di Marco D'Eramo - controlacrisi -
La marea spagnola
Ieri la Spagna ha incrociato le braccia ed è scesa in piazza. Ma quanti anni dovremo aspettare prima di poter scrivere che a proclamare lo sciopero generale e a invadere le piazze è stata l’Europa, non questo o quel paese?
Perché l’asimmetria è lampante. Da un lato c’è una destra europea che si muove all’unisono, con una concertazione continentale, con una meditata strategia transnazionale, con la tedesca Angela Merkel che fa campagna per il francese Nicolas Sarkozy: e non sottovalutiamo quest’appoggio elettorale, perché in esso vediamo il primo emergere di un vero partito conservatore europeo, di un’inedita dimensione partitica sovranazionale: in precedenza, a fare l’Europa erano stati Valéry Giscard d’Estaing (destra) ed Helmut Schmidt (socialdemocratico) e poi François Mitterrand (socialista) ed Helmut Kohl (democristiano), cioè Francia e Germania, non la destra o la sinistra delle due rive del Reno.
A questa nuova destra multinazionale – cui vanno iscritti d’ufficio l’inglese David Cameron, lo spagnolo Mariano Rajoy e il nostro Mario Monti – si dovrebbero contrapporre le diverse sinistre nazionali che invece si muovono ognuna per conto proprio e che, quando tentano un’iniziativa comune (come a Parigi il 17 marzo scorso), raggiungono tutt’al più una sintonia flebile e di facciata.
Stessa asimmetria sul terreno sociale. Da un lato i capitalisti o – come si ama dire oggi – «i mercati» che da anni sfruttano al meglio l’occasione della crisi economica per realizzare la «grande normalizzazione», per riportare la lancetta della storia a prima del 1929, per cancellare lo stato sociale e abrogare il compromesso tra capitale e lavoro. In Portogallo e in Spagna non ci sono articoli 18 da cancellare, ma il 23 marzo il Portogallo ha proclamato lo sciopero generale contro l’abolizione di ogni vincolo ai licenziamenti, e ieri è toccato alla Spagna protestare contro la flessibilità selvaggia che le è imposta; ma è sfuggito che mercoledì a scioperare contro la «riforma» delle pensioni erano gli insegnanti britannici che potranno ritirarsi solo a 68 anni, dopo aver pagato più contributi e ricevendo meno. Questi tre scioperi filmano a meraviglia quel che succede: da un lato una simultanea offensiva sovranazionale senza precedenti contro i diritti dei dipendenti salariati, dall’altro proteste slegate tra di loro e perciò destinate a soccombere.
Sia chiaro, è anche comprensibile la tentazione nazionalista o protezionista (come nel caso del candidato francese di sinistra Jean-Luc Mélenchon): mentre per la destra il potere non è solo quello dello stato ma anche quello del denaro che essa fiancheggia, l’unica leva di potere cui la sinistra può invece puntare è il controllo dell’apparato dello stato nazionale: se le rosicchiano anche quello, è inevitabile la sensazione di non avere in mano più niente tranne un guscio vuoto di sovranità. Per di più l’euro è una moneta unica che paradossalmente ha diviso invece di unire: ha esaltato le differenze e le irriducibilità tra i vari paesi rendendo più difficile concordare le iniziative tra le diverse sinistre: basti vedere la – variegata, ancorché sostanziale – subalternità delle varie «socialdemocrazie» al patto di stabilità fiscale che viene fatto loro ingoiare.
Ma quella nazionalista è una tentazione illusoria e vana. Finché i nostri partiti non si convinceranno che il terreno dello scontro è l’ìntera Unione e non il singolo paese, la partita rimarrà truccata (come in una storica ballata di Giovanna Marini) e non ci si potrà poi stupire se i cosiddetti tecnocrati esercitano sui ruderi della politica un dispotismo non si sa quanto illuminato.
La marea spagnola
Ieri la Spagna ha incrociato le braccia ed è scesa in piazza. Ma quanti anni dovremo aspettare prima di poter scrivere che a proclamare lo sciopero generale e a invadere le piazze è stata l’Europa, non questo o quel paese?
Perché l’asimmetria è lampante. Da un lato c’è una destra europea che si muove all’unisono, con una concertazione continentale, con una meditata strategia transnazionale, con la tedesca Angela Merkel che fa campagna per il francese Nicolas Sarkozy: e non sottovalutiamo quest’appoggio elettorale, perché in esso vediamo il primo emergere di un vero partito conservatore europeo, di un’inedita dimensione partitica sovranazionale: in precedenza, a fare l’Europa erano stati Valéry Giscard d’Estaing (destra) ed Helmut Schmidt (socialdemocratico) e poi François Mitterrand (socialista) ed Helmut Kohl (democristiano), cioè Francia e Germania, non la destra o la sinistra delle due rive del Reno.
A questa nuova destra multinazionale – cui vanno iscritti d’ufficio l’inglese David Cameron, lo spagnolo Mariano Rajoy e il nostro Mario Monti – si dovrebbero contrapporre le diverse sinistre nazionali che invece si muovono ognuna per conto proprio e che, quando tentano un’iniziativa comune (come a Parigi il 17 marzo scorso), raggiungono tutt’al più una sintonia flebile e di facciata.
Stessa asimmetria sul terreno sociale. Da un lato i capitalisti o – come si ama dire oggi – «i mercati» che da anni sfruttano al meglio l’occasione della crisi economica per realizzare la «grande normalizzazione», per riportare la lancetta della storia a prima del 1929, per cancellare lo stato sociale e abrogare il compromesso tra capitale e lavoro. In Portogallo e in Spagna non ci sono articoli 18 da cancellare, ma il 23 marzo il Portogallo ha proclamato lo sciopero generale contro l’abolizione di ogni vincolo ai licenziamenti, e ieri è toccato alla Spagna protestare contro la flessibilità selvaggia che le è imposta; ma è sfuggito che mercoledì a scioperare contro la «riforma» delle pensioni erano gli insegnanti britannici che potranno ritirarsi solo a 68 anni, dopo aver pagato più contributi e ricevendo meno. Questi tre scioperi filmano a meraviglia quel che succede: da un lato una simultanea offensiva sovranazionale senza precedenti contro i diritti dei dipendenti salariati, dall’altro proteste slegate tra di loro e perciò destinate a soccombere.
Sia chiaro, è anche comprensibile la tentazione nazionalista o protezionista (come nel caso del candidato francese di sinistra Jean-Luc Mélenchon): mentre per la destra il potere non è solo quello dello stato ma anche quello del denaro che essa fiancheggia, l’unica leva di potere cui la sinistra può invece puntare è il controllo dell’apparato dello stato nazionale: se le rosicchiano anche quello, è inevitabile la sensazione di non avere in mano più niente tranne un guscio vuoto di sovranità. Per di più l’euro è una moneta unica che paradossalmente ha diviso invece di unire: ha esaltato le differenze e le irriducibilità tra i vari paesi rendendo più difficile concordare le iniziative tra le diverse sinistre: basti vedere la – variegata, ancorché sostanziale – subalternità delle varie «socialdemocrazie» al patto di stabilità fiscale che viene fatto loro ingoiare.
Ma quella nazionalista è una tentazione illusoria e vana. Finché i nostri partiti non si convinceranno che il terreno dello scontro è l’ìntera Unione e non il singolo paese, la partita rimarrà truccata (come in una storica ballata di Giovanna Marini) e non ci si potrà poi stupire se i cosiddetti tecnocrati esercitano sui ruderi della politica un dispotismo non si sa quanto illuminato.
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