e ne iscrivono in bilancio il valore, che serve come garanzia per il credito bancario. Organizzare un servizio sulla rotta Far East-Europa costa 1,5 miliardi di dollari, ma per essere competitivi bisogna almeno averne tre di servizi, dunque 4,5 miliardi. Impossibile senza il credito bancario. Ma su quella rotta si abbatte la crisi dell’eurozona, i noli salgono e scendono impazziti, gli spedizionieri, le ditte di import-export, le imprese manifatturiere, la grande distribuzione, perdono il controllo dei loro costi logistici (di cui quelli di trasporto sono la componente maggiore). Il 19 novembre la svolta: Maersk, leader mondiale, dichiara al Financial Times Deutschland (il giornale che la proprietà ha deciso di chiudere proprio questa settimana) che per i prossimi cinque anni non ordinerà più una nave ai cantieri e che il business del trasporto marittimo container è ormai un business in perdita. Notizia bomba, di cui in Italia, paese di mare, si è avuta una pallida eco. Intanto è da più di un anno che le istituzioni finanziarie deputate al credito navale, concentrate quasi tutte in Germania, affogano nella crisi. Dall’inizio del 2012 centinaia di “fondi chiusi” hanno dichiarato lo stato di Insolvenz. Le grandi banche tedesche specializzate in finanziamento dello shipping o si ritirano da questo settore di business, come la Commerzbank, o rischiano il default, come HSH Nordbank, la prima al mondo del settore, pubblica, proprietà suddivisa tra la città-stato di Amburgo e il Land dello Schleswig Holstein. Merkel non interviene. Per calcolo politico? I due Länder sono l’uno, Amburgo, socialdemocratico, l’altro, lo Schleswig Holstein, rosso-verde, se l’umore dei loro elettori cambia in seguito al crack della banca, lei, Merkel, riconquista la maggioranza nel Bundesrat.4
Ma non basta, un altro soggetto è deputato al finanziamento della costruzione navale ed alla messa a disposizione di terzi di stive da riempire. Si chiama non operating ship owner – o semplicemente owner. Sono quasi tutti tedeschi, società di dimensioni rispettabili, tanto per rendere l’idea: Peter Döhle, uno dei maggiori, ha 6.800 dipendenti, Hamburg Süd, la 12ma in classifica delle top 20 del trasporto container, ne ha 4.500. Guadagnano come? Costruendo navi e noleggiandole con contratti charter a lungo termine. Quando il mercato tira, i noli charter consentono lauti guadagni, con la crisi crollano in parallelo al crollo dei noli di trasporto. E il valore patrimoniale delle navi scende di conseguenza. A giugno 2012 la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” scriveva: “il valore di molte navi è ormai sceso al livello del loro prezzo di demolizione”. Come gli immobili dei mutui subprime, non c’è differenza nelle dinamiche della finanziarizzazione. In questo caso Merkel è intervenuta, il Kreditanstalt für Wiederaufbau, una specie di nostra cassa depositi e prestiti, ha concesso dei crediti-ponte a tassi agevolati agli owner. Di tutto questo bailamme in Italia non si è avuto sentore. Come dei sonnambuli, i rappresentanti della nostra classe dirigente, a livello nazionale ministri e sottosegretari, a livello locale deputati delle città portuali, assessori regionali, sindaci, alcuni Presidenti di Autorità portuali, hanno continuato a vaneggiare di progetti per il potenziamento dei porti, che non hanno alcun senso comune.
(1- continua)

1 Un’analisi più approfondita di questi avvenimenti nel mio articolo Il crack che viene dal mare, in download dal sito www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/; vedi anche la mia intervista a “Il Corriere dei Trasporti”, n. 47, dicembre 2012; inoltre Navigazione pericolosa, di C. Müssgens, dalla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, su “Internazionale”, 21 dicembre 2012, p.108.

2 Alix Partner, Sailing in a Sea of Red. The Alix Partner Container Shipping Study.

3 Teu (twenty equivalent unit) unità di carico standard da 20 piedi, una nave da 14 mila vuol dire che può caricare fino a 14 mila unità da 20 piedi ciascuna.

