Verso il 31 Marzo... Occupyamo Piazza Affari!
Di seguito la relazione introduttiva dell'Assemblea pubblica (Napoli, 22 marzo 2012) di lancio della manifestazione Occupyamo Piazza Affari a Milano il 31 Marzo.
qui la pagina web della manifestazione, l'appello nazionale e tutti i materiali
*info/bus per la manifestazione di Milano: 3297856389 - 3496705097
Cercheremo di evitare la retorica e provare a dire – a differenza delle televisioni, dei politici, dei giornali – le cose come stanno per davvero. Proveremo a dire la verità nella sua crudezza, partendo da qualche dato di fatto.
1. Il primo dato di fatto è questo, risaputo, ma da ripetere sempre: quella che va avanti dal 2007 è la più grande crisi del capitalismo. A detta di qualsiasi esperto è una crisi più profonda e più estesa di quella del ‘29 o del ‘71: è la prima crisi del mondo globalizzato. Questo dato, se assunto fino in fondo, ci fa capire che viviamo una svolta epocale. I padroni e le classi dominanti lo hanno compreso bene, infatti dopo un piccolo sbandamento iniziale si sono messe d’accordo e, mostrando una grande unità sovranazionale hanno concertato e spietatamente applicato una serie di politiche e di “riforme” volte a tentare di far ripartire il capitalismo. Politiche che, negli USA come in Europa, vanno ancora di più ad attaccare diritti e salari, a tagliare ogni forma di spesa sociale, a estrarre sempre più valore dal lavoro e a ingrassare sempre di più i profitti. Ovviamente facendo passare tutto questo per “modernizzazione”. I lavoratori al momento non sono stati capaci di unificare a livello internazionale una adeguata risposta.
2. L’altro dato di fatto è che l’Italia era maggiormente “esposta” rispetto ad altri paesi alle conseguenze della crisi, a causa di un decennio di crescita pressoché nulla, di un debito pubblico elevato, di governi da operetta… Per far passare le politiche del capitale ci voleva dunque uno stato di emergenza, bisognava chiamare un uomo delle banche e dell’Unione Europea, instaurare un governo “tecnico” che facesse le “riforme” nel consenso generale, che sbrigasse quelle direttive che nessuno voleva o poteva eseguire per non perdere voti. Per questo non c’è niente di “tecnico” o di “neutrale” in un governo del genere: basterebbe vedere i termini usati nei confronti dei governati. Se i giovani sono stati etichettati come “sfigati”, “mammoni”, gli si è rinfacciata una scarsa intelligenza, visto che pretendono un posto fisso che è “noioso”, i lavoratori li si è chiamati “ladri” e “fannulloni”, che non meritano la “paccata” di miliardi che il Governo generosamente sta per elargire. È il lessico del più bieco odio di classe.
Ovviamente non ci si è limitati agli insulti, e quindi ecco altri dati di fatto. In pochi mesi il Governo Monti ha messo in cantiere:
- la riforma delle pensioni, pesantissima, che allunga l’età lavorativa fino a 66/70 anni e blocca anche l’entità degli assegni;
- le liberalizzazioni, che in barba alla volontà popolare, che si è manifestata l’anno scorso con il referendum sull’acqua, puntano a dare ai privati la gestione del servizi pubblici;
- l’inserimento nella Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio, il fiscal compact, i tagli e i vincoli alle amministrazioni locali ed alle regioni, che impediscono che i fondi vengano utilizzati per le spese sociali, per la sanità, i trasporti;
- e ancora si procede spediti con le spese militari e con la TAV, incuranti del disastro ambientale ed umano che questa provocherà.
Infine, la riforma del mercato del lavoro. Una riforma che loro dicono essere pensata per la “crescita” del Paese, resa impossibile da alcune “rigidità”. Quali sarebbero queste rigidità? L’articolo 18. Abolirlo vorrebbe dire poter ricattare i lavoratori, spingerli a faticare di più, a produrre di più, in qualsiasi condizione, a disciplinarli cacciando via quelli che osano protestare. Riuscire su questo punto per il Governo sarebbe importantissimo: potrebbero dimostrare all’Unione europea e ai capitalisti stranieri che in Italia si può venire a investire, perché oramai i lavoratori non contano nulla, non fanno più paura. Per loro l’articolo 18 è anche un totem da distruggere e, per farlo, sono disposti a mobilitare ogni risorsa, a pagare opinionisti, politici, e persino dirigenti sindacali. Per questo provano a trasformare il sindacato, a renderlo agenzia di servizi. E il sindacato, CGIL compresa, mostra accondiscendenza, accentuando i suoi tratti leaderistici e burocratici. Da mesi infatti la dirigenza della CGIL non fa partecipare le minoranze interne alle scelte: la Camusso pretende carta bianca.
