A poco più di sei mesi dalle elezioni, nella sinistra italiana si confrontano tre differenti strategie, che emergono chiaramente malgrado i continui diversivi e le chiacchiere tardo-estive. La prima è quella di chi lavora al modello-Syriza: distinzione netta dalla socialdemocrazia compromessa con le politiche di austerità, e scommessa sulla pasokizzazione (si perdoni l’improbabile neologismo) del Partito democratico, ossia sulla sua riduzione a forza minoritaria – come il Pasok greco, appunto. La seconda è quella di chi vuole un’alleanza progressista di governo che ricalchi l’esempio della coalizione socialisti-verdi alla guida oggi della Francia e, potenzialmente, dall’autunno del 2013 anche della Germania. La terza consiste nell’intesa «progressisti-moderati», nel nome di «comuni valori europeisti», difesa senza eccezione alcuna dall’intero gruppo dirigente del Pd (neolaburisti Fassina e Orfini inclusi).
Esistono molti modi per saggiare la tenuta e il valore di una strategia politica. Uno di questi può essere provare a verificare se le tendenze di cui si parla nei documenti dei partiti possano essere colte (magari anche solo debolmente) nella società. La politica non è certo una scienza esatta, perché il suo oggetto è una realtà – insegna Aristotele – «che non è necessariamente, ma per lo più». E tuttavia, è possibile parlare di «evidenze» che possono giustificare la validità delle prime due strategie: innanzitutto i referendum di giugno dello scorso anno, ma anche i risultati delle ultime due tornate amministrative. Alcuni dei quali, (Napoli e Palermo) possono essere portati a sostegno del modello-Syriza, mentre altri (Milano, Cagliari, Genova) a supporto di quello «franco-tedesco» (lo si chiami così per comodità). Nessuna evidenza, invece, sembra suffragare la strategia cara al Pd.
Si può anche tentare, in secondo luogo, di capire se alle parole corrispondano delle cose: se alle formule del linguaggio, cioè, corrispondano delle forze realmente esistenti. Ebbene, penso che si possa affermare che i «moderati» che stanno a cuore al gruppo dirigente democratico non esistono. Intendo dire che l’etichetta «moderato» senza ulteriori specificazioni non è attribuibile a nessun ente realmente esistente sullo scacchiere politico, essendo tale etichetta un attributo e non un sostantivo. Ci soccorre il giustamente fortunato libretto di Norberto Bobbio “Destra e sinistra”, nel quale si argomenta con cristallina chiarezza che la diade estremismo-moderatismo va ricondotta alle articolazioni interne dei diversi schieramenti, quello progressista (la sinistra) e quello conservatore (la destra). Nell’Italia contemporanea esistono sia una destra estremista (Berlusconi e la Lega) che una destra moderata (l’Udc, Monti e Montezemolo). Che si distinguono fra di loro non per i fini (le politiche neoliberiste), ma per i mezzi: tendenzialmente antidemocratici quelli impiegati dai primi, rispettosi delle regole costituzionali e dello spirito repubblicano quelli dei secondi.
Si potrebbe obiettare che la classificazione «moderato» sta, in realtà, ad indicare forze politiche democristiane e liberali. Ammesso – ma non concesso – che sia così, il discorso cambia poco: non si vuol certo dire che sia sempre e comunque impossibile che esistano coerenti e organiche alleanze fra la sinistra (d’estrazione operaia ed ecologista) e forze democristiane o liberali. Esistono significativi esempi storici: il governo del socialdemocratico Willy Brandt nella Germania federale dei primi anni settanta. Dopo il lungo e cupo dopoguerra all’insegna dell’egemonia del partito di Konrad Adenauer, socialdemocratici e liberali si incontrarono in un progetto politico volto a generare più spazi di democrazia e autodeterminazione delle persone («mehr Demokratie wagen», «osare più democrazia» fu lo slogan di Brandt), contro il paternalismo quasi-autoritario dei conservatori. Quell’esperienza rappresentò la riconciliazione della Germania con i valori della modernità, non ancora del tutto recuperati dopo la sconfitta del nazismo. Non mancarono problemi e contraddizioni (come la legislazione d’emergenza sul terrorismo), ma l’accordo fra socialdemocratici e liberali significò senza dubbio una vita migliore, più libera, per la maggioranza dei cittadini tedeschi.