4 Attualmente, la situazione al Bundesrat è così suddivisa, 7 Länder al centro-sinistra (SPD, Verdi, Linke), 5 alla grande coalizione CDU/SPD, 4 al centro-destra (CDU o CDU/FDP); se i due Länder del Nord dovessero cambiare colore, la situazione sarebbe: 5 al centro-sinistra, 5 alla grande coalizione, 6 al centro-destra

Reddito minimo o minimi salariali? Il caso tedesco


- keynesblog -
schroeder
Con le riforme Hartz implementate dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, il mercato del lavoro tedesco è profondamente cambiato: i lavori a tempo pieno e indeterminato hanno lasciato via via il posto a forme di impiego precarie e sottopagate, integrate dall’assistenza pubblica. Materia su cui riflettere attentamente anche in Italia quando si parla di “reddito minimo garantito” dallo stato e non di minimo salariale imposto per legge ai datori di lavoro. Da Voci dalla Germania

15972
Krisenvorsorge.com e jjahnke.net ci ricordano le dimensioni della politica di moderazione salariale tedesca e i suoi effetti sociali.
Secondo quanto comunicato da Eurostat il 20 dicembre 2012, la Germania con il 22.2 % ha la quota più alta di lavoratori con un basso salario di tutta l’Europa occidentale. In Francia sono solo il 6.1 %, nei paesi scandinavi fra il 2.5 % e il 7.7 % mentre la media dell’Eurozona è del 14.8 %.
La precaria situazione dei lavoratori tedeschi è confermata anche dai dati sui lavoratori a basso salario con un’istruzione media. E’ evidente che non si tratta solo di un fenomeno legato alla bassa istruzione.
15973
Il rifiuto da parte del governo di introdurre un salario minimo [cioè un minimo sotto il quale nessun datore di lavoro può assumere un lavoratore, da non confondere con il "reddito minimo garantito"], presente in altri paesi occidentali [non in Italia], la crescita del settore del lavoro in affitto, caratterizzato da precarietà e bassi salari, lo sfruttamento del lavoro femminile, grazie alla più grande differenza in Europa occidentale fra il salario femminile e maschile, la disponibilità del governo a sovvenzionare i bassi salari con i sussidi Hartz IV, sono tutte parti di uno scandalo sociale che non ha eguali in altri paesi europei.
In questo scenario non c’è da meravigliarsi, se il costo del lavoro per unità di prodotto, decisivo per la competitività, ha avuto uno sviluppo decisamente migliore rispetto ai nostri vicini europei. La Germania non ha alcun motivo di esserne orgogliosa, come il governo vorrebbe dare ad intendere.
15843
La Germania si è allontanata da ciò che un tempo si definiva economia sociale di mercato. Insieme alla Cina è diventata il Pariah dell’economia mondiale: compete in maniera sleale con i suoi partner, rubando posti di lavoro fino a quando questi non saranno costretti a elemosinare gli aiuti finanziari tedeschi. Fino a 20 anni fa una simile situazione sarebbe stata impensabile. La divisione della Germania e la paura del comunismo costringevano il capitalismo tedesco ad avere un maggiore orientamento sociale.
Dati da Eurostat

