Riccardo Bellofiore - sinistrainrete -
Il magico mondo di Mario Monti
Certo, pare di vivere in uno strano meraviglioso mondo, con il ‘tecnico’ Mario Monti al governo del Paese. Il secondo ‘Super-Mario’ dopo l’originale: Mario Draghi ora al comando della Banca Centrale Europea. Intanto la nave europea affonda - talora sembra velocemente con un botto, talora più lentamente con un sospiro: qualcosa a metà tra la tragedia del Titanic e la farsa (tragica essa stessa) della Concordia. Da noi, l’entusiasmo lambisce lidi inattesi, da chi invita con il cuore in mano a ‘baciare il rospo’, a chi puntigliosamente elenca ‘pilastri della saggezza’. Tanto senno da dignitosa conversazione al bar, nutrito di stoica, o etica, cognizione della grave ‘necessità’ del momento, in una pretesa assenza di alternative.
Monti: che, se non fracassone come Sarkozy, pure proclama una certa simpatia per la tassa Tobin, e se solo potesse proporrebbe una vera patrimoniale. Quel Monti che, a veder bene, è guardato con una neanche tanto nascosta simpatia dalla multiforme galassia post-operaista. Fosse mai che la riforma del mercato del lavoro facesse uscire dalla bottiglia il genio del ‘reddito di esistenza’, ora nelle proclamazioni anche della Fiom? In volgare, non si tratta d’altro che di un qualche sostegno al lavoro precario, sempre più universalizzato. Un Monti che, udite udite, infila pure qualche considerazione sensata, che alcune/i di noi andavamo in realtà dicendo da un bel po’ di tempo (anche su queste pagine). Tipo: che le agenzie di rating mica hanno tutti i torti; che il problema è la crescita (anche se io preferirei dire, lo sviluppo); che la mera austerità non ci farà uscire dalla crisi - ma il suo ‘posto fisso’ non è quello di professore, non stupido, di economia?
Dunque, di che stupirsi? Quel Monti che non soltanto fa apparire - con il suo aplomb anglosassone e la sobrietà che gli calza come una seconda pelle - Angela Merkel e Nicholas Sarkozy, diciamocelo, un po’ volgarotti, riempiendoci così di italico orgoglio. Quel Monti che superficialmente dà l’impressione di avere doti inaspettate di politico, in grado di inserirsi come abile terzo nell’asse frastagliato tra Berlino e Parigi, proclamando ad alta voce alcune verità, e sparigliando i giochi.
Così, la sinistra oscilla tra una più o meno nascosta ammirazione e il ricorso all’argomento finale: che i tedeschi non ne azzeccano mai una.
Con tutta la sua bravura di tecnico sperimentato e di politico amatoriale Monti in fondo è ancora troppo interno al male dei mali, l’ossessione teutonica per il pareggio del bilancio pubblico, l’anti-inflazionismo della banca centrale, l’austerità nella crisi. Un novello Brüning: il cancelliere tedesco la cui austerità fece da preludio al nazismo. Molte cose tornano. Non tutte.
Helmut Schmidt al convegno della Spd (dicembre 2011)
Cerchiamo di vedere meglio. E aiutiamoci con due interventi di Helmut Schmidt, il cancelliere socialdemocratico, l’uno a distanza di un anno dall’altro. Li prenderò all’inverso, partendo dal più recente, il discorso del 4 dicembre 2011 a un convegno del Partito Socialdemocratico tedesco[1]. Discorso significativo, di alto respiro e spietata lucidità.
La difficoltà che Schmidt prende di petto è: quando la Germania diventerà un paese normale? Colloca la sua risposta lungo due assi. Il primo è l’impossibilità che ciò sia possibile nel breve-medio periodo: dato il peso della storia europea, ma in particolare date le responsabilità tedesche nella seconda Guerra dei Trent’anni, nella prima metà del secolo che si è appena chiuso. Responsabilità su cui Schmidt usa parole inequivoche che lo conducono ad affermare l’inopportunità che la forza materiale si traduca in egemonia politica: si potrebbe dire anche qui, peggio di un crimine, un errore.
