di Redazione Contropiano
La crisi greca, gli aiuti che fanno male, l'economia reale che si blocca, la finanza che strozza la vita. Un'intervista esclusiva a Vladimiro Giacché, economista eterodosso. Ovvero marxista.
La politica degli aiuti a Grecia, Portogallo, Irlanda gestita da Bce, Fmi e Ue ha aumentato di fatto il debito pubblico e ha depresso le possibilità crescita di questi paesi. Come si spiega?
Il motivo è molto semplice. I prestiti sono degli “aiuti” molto particolari, che non sono sempre utili. Infatti servono soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Possono cioè risolvere soltanto condizioni di difficoltà momentanee di un Paese nel reperire denaro sul mercato dei capitali: quando, ad esempio, i titoli di Stato si deprezzano bruscamente a causa di un attacco puramente speculativo. Purtroppo, a dispetto della retorica ricorrente sugli speculatori, la situazione dei Paesi europei che oggi sono nell’occhio del ciclone non è questa. La loro crisi è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero, una bilancia commerciale pesantemente negativa. Detto in parole povere, consumano da anni più di quanto producono. Un deficit che per di più, invece di ridursi, aumenta. Quando succede questo, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi.
Se il problema per i Paesi investiti dalla crisi del debito è questo – ed è questo – nessun prestito potrà risolvere il problema sottostante all’indebitamento del loro settore pubblico, ossia la loro crisi di solvibilità. Anzi, potrà soltanto aggravarlo. E questo per almeno due ragioni. La prima è ovvia: i prestiti devono essere restituiti, e anche con gli interessi. Quindi, se i deficit strutturali non migliorano, i prestiti ricevuti non faranno che peggiorare la situazione. Il secondo motivo è rappresentato dalle condizioni che accompagnano questi prestiti. Esse prevedono sempre una forte riduzione della spesa pubblica e l’incitamento a riequilibrare i propri conti con l’estero (migliorando la competitività delle proprie merci e simili). Tutto molto ragionevole, in apparenza. Purtroppo però la richiesta di ridurre la spesa pubblica comporta una forte riduzione della domanda interna se i tagli riguardano le spese sociali, e un peggioramento in prospettiva della competitività di sistema se i tagli riguardano invece gli investimenti (ad esempio quelli in ricerca e sviluppo tecnologico, o in formazione, o in infrastrutture). Quanto alla richiesta di riequilibrare i conti con l’estero, visto che ormai tra paesi che fanno parte dell’euro le svalutazioni competitive sono impossibili, è praticamente impossibile in tempi brevi aumentare le esportazioni in misura sufficiente a riequilibrare i deficit commerciali. C’è quindi un’unica strada: ridurre drasticamente le importazioni. Ma nel caso della Grecia esse andrebbero ridotte del 50%, in quello del Portogallo del 20%. Questo presuppone una riduzione anche molto violenta della domanda interna, che ha l’effetto di deprimere l’economia, e quindi di ridurre le entrate fiscali, accrescendo così il deficit statale. Sono misure impossibili.
Le istituzioni finanziarie lo fanno coscientemente o applicano solo in maniera ideologica i manuali di macroeconomia?
Io credo che l’elemento ideologico sia molto forte. In fondo, tutta la costruzione della moneta unica europea è imperniata sul feticcio della lotta all’inflazione e della stabilità monetaria costi quello che costi. Il risultato è stato una crescita insoddisfacente nella migliore delle ipotesi, è un forte aggravamento della crisi oggi. Ovviamente, però, l’ideologia si salda sempre con precisi interessi di classe: quando si privatizza, si riducono gli stipendi pubblici, si tagliano le pensioni la logica è quella di far pagare la crisi ai lavoratori. La riduzione delle prestazioni sociali (o l’aumento del loro prezzo) è un attacco al salario indiretto, la restrizione dei benefici pensionistico un attacco a quello differito. E siccome in tempi di crisi a ridurre il salario diretto ci pensano già i rapporti di forza sfavorevoli per i lavoratori creati dalla crisi, il cerchio si chiude.