Lavorare peggio, un modello europeo

di Matteo Rinaldini - sbilanciamoci -
Perché peggiorano le condizioni di lavoro in Europa. Un libro spiega come i modelli organizzativi, la regolazione di mercato e la mediazione istituzionale hanno chiuso gli spazi per democratizzare i rapporti di lavoro
Il libro collettaneo Workers, Citizens, Governance. Socio-Cultural Innovation at Work, curato da Garibaldo, Baglioni, Casey e Telljohannn, ha due obiettivi espliciti: da una parte ricostruire le caratteristiche salienti delle attuali condizioni di lavoro in Europa, dell’organizzazione della produzione che si è affermata e delle istituzioni europee di regolazione dei mercati e del welfare state; dall’altra, indicare percorsi di innovazione in ambito organizzativo, manageriale e istituzionale che siano in grado di invertire la direzione dei processi socioeconomici del passato, ancora oggi largamente dominanti. Ciò che allo stesso tempo interessa gli autori dei saggi raccolti nel volume è lo stato di salute attuale, lo spazio d’azione a disposizione e le prospettive future delle organizzazioni dei lavoratori. Tuttavia, per comprendere tutto questo conviene partire dalle due tesi di fondo che rappresentano i binari su cui scorrono le riflessioni svolte nei dodici contributi che formano il libro.
La prima tesi, esplicitata già nell’introduzione, è una constatazione forte che non lascia “vie di fuga” per chi voglia riflettere sull’attuale “stato di salute del lavoro” (e dei lavoratori). La tesi recita più o meno nel seguente modo: nel modello di sviluppo economico e sociale che si è affermato in Europa non c’è spazio per pratiche di democratizzazione del mondo del lavoro e della produzione. In altri termini, i processi sociali e culturali oggi dominanti in ambito organizzativo e nel campo delle relazioni industriali implicano che l’integrazione dei lavoratori (nei luoghi di lavoro, ma anche nella società più in generale) non possa passare attraverso una rappresentanza e una cittadinanza democratica, ma attraverso l’adeguamento alle regole e ai vincoli stabilito “di volta in volta” e “di luogo in luogo” dal management. Proprio questo “di volta in volta” e “di luogo in luogo” deve, tuttavia, essere considerato attentamente per comprendere a pieno la complessità del sistema di fronte a cui ci troviamo. Infatti, al netto di una tendenza generale al restringimento della dimensione della partecipazione democratica e della qualità del lavoro nei luoghi di produzione, la situazione appare differenziata al suo interno.
La specifica frammentazione della struttura industriale, la particolare ri-articolazione della catena del valore e l’esplosione della divisione sociale del lavoro – processi che hanno in comune una stessa logica di concentrazione (di potere decisionale) senza centralizzazione (delle strutture produttive) – e il carattere iper-competitivo dei mercati in cui la posta in gioco per le imprese non è semplicemente l’acquisizione di un vantaggio rispetto agli altri competitor, ma la sopravvivenza, hanno generato uno scenario in cui all’interno della stessa filiera produttiva o della stessa attività economica è possibile trovare condizioni di lavoro molto diverse tra loro. Tutto ciò, secondo gli autori, non deve però trarre in inganno e far pensare ad una normale riproposizione di configurazioni di potere del passato. Infatti, l’elemento di novità sta nel fatto che l’integrazione “tra chi sta in basso” (imprese e lavoratori) e “chi sta in alto” (imprese e lavoratori) è diventata sempre più stretta e le linee gerarchiche si sono rafforzate in modo inedito.
L’opzione gerarchia o mercato (make or buy) attraverso cui il mainstream economico spiega il funzionamento dell’impresa come istituzione di regolazione del mercato è, se così stanno le cose, da rivedere, poiché la possibilità di scelta delle imprese lungo la filiera sembra essere sempre più ridotta fino a scomparire man mano che ci si allontana dall’impresa leader. In altri termini, la relazione di potere appare del tutto sbilanciata verso le imprese che si situano al vertice della filiera, le quali determinano tempi, quantità e modalità di produzione delle imprese da loro dipendenti di fatto gerarchicamente (anche se attraverso una relazione di mercato). Il prezzo da pagare per non sottostare a tali vincoli da parte delle imprese che si situano nella parte più bassa della filiera non è un semplice riposizionamento strategico di mercato o un riassetto organizzativo, ma la morte. E d’altra parte le imprese leader della filiera, per l’acquisita sovra-capacità produttiva globale, sono a loro volta coinvolte in una competizione internazionale per la sopravvivenza ispirata al semplice principio di mors tua vita mea.