Il secondo asse, che qui più ci interessa ma che va visto sullo sfondo del primo, è la sempre maggiore centralità economica della Germania, in un’Europa frammentata in una moltitudine di nazioni. Ricorda Schmidt che Churchill nel 1946 a Zurigo invitò i francesi a vivere in armonia con i tedeschi, e a fondare gli Stati Uniti d’Europa: non solo nell’ottica di una difesa dall’Unione Sovietica, ma anche nella previsione di una rapida ascesa economica della Germania dopo la ricostruzione. Analoghe le motivazioni di Schuman e Monnet, e poi De Gaulle.
Allora, come in tutta la fase successiva, non è l’idealismo a essere il motore della costruzione europea. Più cresceva la forza della Repubblica Federale Tedesca, più le altre nazioni coinvolte nel processo vedevano l’integrazione europea come una politica di assicurazione dalla tentazione di una maggiore potenza politica della Germania occidentale. In un mondo, peraltro, in cui la stessa divisione in blocchi agiva da limite, e l’aiuto atlantico dentro l’egemonia degli Stati Uniti era fattore essenziale e fondante della ripresa europea.
E’ qui che s’innesta, continua Schmidt, il lavoro della commissione Delors, che porterà al Trattato di Maastricht, così come il lungo e travagliato decennio degli anni Novanta (su cui tornerò velocemente più avanti). L’itinerario che porta all’istituzione dell’euro - come, ma ancor più, che la vicenda dell’integrazione postbellica europea - ha avuto come forza trascinante non tanto la Germania, ma la Francia. L’universo globale che abbiamo di fronte è in rapida mutazione, con una riduzione del peso relativo sia della popolazione che della produzione europee: nel 2050 la prima sarà il 7% e la seconda il 10% del pianeta (quest’ultima percentuale è inferiore di ben due terzi rispetto a un secolo prima).
La preoccupazione di Schmidt - di nuovo, in una logica aliena dai buoni sentimenti - è quella di contrastare la ‘marginalizzazione’, delle singole nazioni e dell’Europa tutta. Senza Comunità Europea un esito del genere è indubitabile. Sono i tedeschi coscienti dei loro doveri e dei loro interessi? Comprendono il sospetto e il timore che la loro azione e le loro parole suscitano oggi nei ‘vicini’? A queste domande dell’ex-cancelliere, la risposta pare poco tranquillizzante. «Non siamo coscienti che la nostra economia è altamente integrata nel mercato comune europeo e altamente globalizzata … Per questo negli anni a venire assisteremo ad esportazioni tedesche che non cresceranno più esponenzialmente».
Per Schmidt, come per i critici del modello ‘neo-mercantilista’ tedesco, gli avanzi sempre più vistosi nella bilancia commerciale come nelle partite correnti, la cui entità è pari ai surplus cinesi, non sono affatto i benvenuti. Destano anzi una viva preoccupazione. Sono l’altra faccia dei disavanzi di altre nazioni, e i crediti della Germania sono i loro debiti. Si tratta, testualmente, di un ‘danno indesiderabile’, di un vulnus portato a quello che una volta era l’ideale dell’equilibrio ‘esterno’: una ferita, dunque, che non può non innervosire i partner. Un fastidio che si aggrava quando voci esterne (in primis, gli Stati Uniti) insistono affinché la Germania prenda essa la posizione di testa di una via d’uscita alle difficoltà europee.
Lungo questa strada è pressoché inevitabile una reazione che porterebbe all’isolamento della Germania. E’ il calcolo politico, avverte Schmidt, che impone ai tedeschi un atteggiamento di ‘simpatia’, che rende loro interesse manifestare e praticare un’attiva volontà di aiuto verso i vicini dell’Unione Europea. E’, questo, anche il riconoscimento di una verità da non dimenticare: il ‘miracolo’ tedesco viene in larga misura da fuori: dall’aiuto delle potenze vittoriose, dall’alleanza atlantica, dalla inclusione nella Comunità Economica Europea, dall’aiuto degli altri paesi europei, dal crollo politico dell’Europa dell’Est europeo. E’ vero che la Germania ha versato e versa contributi all’Europa unita più di quanti ne abbia prelevati, mentre è vero il contrario per Grecia, Portogallo e Irlanda. Ma è chiaro, fa capire, Schmidt, che è bene che sia così. In fin dei conti è la Germania stessa che ne ha goduto i dividendi economici e politici.