E' evidente che il controllo della spesa pubblica e del debito blocca la crescita e provoca recessione nei paesi europei più deboli invece che farli uscire dalla crisi. E' possibile che i paesi forti (Germania, Francia) giochino questa carta per “non portarsi dietro la zavorra” dei paesi periferici come condizione per svolgere il ruolo di locomotiva della crescita economica dell'eurozona?
L’assurdità di quanto viene richiesto con i piani di “salvataggio” è evidente nel caso della Grecia. La cura da cavallo imposta a questo Paese in cambio del “salvataggio” operato nel 2010 non ha affatto sortito gli effetti sperati. Tanto da rendere sempre più probabile quantomeno una ristrutturazione del debito pubblico greco: le probabilità che entro 5 anni la Grecia non sia in grado di onorare il suo debito in questi mesi hanno continuato a crescere. Nell’atteggiamento dei Paesi forti dell’eurozona verso quelli più in difficoltà durante la crisi sono evidenti motivazioni elettorali, ma anche la volontà di cogliere l’occasione per radicalizzare la specializzazione produttiva (la divisione del lavoro) in Europa secondo la direzione più favorevole. Questo in concreto significa accentuare i processi di deindustrializzazione già avanzati nei Paesi del sud Europa, gettando su questi ultimi Paesi tutto il peso della distruzione di capacità produttiva che la crisi economica in corso richiede al fine di tornare a far crescere la valorizzazione del capitale. Il limite di questo discorso è però rappresentato dalla forte interconnessione tra le economie. Questa interconnessione fa sì che una situazione prolungata di crisi in qualche Paese membro dell’Unione Europea non possa non ripercuotersi – alla lunga – anche sui Paesi più forti. Qui c’è un forte elemento di miopia, soprattutto da parte della Germania. Perché più aumenta la divergenza tra le economie, più l’euro è a rischio. E lo Stato che ad oggi ha avuto i maggiori benefici dalla moneta unica è proprio la Germania.
A questo punto, l'uscita dall'euro appare una scelta estrema e dolorosa, ma per paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda potrebbe diventare il male minore?
Nessuno nell’establishment europeo osa dirlo, ma se le politiche europee rimarranno invariate l’unica via d’uscita per la Grecia consiste nell’uscita dall’Unione Europea e quindi dall’euro (i trattati disciplinano solo l’uscita dall’Unione Europea), contestualmente a un fallimento più o meno pilotato. Molti analisti finanziari ormai danno la cosa per scontata. In questo modo la Grecia si riapproprierebbe, sia pure a caro prezzo, della propria sovranità monetaria. Del resto, tra una lunga agonia economica al cui termine c’è inevitabilmente l’insolvenza sui debiti e l’uscita dall’euro, e una decisione politica che attui un default parziale sul debito pubblico e al tempo stesso giochi d’anticipo la carta dell’uscita dall’euro per recuperare competitività per mezzo di una forte svalutazione della moneta, è abbastanza evidente cosa sia meglio. Ovviamente le conseguenze sarebbero (saranno) comunque pesanti: all’interno, sono probabili crisi bancarie (circa un terzo del debito pubblico greco è detenuto infatti da banche locali), accentuate dalle prevedibili difficoltà di approvvigionamento dei capitali sui mercati finanziari internazionali. Per la verità, questo secondo aspetto è forse il meno importante dei due: infatti il caso dell’Argentina ci insegna che i mercati finanziari vanno al sodo, e quindi – anche in presenza di un’insolvenza recente – se i rendimenti dei titoli offerti sono appetibili, non si tirano davvero indietro. Ma le conseguenze più importanti riguarderebbero l’Unione Europea nel suo insieme: l’insolvenza di uno Stato membro comporterebbe infatti il probabile scatenarsi di un effetto domino che potrebbe minacciare l’esistenza stessa della moneta unica, e comunque avrebbe come effetto sicuro il rapido rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato di tutti i Paesi più deboli, inclusa l’Italia. E’ precisamente per questo motivo che oggi la BCE è contraria anche a una ristrutturazione controllata del debito pubblico greco: per paura del diffondersi di un panico generalizzato. Sarebbero poi colpiti tutti coloro che hanno in mano titoli di stato greci, a cominciare dalle banche europee: le sole banche tedesche hanno tuttora in portafoglio obbligazioni greche per circa 37 miliardi di euro (ma la stessa BCE ha molti di titoli di Stato comprati dalle banche da un anno in qua). Sono proprio le banche tedesche (e quelle francesi) – e non la Grecia – che sono state salvate dal piano di salvataggio di un anno fa: se infatti la Grecia avesse dichiarato insolvenza sui propri titoli di Stato allora, imponendo ai suoi creditori un ripagamento soltanto parziale del debito, le banche francesi e tedesche avrebbero maturato perdite pesanti che le avrebbero fatte precipitare in una crisi simile a quella della fine del 2008.