Il salario di produttività nell’Agenda Monti

- sbilanciamoci -

L’Agenda Monti rilancia l’idea di salari flessibili, legati alla produttività o alla redditività delle imprese. Non è questa la strada giusta per la contrattazione sindacale e per far ripartire la produttività
L’Agenda Monti (www.agenda-monti.it), “Cambiare l’Italia, Riformare l’Europa. Una agenda per un impegno comune”, si propone come un Primo contributo ad una riflessione aperta, così esplicitamente dichiara il titolo. Cogliamo l’occasione per ritornare sul tema del salario flessibile in chiave di politica economica, anche perché proprio nel documento si fa riferimento all’Accordo sulla Produttività firmato dalle parti sociali il 21 novembre 2012. Due sono i passi in cui nel documento ci si occupa del tema.
Il primo nella sezione dedicata a Rivitalizzare la vocazione industriale dell’Italia, ove si afferma:
“Serve infine lavorare sulla produttività totale dei fattori e sul costo del lavoro per diminuire quel divario con gli altri Paesi europei che crea uno squilibrio di competitività. Bisogna quindi continuare sulla strada del decentramento della contrattazione salariale lungo il solco dell’accordo tra le parti sociali dell’ottobre scorso”.
Il secondo nella sezione La riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, ove si afferma:
“La modernizzazione del mercato del lavoro italiano richiederà inoltre di intervenire per: [...]
– spostare verso i luoghi di lavoro il baricentro della contrattazione collettiva, favorendo il collegamento di una parte maggiore delle retribuzioni alla produttività o alla redditività delle aziende attraverso forme di defiscalizzazione, come avvenuto nell’accordo firmato dalle parti sociali nell’ottobre scorso”.
Questi due passi sono importanti perché hanno una valenza generale sia in termini di obiettivi che di strumenti. La produttività è necessaria per gli obiettivi di crescita e di recupero di competitività nei confronti di altri Paesi europei, ed è anche un obiettivo a cui le retribuzioni devono essere collegate nelle imprese private e nel settore pubblico in un quadro di decentramento della contrattazione salariale. La visione che emerge nell’Agenda Monti è secondo noi solo in parte condivisibile, per quello che si afferma e per ciò che non si afferma. Ci soffermiamo qui in modo sintetico su tre aspetti: il ruolo della contrattazione e che tipo; lo strumento della fiscalizzazione; la concezione di salario variabile (per chi fosse interessato alle argomentazioni, rimandiamo alla versione completa di questo lavoro, disponibile nel pdf qui sotto).
Due pilastri e un metodo
Premettiamo che il decentramento contrattuale non deve essere assolutamente demonizzato, tutt’altro. E’ sempre stato il livello negoziale nell’ambito del quale sono migliorate le condizioni di lavoro dei lavoratori ed anche le condizioni di produttività e competitività dell’impresa. Ciò è storicamente avvenuto in varie fasi dello sviluppo economico italiano ed ha trovato spesso un equilibrio con modalità centralizzate. (…) Ed anche quando gli obiettivi erano quelli macroeconomici, i due pilastri, decentramento e centralizzazione, sono stati utilizzati congiuntamente in modo complementare. (…) Anche oggi vi è un obiettivo macroeconomico da raggiungere, che è quello di riprendere un sentiero di crescita della produttività e di recupero di competitività dell’apparato industriale nazionale. Tale obiettivo non può che reggersi su due pilastri, il contratto nazionale e il contratto decentrato. E il metodo è quello della concertazione.
È significativo che ciò che viene dichiarato nell’Agenda sia il ruolo della contrattazione decentrata, sul salario, mentre la funzione della contrattazione nazionale sia intesa in modo implicito, non essendo neppure richiamata, come un livello di cui ridurre necessariamente la portata. Al contempo il metodo stesso della concertazione non è indicato come metodo di lavoro, essendo stato sostituito nella pratica del Governo Monti da quello della informazione e a volte della consultazione, come in effetti è avvenuto nel caso della riforma del sistema pensionistico ed in quella del mercato del lavoro, con esiti non particolarmente brillanti ricordiamo. (…).
THE VATICAN ENDORSES MARIO MONTI AGENDA
“blessed are we poor, for ours is the kingdoom of god”
 