Quando deve disegnare una via d’uscita, Schmidt si limita in realtà a pochi cenni. Essenzialmente, si tratta di muoversi lungo la linea di sfruttare il varco dell’articolo 20 del Trattato di Lisbona che consente a paesi dell’Unione di stabilire terreni di più stretta collaborazione. Schmidt ha qui in mente una più forte regolazione delle banche e della finanza: un po’ poco, in verità. Ma sa bene che è sicuro che «senza crescita, senza nuova occupazione, nessun paese può mettere in equilibrio il proprio bilancio. Chiunque ritenga che l’Europa possa tornare in salute limitandosi alle misure di austerità farà bene a studiarsi le conseguenze fatali delle politiche di deflazione di Heinrich Brüning nel 1930-32 [un paragone che, si è visto, è diventato quasi un luogo comune nei commentatori, nda]. Politiche che aprirono la strada alla depressione e a una disoccupazione di entità insopportabile, conducendo alla fine della prima democrazia tedesca».
Helmut Schmidt all’Handesblatt (dicembre 2010)
Alcuni di questi temi erano già nel secondo testo a cui faccio riferimento, una intervista a David Marsh sull’Handelsblatt del 7 dicembre del 2010 (pubblicato il giorno dopo anche su Le Monde)[2]. Schmidt sa bene che la Germania è - guarda un po’ - la prima responsabile dell’infrazione del Patto di Stabilità alla fine del primo decennio degli anni Duemila, come lo era stata nella crisi d’inizio decennio. Ciò, registra, non ha affatto incrinato la ‘cultura della stabilità’. Il pragmatismo nella crisi si accompagna a un’assenza di autentica preveggente leadership, a governanti ignoranti delle più basilari dinamiche economiche. Pragmatismo e ottusità, possiamo aggiungere, più che un’ottusa riaffermazione di una linea tedesca di lungo termine, determinano una nuova politica sperimentale e talora abborracciata, del giorno per giorno. La pretesa, o la miope accettazione, di un ruolo accresciuto in Europa va a braccetto con la ricerca del consenso interni: di qui l’oscillazione tra industriali e banche, dunque gli scontri, ma anche la dipendenza, dalla Bundesbank: i cui rappresentanti Schmidt qualifica senza mezzi termini come ‘reazionari’ contro l’integrazione europea.
Il peccato originale di Maastricht fu, per l’ex cancelliere, di non aver preso la via di un ‘cuore’ europeo ristretto, con regole più rigide e precise, dunque più vincolanti: non semplici ‘accordi’ come il Patto di Stabilità. Schmidt qui vede benissimo non solo l’accumularsi ‘cinese’ degli avanzi tedeschi, ma anche come, essendo la Germania immersa nell’Europa, ciò ha rallentato la rivalutazione dell’euro (rispetto a quanto sarebbe avvenuto con il marco), cioè della valuta da cui dipendono le esportazioni nette del suo paese. Si sono così evitati uno o due violenti attacchi speculativi di segno inverso a quelli portati contro la Grecia e l’Irlanda.
Questo hard core dell’Unione Europea dentro la moneta unica dovrebbe comprendere, a suo parere, Francia, Germania, Olanda (e più in generale il Benelux); «non sono sicuro per quanto riguarda l’Italia», ne sarebbe esclusa la Gran Bretagna (ma per sua scelta), ma includerebbe probabilmente Austria, Danimarca e Svezia. Per convincere la Francia, ricorda il proprio atteggiamento di una vita: «Ho fatto sempre avanzare i francesi sul tappeto rosso prima di me».