Chiediamoci: i «liberali» italiani del nostro tempo sono in grado di offrire alle forze progressiste una sponda per un progetto che abbia, mutatis mutandis, caratteri analoghi a quelli del governo di Willy Brandt? Per un disegno di trasformazione del nostro Paese che punti a renderlo più laico e maturo, in cui ad arretrare non sia lo stato sociale ma lo stato paternalista: quello che norma i comportamenti che dovrebbero essere liberi, che impone modelli di famiglia ormai superati dal tempo, che punisce azioni che non danneggiano terzi (come farsi uno spinello), che restringe la libertà di movimento ai migranti, che impedisce di fatto il pluralismo culturale attraverso una più che discutibile gestione delle (scarse) risorse per produrre arte e conoscenza. No, i nostri «liberali» hanno a cuore esclusivamente la «libertà economica» dai proverbiali lacci e laccioli. Del tutto legittimo, ma certo in contrasto con il proposito di formare un progetto di governo con la sinistra coerente e credibile.
E i democristiani? In linea teorica, di nuovo, sarebbe perfettamente concepibile un’alleanza «rosso-bianca» fondata, questa volta, non tanto sul valore della libertà ma su quello della solidarietà. Forse gli omosessuali desiderosi di sposarsi come avviene nei paesi civili non porterebbero a casa granché, ma in un simile scenario è ragionevole pensare che il governo lavorerebbe a sradicare la povertà, a promuovere legami sociali al di fuori dai circuiti del mercato, a ridare dignità al mondo del lavoro, in una sorta di Kulturkampf contro gli spiriti animali del capitalismo e dell’individualismo possessivo. Niente a che vedere, insomma, con la cosiddetta «agenda Monti» di cui parlano i leader politici dell’attuale maggioranza. Ebbene, poniamoci anche qui la domanda se il partito democristiano realmente esistente, quello dello scaltro Pierferdinando Casini, potenziale alleato del Pd, offra questa possibilità. La risposta, ci sembra, è fin troppo semplice.
Esistono molti modi per saggiare la tenuta e il valore di una strategia politica. Uno di questi può essere provare a verificare se le tendenze di cui si parla nei documenti dei partiti possano essere colte (magari anche solo debolmente) nella società. La politica non è certo una scienza esatta, perché il suo oggetto è una realtà – insegna Aristotele – «che non è necessariamente, ma per lo più». E tuttavia, è possibile parlare di «evidenze» che possono giustificare la validità delle prime due strategie: innanzitutto i referendum di giugno dello scorso anno, ma anche i risultati delle ultime due tornate amministrative. Alcuni dei quali, (Napoli e Palermo) possono essere portati a sostegno del modello-Syriza, mentre altri (Milano, Cagliari, Genova) a supporto di quello «franco-tedesco» (lo si chiami così per comodità). Nessuna evidenza, invece, sembra suffragare la strategia cara al Pd.