 

venerdì 28 dicembre 2012

Ingroia.

Fonte -

Danielle Sansone su lanostravoce.info. “Solo in nome di
questa costituzione che da qui potrà partire la vostra, la nostra
rivoluzione civile. Io ci sto e la vostra risposta la nostra
riscossa civile è alta e se la risposta di tutti sarà alta lo sarà
anche la mia”. Con queste preziose parole, dal sapore autentico di
una rivoluzione dei principi e delle coscienze, è partito l’impegno
politico di Antonio Ingroia. E lo fa in nome della Carta
Fondamentale del nostro paese, che in questi ultimi anni stava
perdendo la sua dignità. La formalizzazione della candidatura non è
avvenuta ma manca ormai poco. L’ex pm della trattativa, in un
comunicato lasciato all’Adnkronos, ha fatto sapere che scioglierà
la riserva “tra il 28 e 29 dicembre” se si concretizzeranno le
condizioni che egli stesso ha posto durante l’assemblea indetta al
Capranica. Di che riserve si parla? Beh, a primo impatto, sono
delle riserve abbastanza sui generis per un neofita della politica.
Chiedere ai politici di fare un passo indietro, avere la capacità
di mettersi in seconda fila, può essere inteso come una smania di
protagonismo di Ingroia. Ma tutto ,invece, rientra nella sua
perfetta filosofia politica. Non si può parlare di rivoluzione
civile, sostiene il magistrato, se si chiede alla politica di stare
davanti. La politica, questa volta, deve avere la bontà di stare in
“seconda fila” se il progetto di rinascita morale deve partire.
Questa volta, deve essere la società civile ad avere la meglio. Ad
avere diritto di parola. L’assemblea convocata qualche giorno fa al
Capranica ha richiamato sostenitori e semplici curiosi che hanno
voluto assistere alla nascita di questo movimento. Il punto di
forza sono i dieci punti del manifesto politico e di cambiamento.
Un manifesto programmatico, che spazia tra lavoro, antimafia,
giustizia ed eguaglianza sociale, di cui lo stesso Ingroia ne è il
primo firmatario. Tutti temi che sono a cuore del magistrato e che
spera possano entrare nel dibattito elettorale diventando
patrimonio spendibile nel confronto con la società civile.

IT IS ALL WOMEN'S FAULT
(according the Vatican twitter, scantly dressed women are responsible for the violence upon them)
SALE ! Suggestive dress plus pistol/knife/ etc. in one complete package, all inclusive
 
 

giovedì 27 dicembre 2012

Agenda Monti

 