Questi i dati di fatto, questo il perimetro in cui ci troviamo a muoverci. Un perimetro reso ancora più stretto dalla repressione, che si è fatta durissima. Siccome si è dichiarato lo stato di emergenza, siccome al Governo viene tributato un consenso bipartisan, a chiunque osi protestare si applicano misure severissime. Non solo le manganellate e le denunce, ma perquisizioni, veri e propri arresti preventivi, teoremi accusatori, campagne di criminalizzazioni mediatiche. Sapevamo che la crisi è una guerra, ma non ci aspettavamo di essere sotto la legge marziale!
3. Anche per questo il comitato promotore del 31 marzo ha deciso di lanciare la manifestazione nazionale del 31 qui a Napoli. Non solo per unire idealmente nella protesta contro il Governo Monti il Nord e il Sud; non solo perché il Sud patisce più del resto del Paese queste misure di impoverimento. Ma perché il nostro territorio è stato ed è un laboratorio di sperimentazioni repressive. Pensiamo a quando qualche anno fa le discariche furono dichiarate zona militare, sottoponendo chi protestava a Chiaiano, a Terzigno etc. ad una legislazione speciale. Pensiamo alla situazione dei disoccupati napoletani, un’esperienza storica, un patrimonio di questa città, che in questi mesi stanno cercando di cancellare. Anche qui assistiamo ad un passaggio epocale: da una repressione che si muoveva secondo logiche conosciute, che metteva a disposizione mediazioni, passaggi, dilazioni, che permettevano una certa agibilità ai movimenti, ora vediamo questi movimenti trattati come “associazioni a delinquere”, messi alla stregua di camorristi solo perché con il loro agire associato tenterebbero di influenzare le scelte degli amministratori. Pensiamo alle ultime perquisizioni al Centro Studi Libertari “Louise Michel” legate alle denunce per le manifestazioni a Napoli in solidarietà ai compagni arrestati per la lotta contro il TAV.
Ma mettersi insieme e pretendere risposte dalla politica è il proprio della democrazia. Impedire questo vuol dire attaccare il diritto stesso a mobilitarsi, dire che l’unica possibilità di partecipazione che i cittadini hanno è quella che possono esercitare attraverso il voto ogni cinque anni. Il resto del tempo, nessuno disturbi il manovratore!
Ma la repressione non si manifesta solo con i manganelli e le carte del tribunale. Semplicemente, chi viene etichettato come soggetto pericoloso non viene proprio considerato. A Pomigliano, la FIAT non riassume gli operai con la tessera della FIOM: è peggio di quello che già avevano vissuto le avanguardie di lotta dello SLAI quando furono deportate nei reparti confino. Quelli che invece sono entrati, sono costretti ad umiliarsi, ad ammettere i propri sbagli davanti ai capi, a giurare di fare i bravi. Tutto questo mentre negli altri posti di lavoro vige un terrore sottile: se sbagli, se parli, sei fuori. E non c’è peggiore repressione, non c’è peggiore violenza di far vivere la gente senza lavoro. È questo quello che sta succedendo al nostro Sud, soggetto a crisi occupazionali, a speculazioni, a processi di de-industrializzazione che lo stanno trasformando in un deserto, buono solo a prendersi i voti, prelevarci le tasse, e farci mangiare qualche cordata clientelare. Un deserto da cui, non a caso, i giovani scappano.
4. Ma allora che fare? Per prima cosa dobbiamo rifiutare il loro piano di discorso, la loro crescita. Perché la crescita, in questo modo di produzione, vuol dire sempre e solo crescita dello sfruttamento. Per noi è inaccettabile che si tratti sui diritti. Non perché siamo conservatori, al contrario, perché noi questi diritti li vogliamo estendere. Sono loro che vogliono tornare all’Ottocento o ad una sorta di medioevo con le telecamere e la polizia informatica. Se portassimo questa logica del cedere diritti a livello mondale ci metteremmo in una competizione al ribasso senza fine. Assisteremmo ad uno spaventoso arretramento fino allo schiavismo. Dobbiamo rifiutare questo stato d’emergenza, il ricatto del debito, e dire: non vogliamo pagare noi il vostro debito. Non toccate scuola, sanità, pensioni, salari… Andatevi a prendere i soldi da altre classi, noi abbiamo già dato.