Benché Schmidt travesta la ‘selezione’ di questo nucleo di una razionalità soprattutto politica, ciò che ne risulta corrisponde con precisione millimetrica proprio ai confini dell’area esportatrice netta nel continente europeo. Sui ‘profitti’ da esportazione netta nel medio-lungo termine, l’ex cancelliere è d’altronde alquanto scettico: «Vendi beni e ottiene indietro carta, carta che sarà svalutata prima o poi, e dovrai cancellare dai bilanci: così sottrai alla tua nazione beni che si sarebbero potuti consumare».
Ho dedicato molto spazio alla ricostruzione del pensiero di Helmut Schmidt, perché indicativo di un pensiero ‘borghese’ alto sull’Europa nella crisi. La lucidità della visione non cancella il suo orizzonte ristretto. L’agenda dei problemi è in larga misura corretta, se si guarda dall’orizzonte del ‘politico’. Non però il modo con cui vengono affrontati. Le misure contro la crisi sono quasi tutte sul piano del controllo della ‘cattiva’ finanza. La critica al neomercantilismo del Centro-Nord Europa, spogliata di un qualche pudore nella sua formulazione, non pare andare fino in fondo. Prelude a un’Europa a due velocità anche sul terreno valutario, e non si pone il problema di un nuovo motore della crescita.
Al di là di quanto viene detto esplicitamente, il discorso del novantatreenne leader europeo pare coerente con la speranza di mantenere ancora ‘legata’ in un pur più elastico accordo di cambio la periferia europea al nucleo centrale, così da limitare la rivalutazione conseguente dell’area dell’euro forte, e mantenere ancora in vita il modello incentrato esportazioni nette all’interno dell’Europa. E fuori d’Europa, come vede bene un anno dopo lo stesso Schmidt, la sensazione tedesca di essersi parzialmente emancipati dal mercato europeo esportando in Cina e nei paesi emergenti si rivelerà probabilmente una pericolosa illusione: se ne sentono già gli scricchiolii. Se non le esportazioni nette, cosa può trascinare le economie europee fuori dalla stagnazione? Schmidt non pare affatto prefigurare un forte intervento pubblico come soluzione. Soprattutto, la transizione dallo stato attuale a quello da lui desiderato si presenta come una via che passa per l’inferno. Era chiaro già un anno fa. Le crescenti tensioni in Europa lo mostrano con l’evidenza dei fatti.
Tecnocrazia versus populismi, capitale versus democrazia
Quella di Schmidt è solo una delle strategie che paiono aperte all’Unione Europea per sopravvivere alla crisi dell’euro. In un’Europa che è ancora più frantumata degli assi che individuavamo Joseph Halevi e chi scrive anni fa nel nostro intervento al convegno di Rive Gauche ormai sette anni fa. Il polo franco-tedesco del manifatturiero di qualità e delle macchine avanzate, attorno a cui si aggreganoin primis Olanda, Belgio, Austria e Svizzera, con una periferia sempre più significativa ad Est, vede ora il lato francese in grave crisi di produttività, della banca e della finanza, e a ciò segue una debolezza cui corrisponde una marcata subalternità politica.
C’è poi, parte del club degli esportatori netti, il polo delle tecnologie hi-tech dei paesi scandinavi. Il polo anglosassone, l’Italia e la sua periferia povera, la Spagna con il Portogallo e la Grecia - ovvero gli altri tre poli, con la qualificazione che lo sviluppo spagnolo è stato trainato da una bolla immobiliare, e che l’Irlanda è protagonista della crisi senza autonomia della moneta e della banca centrale - sono in crisi verticale. La Gran Bretagna ha imboccato la via dell’uscita, il polo dell’Europa del Sud e l’Irlanda avrebbero bisogno dello sviluppo ma non hanno ‘voce’.
Come ha osservato Mark Leonard[3], direttore dell’European Council of Foreign Relations, si è perciò incancrenito un circolo vizioso tra deriva tecnocratica e reazione populista, che si è trasformata in una vera e propria spirale autoriproducentesi. L’esigenza del ‘rigore’ è stata portata avanti in nome di una razionalità tecnocratica, che ha sempre più eroso la fragile legittimazione della costruzione europea fuori da qualsiasi canale democratico, e a cui ha fatto da contraltare una critica populista da destra (e la resistenza di movimenti sociali di sinistra privi o di massa critica o di rappresentanza politica adeguata, o di entrambe).