Pubblicato il · in alfabeta2 -

Mario Merz_Che fare (1968)Augusto Illuminati
«Cambiare mentalità, cambiare comportamenti». Confesso di aver provato un brivido di inquietudine leggendo siffatto titolo di paragrafo nell’agenda Monti (su traccia Ichino) testé divulgata, pochi giorni dopo la mancata fine maya del mondo e nel bel mezzo del sopore natalizio. Sarà che non mi piace che qualcuno voglia cambiare la mia mente, tanto meno i miei comportamenti. Ma chi cazzo siete per darmi questo suggerimento o peggio quest’ordine? Ma cambia tu modo di ragionare, visti i disastri che hai combinato. E per dirla tutta: non mi piace neppure la leggerezza con cui sentenzi ignorando ansie e sofferenze quotidiane della grande maggioranza e pretendendo una cambiale in bianco per governare ancora, dopo essere stato paracadutato senatore a vita e premier. Opinioni mie, d’accordo.
Però mi inquieta pure l’uso della parole, una specie di neo-lingua tecno-liberista della radical centrist politics («The Economist») che ricorda altri infausti e ilari eufemismi totalitari. «Modernizzazione del mercato del lavoro» è uno di questi, soprattutto se si collaziona tale promessa con le implementazioni suggerite: liberalizzazioni sfrenate, culto della competizione, smantellamento dei contratti nazionali di lavoro a favore di accordi aziendali, di cui abbiano avuto triste esperienza con le discriminazioni marchionnesche contro la Fiom. A leggere che si vogliono «ridurre le differenze fra lavoratori protetti e non», torna in mente la vecchia barzelletta sul devoto pellegrino che si reca a Lourdes con una mano paralizzata e invoca: Madonnina, fammele eguali, con il risultato che gli si paralizza l’altra…
Sarà pensar male, ma quando si afferma che «tutte le posizioni sono contendibili e non acquisite per sempre», si potrebbe ipotizzare che in pratica tutti siano licenziabili senza tante storie e la contesa per le posizioni si risolva con la vittoria di chi accetta un salario minore. Per non parlare dell’enfasi sul merito, accertato ai vari livelli attraverso le procedure Invalsi, Indire e Anvur, sì quelle dei quizzoni e di riviste parrocchiali, balneari e di suinicultura assurte a “scientifiche”. Che la dismissione del patrimonio pubblico riguardi poi in primo luogo quello storico-artistico, riprende con terminologia Cee la vendita della Fontana di Trevi immortalata da Totò o l’appalto del Colosseo a uno scarparo.
Il mondo non è finito il 21 dicembre 2012. O forse è finito nel senso che continua ad andare avanti come prima – il contrassegno della catastrofe secondo Walter Benjamin. Litigi di facciata ma accordo sostanziale di quanti giocano le diverse parti in commedia sulla scena politica, concordi a gestire con agende parallele una crisi di cui non sanno a venire a capo se non taglieggiando il 90% e riservando la polpa a gruppi ristretti di super-ricchi, con cospicue briciole al ceto politico e amministrativo di supporto. Che il true progressivism ci risparmi almeno le prediche.

Due imputati di omidicio al Quirinale

Fonte: il manifesto | Autore: MARINA FORTI       
I marò non sono eroi nazionali. Perché Napolitano li ha ricevuti?Perché Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono stati accolti come due eroi nazionali, al loro rientro in Italia? Due ministri e un capo di stato maggiore si sono scomodati per riceverli all'aeroporto di Ciampino, sabato scorso, con tanto di picchetto d'onore. Quello stesso pomeriggio il presidente della repubblica Giorgio Napolitano li ha ricevuti al Quirinale.

Il fatto è che Girone e Latorre, sottufficiali del Reggimento San Marco, non sono eroi. Sono cittadini italiani imputati di omicidio. Per la precisione: uomini della marina militare italiana in attesa di processo in India per l'uccisione di due uomini, pescatori indiani che gli imputati affermano di aver scambiato per pirati in procinto di abbordare il mercantile su loro erano imbarcati in servizio di sicurezza (contractors pubblici per interessi privati, una bizzarrìa italiana). Sono rientrati in Italia grazie a una «licenza» natalizia, dietro pagamento di una sostanziosa cauzione e dietro l'impegno del governo italiano a rimandarli in India tra due settimane, per essere processati.

Ogni imputato ha diritto alla difesa, e questo vale anche per Latorre e Girone. Dunque è normale che il governo italiano, attraverso la sua diplomazia, abbia preso le difese dei due imputati. Già un po' meno normale che lo stato sborsi una salata cauzione per fargli passare il Natale in famiglia o gli metta a disposizione un aereo speciale. Ma certo non sono molti gli imputati di omicidio che vengono ricevuti al Quirinale.

