di Valentino Parlato - Il Manifesto - controlacrisi
Il comunismo è un obiettivo di lungo periodo che richiede lavoro, organizzazione e cultura
Cara Rossana, dopo gli impegnati e utili interventi di Giorgio Ruffolo, Pierluigi Ciocca, Albergo Burgio, Mario Tronti e Luciana Castellina vorrei dire qualcosa anche io. Mi sembra d’obbligo. Il tuo scritto «Un esame di noi stessi», pubblicato il 18 febbraio, impone una seria riflessione sul nostro giornale, che da più di quarant’anni continua a definirsi «quotidiano comunista» e, ovviamente su di me e tutti quanti lavoriamo qui, se non da quarant’anni, da un bel po’ di tempo, e che ora siamo piuttosto nei guai e anche con la Cassa integrazione.
Pensando al giornale tu scrivi «la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra», e questo mi convince: siamo a qualcosa di più della crisi di un quotidiano nato nel 1971 in un contesto politico e sociale, e direi anche culturale, del tutto diverso da quello attuale. Allora ci scontravamo con il Pci ed era una fase di crescita della lotta operaia. In tutti i modi questa tua affermazione un po’ mi conforta: se il giornale va male non è solo colpa nostra (anche se rimane forte e deve crescere la nostra responsabilità).
Insomma si tratta di una crisi assai profonda e tu scrivi ancora «non è facile essere comunisti oggi; a più di trent’anni dal 1989. E, appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemo nel dirci comunisti ancora, o perché non lo si possa dire più». E ancora, si chiede e ci chiede «possiamo davanti a questo mutamento di scena conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971?». Cruciale mi pare l’interrogativo sugli strumenti di analisi. Insomma il capitalismo è sempre capitalismo, ma è cresciuto e anche cambiato: globalizzazione, finanziarizzazione sono due novità forti e complesse, specialmente la finanza che è diventata parecchio più complessa che ai tempi del buon Hilferding delle nostre letture giovanili. I cambiamenti sono profondi e complicati e anche in questo giornale occorre studiare e studiare: quel che scriviamo dovrà essere almeno contemporaneo.
Ma mi pare utile una considerazione sul presente. Le crisi capitalistiche hanno innanzitutto colpito, e duramente, il movimento operaio e la democrazia. Ricordo solo gli sbocchi di destra che ebbe in Europa la grande crisi del 1929. Il capitalismo in crisi diventa feroce. «L’autunno del capitalismo» è quasi sempre il duro inverno del proletariato. L’unico esempio, a mia memoria, di uscita a sinistra da una crisi è stato quello della Rivoluzione d’ottobre; ma in tutt’altro contesto; sconfitta militare e anche lotta armata.
Siamo in una situazione assai brutta, ma, come tu scrivi, la storia non è finita e c’è più di una ragione per continuare a dirsi comunisti e, aggiungerei con più ragioni che ai tempi di Marx. Vale qui ricordare che quando il capitalismo va in crisi, per sopravvivere chiede l’intervento pubblico, statale, che nega le sue ragioni di fondo e apre, non dico prospettive, ma lampeggiamenti, di gestione pubblica dell’economia. Dopo la crisi del ’29 e sotto il fascismo, in Italia nacque l’Iri, che era una negazione dell’economia privatistica e la direzione dell’Iri non fu affidata a un fascista.
È in questo contesto che rinascono e crescono le ragioni del comunismo, che, forse, probabilmente, saranno ancora sconfitte, ma saranno nuove testimonianze dell’irrinunciabilità del comunismo. La realizzazione del comunismo non è cosa facile, né realizzabile in tempi brevi. Anche la presa del potere (l’Urss insegna) non bastò a realizzare il comunismo. Pensiamo solo per quanti secoli è durata la schiavitù e come ancora permangono forme di schiavitù civilizzata. E pensiamo a quanti secoli ci sono voluti per la nascita del capitalismo. Il comunismo è un obiettivo di lungo periodo, è una trasformazione storica epocale, che si realizza anche attraverso l’acculturamento degli umani.