E veramente noi abbiamo già dato! Anche qui ci sono i dati di fatto: più di 2 milioni e trecentomila disoccupati, quasi mezzo milione in cassa integrazione, un altro milione che ha semplicemente rinunciato, che non è né in un percorso lavorativo né in formazione. E l’assurdità è che il Governo va avanti, e tutto questo passa, senza che nel dibattito pubblico entri una voce alternativa. A quest’assurdità dobbiamo reagire: cosa aspettiamo ancora? Dobbiamo rendere visibili le nostre esigenze e non le loro, imporre le nostre priorità, che sono quelle di tutti, e non le loro, che sono quelle di un’infima minoranza.
Per questo la data di Milano è importantissima. È la prima manifestazione politica contro il Governo Monti. Rappresenta la prima reazione di tutto il movimento dopo mesi, un primo momento di ricomposizione di una vera opposizione. È una manifestazione che, andando a Piazza Affari, tocca la Borsa e i centri nevralgici del potere finanziario. E ci va per dire, come farebbe Eduardo, non ti pago, non vi paghiamo!
Sappiamo che c’è sfiducia. Sappiamo che molti sono smarriti, molti ingannati, molti sono così preoccupati per la loro vita da non voler pensar ad altro. Ma la sfiducia è sempre stata vinta quando qualcuno ha dato l’esempio – e molti dei compagni presenti qui, i NO TAV, Dante de Angelis etc., sono degli esempi. Quando qualcuno ha rotto il silenzio ed ha iniziato a crederci. E ci iniziamo a credere se constatiamo che non abbiamo alternative, o che le alternative saranno sempre meno e sempre più miserabili.
Il compito di quest’assemblea, il compito del 31 marzo è questo, dunque: produrre movimento e produrre organizzazione, che poi vuol dire molto banalmente connessione, darsi coraggio e forza a vicenda, coinvolgere altri. In questo senso vi proponiamo di ripartire e ricostruire insieme. E per questo speriamo di trovarvi tutti sulle strade che portano a Piazza Affari a Milano!
Comitato Occupyamo Piazza Affari - Napoli
Di seguito la relazione introduttiva dell'Assemblea pubblica (Napoli, 22 marzo 2012) di lancio della manifestazione Occupyamo Piazza Affari a Milano il 31 Marzo.
qui la pagina web della manifestazione, l'appello nazionale e tutti i materiali
*info/bus per la manifestazione di Milano: 3297856389 - 3496705097
Cercheremo di evitare la retorica e provare a dire – a differenza delle televisioni, dei politici, dei giornali – le cose come stanno per davvero. Proveremo a dire la verità nella sua crudezza, partendo da qualche dato di fatto.
1. Il primo dato di fatto è questo, risaputo, ma da ripetere sempre: quella che va avanti dal 2007 è la più grande crisi del capitalismo. A detta di qualsiasi esperto è una crisi più profonda e più estesa di quella del ‘29 o del ‘71: è la prima crisi del mondo globalizzato. Questo dato, se assunto fino in fondo, ci fa capire che viviamo una svolta epocale. I padroni e le classi dominanti lo hanno compreso bene, infatti dopo un piccolo sbandamento iniziale si sono messe d’accordo e, mostrando una grande unità sovranazionale hanno concertato e spietatamente applicato una serie di politiche e di “riforme” volte a tentare di far ripartire il capitalismo. Politiche che, negli USA come in Europa, vanno ancora di più ad attaccare diritti e salari, a tagliare ogni forma di spesa sociale, a estrarre sempre più valore dal lavoro e a ingrassare sempre di più i profitti. Ovviamente facendo passare tutto questo per “modernizzazione”. I lavoratori al momento non sono stati capaci di unificare a livello internazionale una adeguata risposta.
2. L’altro dato di fatto è che l’Italia era maggiormente “esposta” rispetto ad altri paesi alle conseguenze della crisi, a causa di un decennio di crescita pressoché nulla, di un debito pubblico elevato, di governi da operetta… Per far passare le politiche del capitale ci voleva dunque uno stato di emergenza, bisognava chiamare un uomo delle banche e dell’Unione Europea, instaurare un governo “tecnico” che facesse le “riforme” nel consenso generale, che sbrigasse quelle direttive che nessuno voleva o poteva eseguire per non perdere voti. Per questo non c’è niente di “tecnico” o di “neutrale” in un governo del genere: basterebbe vedere i termini usati nei confronti dei governati. Se i giovani sono stati etichettati come “sfigati”, “mammoni”, gli si è rinfacciata una scarsa intelligenza, visto che pretendono un posto fisso che è “noioso”, i lavoratori li si è chiamati “ladri” e “fannulloni”, che non meritano la “paccata” di miliardi che il Governo generosamente sta per elargire. È il lessico del più bieco odio di classe.