Proviamo a immaginare se dei militari di un qualunque paese straniero avessero ucciso due pescatori di Mazara del Vallo. Ma forse non è un buon esempio: la cosa sarebbe probabilmente caduta nel silenzio, come dei resto capita spesso ai pescatori mazaresi. Pensiamo allora ai marines degli Stati uniti che nel 1998, a bordo di un caccia, tranciarono il cavo della funivia del Cermis uccidendo 20 persone. O al soldato Mario Lozano che uccise Nicola Callipari e ferì Giuliana Sgrena sulla strada dell'aeroporto di Baghdad nel 2005. Come sappiamo bene, la richiesta italiana di processarli in Italia è stata respinta: gli Usa rivendicano immunità per i loro militari all'estero, e l'Italia non ha mai davvero potuto o voluto mettere in discussione questo status sancito dagli accordi bilaterali. Sappiamo che i responsabili della strage al Cermis sono stati processati da una corte marziale americana e assolti dall'accusa di omicidio colposo. Lozano è stato prosciolto da ogni accusa da un'indagine interna Usa. La cosa ha suscitato grandi polemiche. Che avremmo detto se i responsabili del Cermis o Mario Lozano fossero stati ricevuti con picchetto d'onore alla Casa Bianca? Che oltre al danno della giustizia negata dovevamo subìre anche una beffa simbolica.

Il fatto è che sulla vicenda dei marò si è scatenato un nazionalismo assurdo. Non giustifica nulla il fatto che anche in India ci sono stati toni a volte anti-italiani, e che la vicenda è stata usata a fini elettorali - come qui del resto: l'ex ministro della difesa Ignazio La Russa, in cerca di pubblicità per il nuovo partitello di destra chiamato Fratelli d'Italia, ha proposto di candidare Girone e Latorre al parlamento. Ma quella è la destra fascistoide: il presidente Napolitano invece, perché ha accolto i marò come eroi?

Banche condannate per i derivati di Milano

di Andrea Baranes - sbilanciamoci -

Una multa di un milione di euro per ognuna delle quattro banche accusate di truffa nella vendita di derivati al Comune di Milano. Le avventure della “finanza creativa” arrivano finalmente in tribunale

Una somma minuscola per gli istituti coinvolti, ma una sentenza di portata storica, non solo per l'Italia. Viene riconosciuta la gigantesca asimmetria informativa tra le grandi banche che maneggiano e vendono derivati e chi li acquista. Più in generale la sentenza riapre il dibattito sui danni che tali strumenti possono provocare.
Parliamo di contratti finanziari nati come assicurazioni contro i rischi. Ho un pastificio, e intendo proteggermi da un possibile aumento dei prezzi del grano. Acquisto un derivato che mi da il diritto di comprare il grano tra un mese a un prezzo fissato già oggi. In cambio di una commissione, la banca che me lo vende si assume quindi i rischi delle oscillazioni dei prezzi. Più in generale i derivati danno il diritto o la possibilità di comprare, vendere o scambiare qualcosa in una data futura, fissando prezzo e condizioni già al momento dell'acquisto del derivato stesso.
Nel caso degli enti locali, si scambia un debito a tasso fisso con uno a tasso variabile, spostando così sulla controparte il rischio di oscillazione dei tassi. Tali contratti però spesso contengono clausole e costi occulti difficilissimi da comprendere per chi, con limitate capacità finanziare, li acquista.
Soprattutto, i derivati sono gli strumenti ideali della speculazione, permettendo di scommettere su un evento futuro, dal prezzo del petrolio a quello del cibo al fallimento di Stati sovrani. Oggi nel 99% dei casi non c'è la consegna del sottostante, ovvero su 100 derivati sul grano, uno si chiude con la consegna materiale del prodotto, gli altri 99 sono pure scommesse sul suo prezzo futuro.
Il PIL dell'intero pianeta vale 63.000 miliardi di dollari. Una singola banca statunitense controlla derivati per oltre 70.000 miliardi di dollari. Sommando l'esposizione in derivati di quattro banche il totale supera i 200.000 miliardi. Il debito pubblico italiano è circa l'1% di questa cifra. Siamo sicuri, come ci ripetono ossessivamente media e politici, che i problemi attuali risiedano nella finanza pubblica e negli “eccessivi” debiti sovrani?
In realtà una sterminata massa di scommesse esaspera l'instabilità dei prezzi. Non è un fastidioso effetto collaterale, ma il cuore stesso della finanza globale. La speculazione si nutre delle oscillazioni dei prezzi. Più tali oscillazioni sono ampie e veloci, più posso guadagnare. Più creo disastri tramite i derivati più i prezzi impazziscono, più posso estrarre profitti scommettendo sulle variazioni future dei prezzi stessi, più diventa interessante continuare a giocare, in una spirale senza fine.
Le proposte per arrestare questa follia ci sarebbero, a partire da una tassa sulle transazioni in derivati per frenare le operazioni speculative di breve termine. Peccato che la proposta di tassa sulle transazioni finanziarie inserita nella legge di stabilità escluda quasi interamente i derivati. Il motivo ufficiale per non limitarne l'utilizzo è che servono alle imprese per coprirsi dai rischi. Nel 2000 in Italia circolavano derivati per 1.400 miliardi di dollari. Nel 2011 l'ammontare ha superato gli 11.000 miliardi. Il 685% di aumento in undici anni, a fronte di una crescita del 40% dell'economia reale. Forse nel 2000 le imprese italiane si trovavano in maggiori difficoltà? O, esattamente al contrario, è proprio lo sviluppo di una finanza ipertrofica e fine a sé stessa la base della crisi attuale?
Di fatto, se oggi un'impresa deve acquistare un derivato è per coprirsi dai rischi di instabilità dovuti in primo luogo all'eccesso di derivati sui mercati. La logica è la stessa della lobby delle armi negli USA: per evitare future stragi nelle scuole non bisogna limitare la diffusione delle armi, ma al contrario armare anche insegnanti e bidelli.
Non possiamo condannare i derivati unicamente per l'uso che ne viene fatto nel 99% dei casi. Al di là della battuta, da trent'anni siamo immersi nel dogma neoliberista secondo il quale i mercati devono essere lasciati liberi e senza regole perché sono “efficienti”. In italiano l'efficienza misura la quantità di risorse necessarie a portare a termine una data azione. Nel limitare i rischi, i derivati lavorano con un'efficienza del'1%. Il rimanente 99% è superfluo o più spesso nocivo.
Sono questi i tanto magnificati “mercati efficienti”? E' forse necessario risalire alla preistoria per trovare un uomo disposto a compiere uno sforzo di 100 per produrre 1. La finanza, come strumento al servizio dell'economia, è di fatto una delle attività più inefficienti che mente umana abbia mai concepito. Non solo. Visti i danni che provoca e il numero di persone escluse dall'accesso al credito, è altrettanto inefficace. Nell'interesse anche dello stesso sistema finanziario, non sarebbe ora di cambiare radicalmente strada?