E, proprio perché non vedo e non ho mai visto il comunismo dietro l’angolo, penso che sia giusto sentirsi comunisti. Il che non deve portare a ridurre il dichiararsi comunista alle solitudini idealistiche, ma deve comportare lavoro, organizzazione, contributo alla formazione di una forza politica che abbia sulle proprie bandiere il comunismo. E così dovrebbe essere anche per un giornale. E, soprattutto per il nostro giornale, il manifesto.
Certamente la sua attuale crisi va in parallelo con la crisi della sinistra, ma che cosa scriviamo noi su questa crisi e su come fronteggiarla, su come dare avvio alla costruzione di una sinistra forte e unita? Attualmente il nostro giornale è fatto giorno per giorno (sarebbe utile una riunione settimanale di programmazione), coglie i fatti, ne dà il significato, ma manca di un programma di medio periodo, non apre campagne sulle quali muovere e orientare l’opinione pubblica, tentare di costruire la nuova sinistra. C’è la crisi, ne denunciamo i danni, ma non analizziamo a fondo, non ci sforziamo di individuare i punti di rottura sui quali unire e accrescere un’opinione, e quindi anche una forza di opposizione. Non basta denunciare i danni, senza cercare di individuare anche i terreni sui quali si possa formare la nuova sinistra. Anche la crisi – che certamente colpisce e indebolisce i lavoratori – tuttavia crea punti di rottura nel fronte avverso, sui quali si può formare una nuova forza. Insomma un «quotidiano comunista» deve anche lavorare e far emergere la nuova sinistra. E, a tal fine, può essere utile dare più attenzione e rilievo alla crisi di quelle forze (direi debolezze) che si dicono ancora di sinistra, ma anche loro in seria crisi.
Certo, ora si tratta soprattutto di sopravvivere, ma questa sopravvivenza esige, per realizzarsi, una forte riaffermazione della funzione politica e culturale di questo manifesto, che non è solo nostro.
All’articolo di Rossana Rossanda cui si fa riferimento nel testo sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2), Alberto Burgio (24/2), Mario Tronti (26/2) e Luciana Castellina (28/2)
Il comunismo è un obiettivo di lungo periodo che richiede lavoro, organizzazione e cultura
Cara Rossana, dopo gli impegnati e utili interventi di Giorgio Ruffolo, Pierluigi Ciocca, Albergo Burgio, Mario Tronti e Luciana Castellina vorrei dire qualcosa anche io. Mi sembra d’obbligo. Il tuo scritto «Un esame di noi stessi», pubblicato il 18 febbraio, impone una seria riflessione sul nostro giornale, che da più di quarant’anni continua a definirsi «quotidiano comunista» e, ovviamente su di me e tutti quanti lavoriamo qui, se non da quarant’anni, da un bel po’ di tempo, e che ora siamo piuttosto nei guai e anche con la Cassa integrazione.
Pensando al giornale tu scrivi «la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra», e questo mi convince: siamo a qualcosa di più della crisi di un quotidiano nato nel 1971 in un contesto politico e sociale, e direi anche culturale, del tutto diverso da quello attuale. Allora ci scontravamo con il Pci ed era una fase di crescita della lotta operaia. In tutti i modi questa tua affermazione un po’ mi conforta: se il giornale va male non è solo colpa nostra (anche se rimane forte e deve crescere la nostra responsabilità).
Insomma si tratta di una crisi assai profonda e tu scrivi ancora «non è facile essere comunisti oggi; a più di trent’anni dal 1989. E, appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemo nel dirci comunisti ancora, o perché non lo si possa dire più». E ancora, si chiede e ci chiede «possiamo davanti a questo mutamento di scena conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971?». Cruciale mi pare l’interrogativo sugli strumenti di analisi. Insomma il capitalismo è sempre capitalismo, ma è cresciuto e anche cambiato: globalizzazione, finanziarizzazione sono due novità forti e complesse, specialmente la finanza che è diventata parecchio più complessa che ai tempi del buon Hilferding delle nostre letture giovanili. I cambiamenti sono profondi e complicati e anche in questo giornale occorre studiare e studiare: quel che scriviamo dovrà essere almeno contemporaneo.