Ovviamente non ci si è limitati agli insulti, e quindi ecco altri dati di fatto. In pochi mesi il Governo Monti ha messo in cantiere:
- la riforma delle pensioni, pesantissima, che allunga l’età lavorativa fino a 66/70 anni e blocca anche l’entità degli assegni;
- le liberalizzazioni, che in barba alla volontà popolare, che si è manifestata l’anno scorso con il referendum sull’acqua, puntano a dare ai privati la gestione del servizi pubblici;
- l’inserimento nella Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio, il fiscal compact, i tagli e i vincoli alle amministrazioni locali ed alle regioni, che impediscono che i fondi vengano utilizzati per le spese sociali, per la sanità, i trasporti;
- e ancora si procede spediti con le spese militari e con la TAV, incuranti del disastro ambientale ed umano che questa provocherà.
Infine, la riforma del mercato del lavoro. Una riforma che loro dicono essere pensata per la “crescita” del Paese, resa impossibile da alcune “rigidità”. Quali sarebbero queste rigidità? L’articolo 18. Abolirlo vorrebbe dire poter ricattare i lavoratori, spingerli a faticare di più, a produrre di più, in qualsiasi condizione, a disciplinarli cacciando via quelli che osano protestare. Riuscire su questo punto per il Governo sarebbe importantissimo: potrebbero dimostrare all’Unione europea e ai capitalisti stranieri che in Italia si può venire a investire, perché oramai i lavoratori non contano nulla, non fanno più paura. Per loro l’articolo 18 è anche un totem da distruggere e, per farlo, sono disposti a mobilitare ogni risorsa, a pagare opinionisti, politici, e persino dirigenti sindacali. Per questo provano a trasformare il sindacato, a renderlo agenzia di servizi. E il sindacato, CGIL compresa, mostra accondiscendenza, accentuando i suoi tratti leaderistici e burocratici. Da mesi infatti la dirigenza della CGIL non fa partecipare le minoranze interne alle scelte: la Camusso pretende carta bianca.
Questi i dati di fatto, questo il perimetro in cui ci troviamo a muoverci. Un perimetro reso ancora più stretto dalla repressione, che si è fatta durissima. Siccome si è dichiarato lo stato di emergenza, siccome al Governo viene tributato un consenso bipartisan, a chiunque osi protestare si applicano misure severissime. Non solo le manganellate e le denunce, ma perquisizioni, veri e propri arresti preventivi, teoremi accusatori, campagne di criminalizzazioni mediatiche. Sapevamo che la crisi è una guerra, ma non ci aspettavamo di essere sotto la legge marziale!
3. Anche per questo il comitato promotore del 31 marzo ha deciso di lanciare la manifestazione nazionale del 31 qui a Napoli. Non solo per unire idealmente nella protesta contro il Governo Monti il Nord e il Sud; non solo perché il Sud patisce più del resto del Paese queste misure di impoverimento. Ma perché il nostro territorio è stato ed è un laboratorio di sperimentazioni repressive. Pensiamo a quando qualche anno fa le discariche furono dichiarate zona militare, sottoponendo chi protestava a Chiaiano, a Terzigno etc. ad una legislazione speciale. Pensiamo alla situazione dei disoccupati napoletani, un’esperienza storica, un patrimonio di questa città, che in questi mesi stanno cercando di cancellare. Anche qui assistiamo ad un passaggio epocale: da una repressione che si muoveva secondo logiche conosciute, che metteva a disposizione mediazioni, passaggi, dilazioni, che permettevano una certa agibilità ai movimenti, ora vediamo questi movimenti trattati come “associazioni a delinquere”, messi alla stregua di camorristi solo perché con il loro agire associato tenterebbero di influenzare le scelte degli amministratori. Pensiamo alle ultime perquisizioni al Centro Studi Libertari “Louise Michel” legate alle denunce per le manifestazioni a Napoli in solidarietà ai compagni arrestati per la lotta contro il TAV.