Quel che occorrerebbe dire, ma non si dice


Di Zag(c) ·      - miogiornale -

Draghi è molto soddisfatto dei conti italiani e Monti , chiaramente, sprizza ottimismo da tutti i pori, a patto però che sia ancora lui a condurre la baracca. Entrambi affermano che la bilancia dei pagamenti è migliorata di 21% dal 2009 ad oggi. E sono previsti ulteriori miglioramenti per il 2013.
Naturalmente i giornali che si dicono finanziari o che si vantano di sapere di economia si son ben guardati dal verificare questa affermazione. Eppure le fonti non mancano, per fortuna. Allora vediamo di fare in casa quel che i mass media non fanno, ne i politici . Persino( si fa per dire) Grillo ha affermato che l'Italia dal 1980 al 2011 era stata virtuosa se non fosse stata per i malefici gnomi della finanza. ( discorso a Pescara)
La verità ( prendendo i dati un pò più in profondità) però è che l'Italia presenta una bilancia commerciale pessima e il trend è al ribasso. Dal 2000 al 2012 mancano quasi 100 miliardi di euro cumulativi. Tutto punti PIL che si spostano all'estero.( dati Istat)
Cioè ricchezza prodotta in Italia e spostata all'estero. Quando si parla di ricchezza prodotta, detto in linguaggio marxista più aderente alla realtà si intende non genericamente ricchezza, ma salario( plusvalore) spostato dalle tasche dei lavoratori in quella dei capitalisti esteri.
Ma specificatamente il massimo export dell'Italia risiede nel più grande mercato nazionale che è quello della Germania ( grafico preso da dati ISTAT )
Dal grafico e dai dati risulta la Germania non solo il mercato dove più esportiamo , ma anche quello da cui importiamo di più. Doppia perdenza quindi. E facendo una semplice somma del disavanzo della bilancia siamo per il 2011 a -137.000.000.000. -137 miliardi di euro. Ora qualcuno potrebbe arrivare ad una semplice equazione e conclusione di logica. Ma aspettiamo un po. Per adesso il tarlo è introdotto aspettiamo che cresca, ossia se altri dati analitici e statistici , empirici, possano farlo crescere o smontarlo.
Dal grafico seguente si vede come dal 1971 le due linee rossa Import e blu export viaggiavano sostanzialmente appaiate, . Cresceva l'uno e di pari passo cresceva anche l'altro. Nonostante che la struttura industriale economica della Germania fosse notevolmente più strutturate e più forte. Ma l'Italia si sorreggeva attraverso la sua politica fiscale, politica delle tariffe e salariale, di tassi di interesse, di aiuti statali all'industria e sopratutto attraverso politiche monetarie di svalutazione( la Banca d'Italia per essendo autonoma dal potere statale purtuttavia agevolava le politiche di sviluppo e di aiuto all'economia)
Lo stop, o meglio la divaricazione fra le due curve si è avuto a partire degli anni 2000 . L'introduzione dell'Euro ha fatto si che l'import dalla germania continuasse a prendere una ripidità ascendente, mentre l'esportazione , sempre da quel paese una discesa. E le due curve hanno continuato a viaggiare con gli stessi trend , ma con una forbice sempre più accentuata.
La coincidenza fra la divaricazione è l'introduzione dell'Euro non può essere solo una coincidenza. Ma forse la causa scatenante , o meglio il vincolo che ha cosentito alla Germania, avendo una struttura economica.industriale più robusta e dinamica di approfittare del vincolo introdotto dell'Euro per prendere le distanze e al contempo a impedito all'Italia di utilizzare di tutti quegli strumenti finanziari , fiscali ed economici di cui ho accennato sopra( ma si potrebbe parlare qui di tutti gli altri paesi europei etichettati sotto il tag di PIGS, ma su questo occorrerebbe una analisi dei dati macroeconomici per singolo paese)Pertanto l'Italia è stata costretto a guerreggiare con la Germania ad armi impari , partendo dagli stessi blocchi di partenza e quello che avrebbe dovuto essere strumento di unione ( una sola valuta in combinazione con tassi di interesse diversificati per coprire gli svantaggi iniziali) è finito per essere strumento di maggior vantaggio per chi partiva già con metri di distanza avanti.
Adesso quel tarlo detto all'inizio comincia a crescere ancora di più e molte cose cominciano ad essere più chiare ma il debito pubblico è proprio pubblico? è proprio dovuto ai lavoratori italiani cicale che hanno consumato più di quel che producevano?)
Ma non arriviamo ancora a conclusioni affrettate
Ma l'Italia è quindi fanalino di coda in Europa?
La Francia importa dal 1993 più di quanto esporta l'Italia. Le due curve viaggiano parallele se non per un leggera divaricazione intorno agli anni 2004 , ma ben al di là dall'introduzione dell'Euro. Il differenziale è intorno agli 83 miliardi , non sufficiente comunque a sanare il deficit con la Germania
Purtroppo quei 85 miliardi cumulativi non mitigano tanto la situazione.
Da questi dati si può trarre come summa il dato che non solo non è l'Euro la causa del debito pubblico , ma che il debito pubblico è debito privato che poi si è scaricato sul pubblico. La medicina quindi non è tagliare la spesa pubblica, ma questa viene utilizzata solo come moneta sonante per poter risanare il defici della bilancia commerciale. Tagliare pensioni, welfare , stato sociale non cura la malattia, ma solo serve come medicina per poter , sperare di sanare il male che ha altre radici, ed altre cause.
L'altro dato è che , ancora, non è l'Euro la causa che ha dato origine ma solo una concausa.Ossia è stata una concezione esclusivamente monetarista dell'Euro che ha portato al generare l'aumento delle disparita economiche fra paesi europee. Invece di essere strumento di unione e di omegenizzazione dei paesi europei è stato strumento di disomogeinizzazione e di aumento delle disparità fra i paesi.
MA il dibattito politico o meglio che i partiti e uomini politici propongono è esattamente sfuggire la vera ragione della crisi europea. Da un lato vi sono i convinti europeisti e della attuale politica europea. Continuare su questa concezione, con al massimo qualche aggiustamento. Sono i prodiani più o meno convinti fino ai liberisti monetaristi alla Monti. Questa politica non ci porterà che ad aumentare la miseria e l'impoverimento delle nazioni più in crisi ed ad aumentare il divario fra i paesi ricchi e quelli poveri. Come i dati dal 2000 ad oggi hanno dimostrato e che il trend conferma Fino a che il baratro non colpirà tutta l'Europa. Perché la crisi dei mercati PIGS finirà per intaccare anche la Germania Poi vi sono i populisti demagogici, irresponsabili .Quelli che parlano di una fuoriuscita dall'Euro con un semplice referendum. Sono dei demagogici irresponsabili. che raccontano frottole per racimolare un po di consenso. Sanno benissimo che un referendum di questa natura non potrà mai essere indetto, non solo, ma anche ammesso, uscire dall'euro così sic et simpliciter non farebbe che aggravare la crisi non intacca le cause , ma solo gli effetti.
E come ai tempi della rivoluzione industriale i luddisti propagandavano la distruzione delle macchine che a loro dire avevano procurato miseria e disoccupazione. Certo! ma non era quella la vera ragione, ma come era stata utilizzati quelle macchine per chi, per quale scopo. Così per l'Euro. L'uscita dell'Euro senza al contempo quelle politiche fiscali, politiche dei redditi, spostare la disparità distributiva delle ricchezze prodotte servirà solo passare dalla padella alla brace. Ma per questo occorrerebbe parlare con i dati di fatto e con la conoscenza e non solo con battute o demagogia.

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