In ogni caso una cosa è certa: se la crisi del debito sovrano di uno o più Paesi europei diventerà incontrollabile, saranno in molti, anche a Berlino e Francoforte, a pentirsi di aver affrontato questa crisi con le solite ricette neoliberiste, cioè offrendo soltanto prestiti, per di più condizionati all’attuazione di politiche economiche depressive. Ma forse succederà anche qualcosa di diverso e di più interessante. Forse i cittadini europei cominceranno a capire che alzare l’età pensionistica, distruggere quello che resta del welfare, magari mettere in Costituzione il divieto dei deficit pubblici non è un Purgatorio necessario che dischiude le porte del Paradiso economico, ma qualcosa di ben diverso: la distruzione di quel capitalismo dal volto umano all’europea conquistato dalle lotte dei lavoratori nel contesto di crescita economica del dopoguerra. E finalmente riprenderà, dopo un buio di (almeno) 20 anni, la concreta ricerca di alternative a questo sistema ingiusto e inefficiente.
La crisi greca, gli aiuti che fanno male, l'economia reale che si blocca, la finanza che strozza la vita. Un'intervista esclusiva a Vladimiro Giacché, economista eterodosso. Ovvero marxista.
La politica degli aiuti a Grecia, Portogallo, Irlanda gestita da Bce, Fmi e Ue ha aumentato di fatto il debito pubblico e ha depresso le possibilità crescita di questi paesi. Come si spiega?
Il motivo è molto semplice. I prestiti sono degli “aiuti” molto particolari, che non sono sempre utili. Infatti servono soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Possono cioè risolvere soltanto condizioni di difficoltà momentanee di un Paese nel reperire denaro sul mercato dei capitali: quando, ad esempio, i titoli di Stato si deprezzano bruscamente a causa di un attacco puramente speculativo. Purtroppo, a dispetto della retorica ricorrente sugli speculatori, la situazione dei Paesi europei che oggi sono nell’occhio del ciclone non è questa. La loro crisi è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero, una bilancia commerciale pesantemente negativa. Detto in parole povere, consumano da anni più di quanto producono. Un deficit che per di più, invece di ridursi, aumenta. Quando succede questo, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi.