Ma mi pare utile una considerazione sul presente. Le crisi capitalistiche hanno innanzitutto colpito, e duramente, il movimento operaio e la democrazia. Ricordo solo gli sbocchi di destra che ebbe in Europa la grande crisi del 1929. Il capitalismo in crisi diventa feroce. «L’autunno del capitalismo» è quasi sempre il duro inverno del proletariato. L’unico esempio, a mia memoria, di uscita a sinistra da una crisi è stato quello della Rivoluzione d’ottobre; ma in tutt’altro contesto; sconfitta militare e anche lotta armata.
Siamo in una situazione assai brutta, ma, come tu scrivi, la storia non è finita e c’è più di una ragione per continuare a dirsi comunisti e, aggiungerei con più ragioni che ai tempi di Marx. Vale qui ricordare che quando il capitalismo va in crisi, per sopravvivere chiede l’intervento pubblico, statale, che nega le sue ragioni di fondo e apre, non dico prospettive, ma lampeggiamenti, di gestione pubblica dell’economia. Dopo la crisi del ’29 e sotto il fascismo, in Italia nacque l’Iri, che era una negazione dell’economia privatistica e la direzione dell’Iri non fu affidata a un fascista.
È in questo contesto che rinascono e crescono le ragioni del comunismo, che, forse, probabilmente, saranno ancora sconfitte, ma saranno nuove testimonianze dell’irrinunciabilità del comunismo. La realizzazione del comunismo non è cosa facile, né realizzabile in tempi brevi. Anche la presa del potere (l’Urss insegna) non bastò a realizzare il comunismo. Pensiamo solo per quanti secoli è durata la schiavitù e come ancora permangono forme di schiavitù civilizzata. E pensiamo a quanti secoli ci sono voluti per la nascita del capitalismo. Il comunismo è un obiettivo di lungo periodo, è una trasformazione storica epocale, che si realizza anche attraverso l’acculturamento degli umani.
E, proprio perché non vedo e non ho mai visto il comunismo dietro l’angolo, penso che sia giusto sentirsi comunisti. Il che non deve portare a ridurre il dichiararsi comunista alle solitudini idealistiche, ma deve comportare lavoro, organizzazione, contributo alla formazione di una forza politica che abbia sulle proprie bandiere il comunismo. E così dovrebbe essere anche per un giornale. E, soprattutto per il nostro giornale, il manifesto.
Certamente la sua attuale crisi va in parallelo con la crisi della sinistra, ma che cosa scriviamo noi su questa crisi e su come fronteggiarla, su come dare avvio alla costruzione di una sinistra forte e unita? Attualmente il nostro giornale è fatto giorno per giorno (sarebbe utile una riunione settimanale di programmazione), coglie i fatti, ne dà il significato, ma manca di un programma di medio periodo, non apre campagne sulle quali muovere e orientare l’opinione pubblica, tentare di costruire la nuova sinistra. C’è la crisi, ne denunciamo i danni, ma non analizziamo a fondo, non ci sforziamo di individuare i punti di rottura sui quali unire e accrescere un’opinione, e quindi anche una forza di opposizione. Non basta denunciare i danni, senza cercare di individuare anche i terreni sui quali si possa formare la nuova sinistra. Anche la crisi – che certamente colpisce e indebolisce i lavoratori – tuttavia crea punti di rottura nel fronte avverso, sui quali si può formare una nuova forza. Insomma un «quotidiano comunista» deve anche lavorare e far emergere la nuova sinistra. E, a tal fine, può essere utile dare più attenzione e rilievo alla crisi di quelle forze (direi debolezze) che si dicono ancora di sinistra, ma anche loro in seria crisi.
Certo, ora si tratta soprattutto di sopravvivere, ma questa sopravvivenza esige, per realizzarsi, una forte riaffermazione della funzione politica e culturale di questo manifesto, che non è solo nostro.
All’articolo di Rossana Rossanda cui si fa riferimento nel testo sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2), Alberto Burgio (24/2), Mario Tronti (26/2) e Luciana Castellina (28/2)
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