di Maria R. Calderoni
Noi e la guerra. Anzi, le guerre. Sapete cos'è un peep show? «Il peep show in sostanza è un tipo di erotismo on the spot. Invece di noleggiare o scaricare un film porno, il cliente va in certi locali specializzati, acquista un gettone e assiste, per lo più dietro un vetro, alle evoluzioni sessuali di professionisti, singoli o in coppia».
Ebbene, qualcosa di analogo avviene nel campo delle nostre "guerre moderne", vi era sfuggito? «Ritengo che la copertura mediale delle guerre contemporanee sia strutturalmente simile a un peep show”. Una copertura che «presuppone un pubblico planetario il quale con la sua presenza in diretta, e anzi partecipante, rende possibile la messa in scena della violenza armata.
Ebbene, qualcosa di analogo avviene nel campo delle nostre "guerre moderne", vi era sfuggito? «Ritengo che la copertura mediale delle guerre contemporanee sia strutturalmente simile a un peep show”. Una copertura che «presuppone un pubblico planetario il quale con la sua presenza in diretta, e anzi partecipante, rende possibile la messa in scena della violenza armata.
Insomma un peep show militare globale».
Pressoché con questo incipit "inquietante", Alessandro Dal Lago nel suo nuovo libro - " Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà ", Cortina, pag. 220, € 13,50 - percorre e illustra la nostra colpevole inerzia e irresponsabilità davanti alle tante guerre che abbiamo guardato ma non "visto". Delle quali siamo stati spettatori, ma al di là del vetro.
Alessandro Dal Lago, professore di Sociologia della comunicazione all'Università di Genova, è un esperto del ramo, da anni si occupa di strategia militare e queste pagine sono insieme specialistiche ed emozionanti.
Tanto per cominciare, dobbiamo riflettere, come Foucault, «sul non detto o il deliberatamente taciuto di quella che si chiama "tradizione occidentale"». Volendo, anche "civiltà occidentale": dal momento che, appunto, «forse per la nostra supposta civiltà», noi saremmo «depositari di un senso della giustizia che va applicato mediante le nostre forze armate».
Quanti secoli ci separano dagli antichi romani? Tanti, ma non abbastanza da renderci troppo "diversi" da loro, su un certo terreno. Nel capitolo intitolato "La crudeltà degli antichi e dei moderni", l'autore descrive, con dovizia di riferimenti storici e letterari, «come si divertivano gli antichi romani»: i supplizi e le uccisioni atroci eseguiti in pubblico per il divertimento della plebe e dell'imperatore; le lotte all'ultimo sangue dei gladiatori ferocemente e grandiosamente allestite nei circhi straripanti di folla entusiasta. Già, anche nei libri di testo si è sempre glissato su «un aspetto della cultura di Roma antica: la ferocia o, meglio, la straordinaria indifferenza per la crudeltà».
Uccidere gli schiavi - considerati "strumenti parlanti" di una società basata sulla schiavitù - doveva sembrare legittimo, fisiologico (persino doveroso): in nome della legalità, della giustizia, della sicurezza e delle esigenze del potere (ci suona stranamente familiare...).
Noi moderni siamo certo diversi; ma, analizzando la nostra moderna, modernissima violenza bellica, si deve dire che ci troviamo di fronte «non già a un processo di incivilimento progressivo, ma a una differenziazione delle strategie di gestione della violenza e della spettacolarizzazione della violenza». Mutatis mutandis.
Molto toccanti i capitoli dedicati alle torture quando l'umanità è già arrivata alla fine del XVIII secolo («torace braccia e cosce gli furon squarciati. Nelle ferite gli fu versato pombo fuso. Lo cosparsero di olio bollente pece infuocata cera e zolfo. La mano gli fu bruciata via...», così per esempio venne torturato e ucciso a Parigi Damiens che aveva attentato alla vita di Luigi XV); alle esecuzioni capitali; alla Prima e Seconda guerra mondiale, quando quella stessa umanità ha già varcato il XX secolo («la massificazione di uomini e materiali, l'estensione dei fronti, la durezza incessante, il coinvolgimento di tutto ciò che è estraneo alla guerra, la terribilità crescente delle armi...»). Quando «nella guerra di trincea svanì qualsiasi idea positiva di progresso». Quando avvenne quello che Dal Lago racconta nel capitolo intitolato "l'incommensurabile". Perché «il Novecento è stato il secolo della guerra. Tutto quello che gli uomini si sono fatti da quando sono comparsi sulla terra, rimpicciolisce davanti ai più di cento milioni di morti del XX secolo, una cifra superiore alle vittime di tutte le guerre precedenti».
Guardiamo ma non "vediamo". «Volgere gli occhi da un'altra parte è oggi l'atteggiamento più diffuso davanti alla guerra». Nel XXI secolo, tra molto altro, l'Occidente ha infatti conquistato anche l'invisibilità" della guerra. «Dal 1991 ad oggi, i Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, hanno combattuto in tre continenti (Iraq, Bosnia, Somalia, Serbia, Afghanistan, ancora Iraq, Libia, Pakistan ecc), alla media di una guerra ogni due anni circa». Eppure, nessuno le ha "viste". «Al di là del clamore estemporaneo delle cronache, si direbbe "che non siamo mai in guerra"». Quanto alla voce degli sconfitti, «come sempre, è scomparsa con loro».