Se il problema per i Paesi investiti dalla crisi del debito è questo – ed è questo – nessun prestito potrà risolvere il problema sottostante all’indebitamento del loro settore pubblico, ossia la loro crisi di solvibilità. Anzi, potrà soltanto aggravarlo. E questo per almeno due ragioni. La prima è ovvia: i prestiti devono essere restituiti, e anche con gli interessi. Quindi, se i deficit strutturali non migliorano, i prestiti ricevuti non faranno che peggiorare la situazione. Il secondo motivo è rappresentato dalle condizioni che accompagnano questi prestiti. Esse prevedono sempre una forte riduzione della spesa pubblica e l’incitamento a riequilibrare i propri conti con l’estero (migliorando la competitività delle proprie merci e simili). Tutto molto ragionevole, in apparenza. Purtroppo però la richiesta di ridurre la spesa pubblica comporta una forte riduzione della domanda interna se i tagli riguardano le spese sociali, e un peggioramento in prospettiva della competitività di sistema se i tagli riguardano invece gli investimenti (ad esempio quelli in ricerca e sviluppo tecnologico, o in formazione, o in infrastrutture). Quanto alla richiesta di riequilibrare i conti con l’estero, visto che ormai tra paesi che fanno parte dell’euro le svalutazioni competitive sono impossibili, è praticamente impossibile in tempi brevi aumentare le esportazioni in misura sufficiente a riequilibrare i deficit commerciali. C’è quindi un’unica strada: ridurre drasticamente le importazioni. Ma nel caso della Grecia esse andrebbero ridotte del 50%, in quello del Portogallo del 20%. Questo presuppone una riduzione anche molto violenta della domanda interna, che ha l’effetto di deprimere l’economia, e quindi di ridurre le entrate fiscali, accrescendo così il deficit statale. Sono misure impossibili.
Le istituzioni finanziarie lo fanno coscientemente o applicano solo in maniera ideologica i manuali di macroeconomia?
Io credo che l’elemento ideologico sia molto forte. In fondo, tutta la costruzione della moneta unica europea è imperniata sul feticcio della lotta all’inflazione e della stabilità monetaria costi quello che costi. Il risultato è stato una crescita insoddisfacente nella migliore delle ipotesi, è un forte aggravamento della crisi oggi. Ovviamente, però, l’ideologia si salda sempre con precisi interessi di classe: quando si privatizza, si riducono gli stipendi pubblici, si tagliano le pensioni la logica è quella di far pagare la crisi ai lavoratori. La riduzione delle prestazioni sociali (o l’aumento del loro prezzo) è un attacco al salario indiretto, la restrizione dei benefici pensionistico un attacco a quello differito. E siccome in tempi di crisi a ridurre il salario diretto ci pensano già i rapporti di forza sfavorevoli per i lavoratori creati dalla crisi, il cerchio si chiude.
E' evidente che il controllo della spesa pubblica e del debito blocca la crescita e provoca recessione nei paesi europei più deboli invece che farli uscire dalla crisi. E' possibile che i paesi forti (Germania, Francia) giochino questa carta per “non portarsi dietro la zavorra” dei paesi periferici come condizione per svolgere il ruolo di locomotiva della crescita economica dell'eurozona?
L’assurdità di quanto viene richiesto con i piani di “salvataggio” è evidente nel caso della Grecia. La cura da cavallo imposta a questo Paese in cambio del “salvataggio” operato nel 2010 non ha affatto sortito gli effetti sperati. Tanto da rendere sempre più probabile quantomeno una ristrutturazione del debito pubblico greco: le probabilità che entro 5 anni la Grecia non sia in grado di onorare il suo debito in questi mesi hanno continuato a crescere. Nell’atteggiamento dei Paesi forti dell’eurozona verso quelli più in difficoltà durante la crisi sono evidenti motivazioni elettorali, ma anche la volontà di cogliere l’occasione per radicalizzare la specializzazione produttiva (la divisione del lavoro) in Europa secondo la direzione più favorevole. Questo in concreto significa accentuare i processi di deindustrializzazione già avanzati nei Paesi del sud Europa, gettando su questi ultimi Paesi tutto il peso della distruzione di capacità produttiva che la crisi economica in corso richiede al fine di tornare a far crescere la valorizzazione del capitale. Il limite di questo discorso è però rappresentato dalla forte interconnessione tra le economie. Questa interconnessione fa sì che una situazione prolungata di crisi in qualche Paese membro dell’Unione Europea non possa non ripercuotersi – alla lunga – anche sui Paesi più forti. Qui c’è un forte elemento di miopia, soprattutto da parte della Germania. Perché più aumenta la divergenza tra le economie, più l’euro è a rischio. E lo Stato che ad oggi ha avuto i maggiori benefici dalla moneta unica è proprio la Germania.