Ma mettersi insieme e pretendere risposte dalla politica è il proprio della democrazia. Impedire questo vuol dire attaccare il diritto stesso a mobilitarsi, dire che l’unica possibilità di partecipazione che i cittadini hanno è quella che possono esercitare attraverso il voto ogni cinque anni. Il resto del tempo, nessuno disturbi il manovratore!
Ma la repressione non si manifesta solo con i manganelli e le carte del tribunale. Semplicemente, chi viene etichettato come soggetto pericoloso non viene proprio considerato. A Pomigliano, la FIAT non riassume gli operai con la tessera della FIOM: è peggio di quello che già avevano vissuto le avanguardie di lotta dello SLAI quando furono deportate nei reparti confino. Quelli che invece sono entrati, sono costretti ad umiliarsi, ad ammettere i propri sbagli davanti ai capi, a giurare di fare i bravi. Tutto questo mentre negli altri posti di lavoro vige un terrore sottile: se sbagli, se parli, sei fuori. E non c’è peggiore repressione, non c’è peggiore violenza di far vivere la gente senza lavoro. È questo quello che sta succedendo al nostro Sud, soggetto a crisi occupazionali, a speculazioni, a processi di de-industrializzazione che lo stanno trasformando in un deserto, buono solo a prendersi i voti, prelevarci le tasse, e farci mangiare qualche cordata clientelare. Un deserto da cui, non a caso, i giovani scappano.
4. Ma allora che fare? Per prima cosa dobbiamo rifiutare il loro piano di discorso, la loro crescita. Perché la crescita, in questo modo di produzione, vuol dire sempre e solo crescita dello sfruttamento. Per noi è inaccettabile che si tratti sui diritti. Non perché siamo conservatori, al contrario, perché noi questi diritti li vogliamo estendere. Sono loro che vogliono tornare all’Ottocento o ad una sorta di medioevo con le telecamere e la polizia informatica. Se portassimo questa logica del cedere diritti a livello mondale ci metteremmo in una competizione al ribasso senza fine. Assisteremmo ad uno spaventoso arretramento fino allo schiavismo. Dobbiamo rifiutare questo stato d’emergenza, il ricatto del debito, e dire: non vogliamo pagare noi il vostro debito. Non toccate scuola, sanità, pensioni, salari… Andatevi a prendere i soldi da altre classi, noi abbiamo già dato.
E veramente noi abbiamo già dato! Anche qui ci sono i dati di fatto: più di 2 milioni e trecentomila disoccupati, quasi mezzo milione in cassa integrazione, un altro milione che ha semplicemente rinunciato, che non è né in un percorso lavorativo né in formazione. E l’assurdità è che il Governo va avanti, e tutto questo passa, senza che nel dibattito pubblico entri una voce alternativa. A quest’assurdità dobbiamo reagire: cosa aspettiamo ancora? Dobbiamo rendere visibili le nostre esigenze e non le loro, imporre le nostre priorità, che sono quelle di tutti, e non le loro, che sono quelle di un’infima minoranza.
Per questo la data di Milano è importantissima. È la prima manifestazione politica contro il Governo Monti. Rappresenta la prima reazione di tutto il movimento dopo mesi, un primo momento di ricomposizione di una vera opposizione. È una manifestazione che, andando a Piazza Affari, tocca la Borsa e i centri nevralgici del potere finanziario. E ci va per dire, come farebbe Eduardo, non ti pago, non vi paghiamo!
Sappiamo che c’è sfiducia. Sappiamo che molti sono smarriti, molti ingannati, molti sono così preoccupati per la loro vita da non voler pensar ad altro. Ma la sfiducia è sempre stata vinta quando qualcuno ha dato l’esempio – e molti dei compagni presenti qui, i NO TAV, Dante de Angelis etc., sono degli esempi. Quando qualcuno ha rotto il silenzio ed ha iniziato a crederci. E ci iniziamo a credere se constatiamo che non abbiamo alternative, o che le alternative saranno sempre meno e sempre più miserabili.
Il compito di quest’assemblea, il compito del 31 marzo è questo, dunque: produrre movimento e produrre organizzazione, che poi vuol dire molto banalmente connessione, darsi coraggio e forza a vicenda, coinvolgere altri. In questo senso vi proponiamo di ripartire e ricostruire insieme. E per questo speriamo di trovarvi tutti sulle strade che portano a Piazza Affari a Milano!
Comitato Occupyamo Piazza Affari - Napoli
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