Nostre guerre "mai "viste". «Oggi, l'invisibilità delle guerre in cui l'Occidente è coinvolto è arrivata a vertici a dir poco surreali. Le guerre vengono combattute nella massima indifferenza di gran parte delle popolazioni occidentali e rimosse con straordinaria rapidità». E, «mentre da più parti - nel momento in cui sto terminando questo saggio - si parla di un attacco di Israele (e forse degli Stati Uniti) contro l'Iran e alcuni caldeggiano un intervento occidentale contro la Siria, nessuno si ricorda più della guerra aerea della NATO in Libia. Era solo la primavera del 2011 e sembra un secolo fa».
Del resto, ora non le chiamano più nemmeno guerre. Ora le chiamano «interventi di polizia globale», scusate la falsificazione.
Pressoché con questo incipit "inquietante", Alessandro Dal Lago nel suo nuovo libro - " Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà ", Cortina, pag. 220, € 13,50 - percorre e illustra la nostra colpevole inerzia e irresponsabilità davanti alle tante guerre che abbiamo guardato ma non "visto". Delle quali siamo stati spettatori, ma al di là del vetro.
Alessandro Dal Lago, professore di Sociologia della comunicazione all'Università di Genova, è un esperto del ramo, da anni si occupa di strategia militare e queste pagine sono insieme specialistiche ed emozionanti.
Tanto per cominciare, dobbiamo riflettere, come Foucault, «sul non detto o il deliberatamente taciuto di quella che si chiama "tradizione occidentale"». Volendo, anche "civiltà occidentale": dal momento che, appunto, «forse per la nostra supposta civiltà», noi saremmo «depositari di un senso della giustizia che va applicato mediante le nostre forze armate».
Quanti secoli ci separano dagli antichi romani? Tanti, ma non abbastanza da renderci troppo "diversi" da loro, su un certo terreno. Nel capitolo intitolato "La crudeltà degli antichi e dei moderni", l'autore descrive, con dovizia di riferimenti storici e letterari, «come si divertivano gli antichi romani»: i supplizi e le uccisioni atroci eseguiti in pubblico per il divertimento della plebe e dell'imperatore; le lotte all'ultimo sangue dei gladiatori ferocemente e grandiosamente allestite nei circhi straripanti di folla entusiasta. Già, anche nei libri di testo si è sempre glissato su «un aspetto della cultura di Roma antica: la ferocia o, meglio, la straordinaria indifferenza per la crudeltà».
Uccidere gli schiavi - considerati "strumenti parlanti" di una società basata sulla schiavitù - doveva sembrare legittimo, fisiologico (persino doveroso): in nome della legalità, della giustizia, della sicurezza e delle esigenze del potere (ci suona stranamente familiare...).
Noi moderni siamo certo diversi; ma, analizzando la nostra moderna, modernissima violenza bellica, si deve dire che ci troviamo di fronte «non già a un processo di incivilimento progressivo, ma a una differenziazione delle strategie di gestione della violenza e della spettacolarizzazione della violenza». Mutatis mutandis.
Molto toccanti i capitoli dedicati alle torture quando l'umanità è già arrivata alla fine del XVIII secolo («torace braccia e cosce gli furon squarciati. Nelle ferite gli fu versato pombo fuso. Lo cosparsero di olio bollente pece infuocata cera e zolfo. La mano gli fu bruciata via...», così per esempio venne torturato e ucciso a Parigi Damiens che aveva attentato alla vita di Luigi XV); alle esecuzioni capitali; alla Prima e Seconda guerra mondiale, quando quella stessa umanità ha già varcato il XX secolo («la massificazione di uomini e materiali, l'estensione dei fronti, la durezza incessante, il coinvolgimento di tutto ciò che è estraneo alla guerra, la terribilità crescente delle armi...»). Quando «nella guerra di trincea svanì qualsiasi idea positiva di progresso». Quando avvenne quello che Dal Lago racconta nel capitolo intitolato "l'incommensurabile". Perché «il Novecento è stato il secolo della guerra. Tutto quello che gli uomini si sono fatti da quando sono comparsi sulla terra, rimpicciolisce davanti ai più di cento milioni di morti del XX secolo, una cifra superiore alle vittime di tutte le guerre precedenti».
Guardiamo ma non "vediamo". «Volgere gli occhi da un'altra parte è oggi l'atteggiamento più diffuso davanti alla guerra». Nel XXI secolo, tra molto altro, l'Occidente ha infatti conquistato anche l'invisibilità" della guerra. «Dal 1991 ad oggi, i Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, hanno combattuto in tre continenti (Iraq, Bosnia, Somalia, Serbia, Afghanistan, ancora Iraq, Libia, Pakistan ecc), alla media di una guerra ogni due anni circa». Eppure, nessuno le ha "viste". «Al di là del clamore estemporaneo delle cronache, si direbbe "che non siamo mai in guerra"». Quanto alla voce degli sconfitti, «come sempre, è scomparsa con loro».
Nostre guerre "mai "viste". «Oggi, l'invisibilità delle guerre in cui l'Occidente è coinvolto è arrivata a vertici a dir poco surreali. Le guerre vengono combattute nella massima indifferenza di gran parte delle popolazioni occidentali e rimosse con straordinaria rapidità». E, «mentre da più parti - nel momento in cui sto terminando questo saggio - si parla di un attacco di Israele (e forse degli Stati Uniti) contro l'Iran e alcuni caldeggiano un intervento occidentale contro la Siria, nessuno si ricorda più della guerra aerea della NATO in Libia. Era solo la primavera del 2011 e sembra un secolo fa».
Del resto, ora non le chiamano più nemmeno guerre. Ora le chiamano «interventi di polizia globale», scusate la falsificazione.
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