A questo punto, l'uscita dall'euro appare una scelta estrema e dolorosa, ma per paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda potrebbe diventare il male minore?
Nessuno nell’establishment europeo osa dirlo, ma se le politiche europee rimarranno invariate l’unica via d’uscita per la Grecia consiste nell’uscita dall’Unione Europea e quindi dall’euro (i trattati disciplinano solo l’uscita dall’Unione Europea), contestualmente a un fallimento più o meno pilotato. Molti analisti finanziari ormai danno la cosa per scontata. In questo modo la Grecia si riapproprierebbe, sia pure a caro prezzo, della propria sovranità monetaria. Del resto, tra una lunga agonia economica al cui termine c’è inevitabilmente l’insolvenza sui debiti e l’uscita dall’euro, e una decisione politica che attui un default parziale sul debito pubblico e al tempo stesso giochi d’anticipo la carta dell’uscita dall’euro per recuperare competitività per mezzo di una forte svalutazione della moneta, è abbastanza evidente cosa sia meglio. Ovviamente le conseguenze sarebbero (saranno) comunque pesanti: all’interno, sono probabili crisi bancarie (circa un terzo del debito pubblico greco è detenuto infatti da banche locali), accentuate dalle prevedibili difficoltà di approvvigionamento dei capitali sui mercati finanziari internazionali. Per la verità, questo secondo aspetto è forse il meno importante dei due: infatti il caso dell’Argentina ci insegna che i mercati finanziari vanno al sodo, e quindi – anche in presenza di un’insolvenza recente – se i rendimenti dei titoli offerti sono appetibili, non si tirano davvero indietro. Ma le conseguenze più importanti riguarderebbero l’Unione Europea nel suo insieme: l’insolvenza di uno Stato membro comporterebbe infatti il probabile scatenarsi di un effetto domino che potrebbe minacciare l’esistenza stessa della moneta unica, e comunque avrebbe come effetto sicuro il rapido rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato di tutti i Paesi più deboli, inclusa l’Italia. E’ precisamente per questo motivo che oggi la BCE è contraria anche a una ristrutturazione controllata del debito pubblico greco: per paura del diffondersi di un panico generalizzato. Sarebbero poi colpiti tutti coloro che hanno in mano titoli di stato greci, a cominciare dalle banche europee: le sole banche tedesche hanno tuttora in portafoglio obbligazioni greche per circa 37 miliardi di euro (ma la stessa BCE ha molti di titoli di Stato comprati dalle banche da un anno in qua). Sono proprio le banche tedesche (e quelle francesi) – e non la Grecia – che sono state salvate dal piano di salvataggio di un anno fa: se infatti la Grecia avesse dichiarato insolvenza sui propri titoli di Stato allora, imponendo ai suoi creditori un ripagamento soltanto parziale del debito, le banche francesi e tedesche avrebbero maturato perdite pesanti che le avrebbero fatte precipitare in una crisi simile a quella della fine del 2008.
In ogni caso una cosa è certa: se la crisi del debito sovrano di uno o più Paesi europei diventerà incontrollabile, saranno in molti, anche a Berlino e Francoforte, a pentirsi di aver affrontato questa crisi con le solite ricette neoliberiste, cioè offrendo soltanto prestiti, per di più condizionati all’attuazione di politiche economiche depressive. Ma forse succederà anche qualcosa di diverso e di più interessante. Forse i cittadini europei cominceranno a capire che alzare l’età pensionistica, distruggere quello che resta del welfare, magari mettere in Costituzione il divieto dei deficit pubblici non è un Purgatorio necessario che dischiude le porte del Paradiso economico, ma qualcosa di ben diverso: la distruzione di quel capitalismo dal volto umano all’europea conquistato dalle lotte dei lavoratori nel contesto di crescita economica del dopoguerra. E finalmente riprenderà, dopo un buio di (almeno) 20 anni, la concreta ricerca di alternative a questo sistema ingiusto e inefficiente.
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