Si può anche tentare, in secondo luogo, di capire se alle parole corrispondano delle cose: se alle formule del linguaggio, cioè, corrispondano delle forze realmente esistenti. Ebbene, penso che si possa affermare che i «moderati» che stanno a cuore al gruppo dirigente democratico non esistono. Intendo dire che l’etichetta «moderato» senza ulteriori specificazioni non è attribuibile a nessun ente realmente esistente sullo scacchiere politico, essendo tale etichetta un attributo e non un sostantivo. Ci soccorre il giustamente fortunato libretto di Norberto Bobbio “Destra e sinistra”, nel quale si argomenta con cristallina chiarezza che la diade estremismo-moderatismo va ricondotta alle articolazioni interne dei diversi schieramenti, quello progressista (la sinistra) e quello conservatore (la destra). Nell’Italia contemporanea esistono sia una destra estremista (Berlusconi e la Lega) che una destra moderata (l’Udc, Monti e Montezemolo). Che si distinguono fra di loro non per i fini (le politiche neoliberiste), ma per i mezzi: tendenzialmente antidemocratici quelli impiegati dai primi, rispettosi delle regole costituzionali e dello spirito repubblicano quelli dei secondi.
Si potrebbe obiettare che la classificazione «moderato» sta, in realtà, ad indicare forze politiche democristiane e liberali. Ammesso – ma non concesso – che sia così, il discorso cambia poco: non si vuol certo dire che sia sempre e comunque impossibile che esistano coerenti e organiche alleanze fra la sinistra (d’estrazione operaia ed ecologista) e forze democristiane o liberali. Esistono significativi esempi storici: il governo del socialdemocratico Willy Brandt nella Germania federale dei primi anni settanta. Dopo il lungo e cupo dopoguerra all’insegna dell’egemonia del partito di Konrad Adenauer, socialdemocratici e liberali si incontrarono in un progetto politico volto a generare più spazi di democrazia e autodeterminazione delle persone («mehr Demokratie wagen», «osare più democrazia» fu lo slogan di Brandt), contro il paternalismo quasi-autoritario dei conservatori. Quell’esperienza rappresentò la riconciliazione della Germania con i valori della modernità, non ancora del tutto recuperati dopo la sconfitta del nazismo. Non mancarono problemi e contraddizioni (come la legislazione d’emergenza sul terrorismo), ma l’accordo fra socialdemocratici e liberali significò senza dubbio una vita migliore, più libera, per la maggioranza dei cittadini tedeschi.
Chiediamoci: i «liberali» italiani del nostro tempo sono in grado di offrire alle forze progressiste una sponda per un progetto che abbia, mutatis mutandis, caratteri analoghi a quelli del governo di Willy Brandt? Per un disegno di trasformazione del nostro Paese che punti a renderlo più laico e maturo, in cui ad arretrare non sia lo stato sociale ma lo stato paternalista: quello che norma i comportamenti che dovrebbero essere liberi, che impone modelli di famiglia ormai superati dal tempo, che punisce azioni che non danneggiano terzi (come farsi uno spinello), che restringe la libertà di movimento ai migranti, che impedisce di fatto il pluralismo culturale attraverso una più che discutibile gestione delle (scarse) risorse per produrre arte e conoscenza. No, i nostri «liberali» hanno a cuore esclusivamente la «libertà economica» dai proverbiali lacci e laccioli. Del tutto legittimo, ma certo in contrasto con il proposito di formare un progetto di governo con la sinistra coerente e credibile.
E i democristiani? In linea teorica, di nuovo, sarebbe perfettamente concepibile un’alleanza «rosso-bianca» fondata, questa volta, non tanto sul valore della libertà ma su quello della solidarietà. Forse gli omosessuali desiderosi di sposarsi come avviene nei paesi civili non porterebbero a casa granché, ma in un simile scenario è ragionevole pensare che il governo lavorerebbe a sradicare la povertà, a promuovere legami sociali al di fuori dai circuiti del mercato, a ridare dignità al mondo del lavoro, in una sorta di Kulturkampf contro gli spiriti animali del capitalismo e dell’individualismo possessivo. Niente a che vedere, insomma, con la cosiddetta «agenda Monti» di cui parlano i leader politici dell’attuale maggioranza. Ebbene, poniamoci anche qui la domanda se il partito democristiano realmente esistente, quello dello scaltro Pierferdinando Casini, potenziale alleato del Pd, offra questa possibilità. La risposta, ci sembra, è fin troppo semplice.
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