Il circolo diviene una spirale per la necessità vitale che a questo punto ha la tecnocrazia di aggirare il problema del consenso in un’Europa in caduta libera. La vicenda greca e il caso italiano sono la dimostrazione palmare dell’esito (per ora) finale di questo processo, con la sostanziale espropriazione della sovranità politica democratica in Grecia e in Italia, dove al governo sono andati tecnici integralmente parte di quella stessa tecnocrazia. A conferma, se ce ne fosse stato bisogno, del contrasto profondo tra capitale e democrazia.
La messa in mora della democrazia è tanto più palese quanto, non solo le opposizioni interne (per lo meno quelle rappresentate in parlamento), ma anche eventuali governi ‘fuori linea’ rispetto a questa dinamica sono, o si sentono, obbligati, in nome dello ‘stato di necessità’, a rinserrare le fila del sostegno. Nella convinzione, priva di fondamento, che si aprano così spazi a politiche meno deflattive, a una austerità più soft, a un qualche ammorbidimento della posizione tedesca sugli eurobond, a un ulteriore prolungamento sostegno alla liquidità da parte della Bce, e così via (e lo stesso Mario Monti si fa portatore di questo discorso). Al più, come appunto nel quantitative easing in versione Mario Draghi, si ottengono misure necessarie a evitare la strozzature del credito, ma palliativi dal punto di vista di una ripresa dello sviluppo.
Il modo con cui l’Europa ha affrontato la sua crisi, politicamente, è stato prima quello di perseguire la via di una costruzione di nuove istituzioni di ‘salvataggio’, sempre troppo poco e sempre troppo tardi. Sul filo dell’invenzione di stratagemmi per stare al confine di quanto i trattati esistenti consentivano, e continuamente aggirando le proprie istanze politiche. Negli organismi disegnati per tamponare falle sempre più vistose, il potere si distribuisce (in contrasto alla antica saggezza, ricordata da Helmut Schmidt) secondo i contributi. Il procedere della crisi sta bloccando questa prima strada, e sta spingendo lungo la via di una più stretta unione ‘politica’.
Scartata l’ipotesi di un bilancio pubblico europeo in grado di prelevare risorse e gestire la spesa, e dunque che possa effettuare trasferimenti all’interno dell’Unione (un modo classico per gestire le disparità regionali), si è imboccata la strada di una modificazione dei trattati centrata su regole di bilancio non solo più rigide ma anche ‘costituzionalizzate’ in cambio degli aiuti. Dove è però chiaro che vi è cessione politica a un ‘centro’ in grado di commissariare i reprobi, senza alcuna reale condivisione. Una tendenza che si scontrerà con la dura materialità di una crisi che viene soltanto aggravata dalle misure di austerità.
Dalla dialettica neo-liberismo/social-liberismo, a un governo liberista
Qui, come è evidente, i commentatori che hanno visto in Monti una alternativa hanno preso lucciole per lanterne. Mi capitò anni fa di distinguere neo-liberisti e social-liberisti. Nessuno veramente ‘liberista’ fino in fondo. I neo-liberisti amano il libero mercato contro il lavoro: smantellando quanto rimane delle difese per i lavoratori nel mercato e nel processo di lavoro; e tagliando quanto più si può nel welfare. Sono però indifferenti alle posizioni di monopolio e, all’occorrenza, ai disavanzi nel bilancio dello Stato - e, infatti, in una certa misura, l’ultimo Tremonti, quello della borsa stretta e dei tagli lineari, si presenta(va) come un ‘prigioniero politico’ dell’Europa.
I social-liberisti sono invece di cuore tenero, fautori in astratto di un welfare universalistico, e cantori di una flessibilità che non scivoli in precarietà. Epperò molto più liberisti dei neo-liberisti: a favore delle liberalizzazioni, incantati dal rigore del patto di stabilità e delle sue mutazioni. Entrambi gli indirizzi amano molto (ognuno a suo modo) le privatizzazioni e perfino hanno adorato (anche qui, ognuno a suo modo) la mano libera nei mercati finanziari, fino a che almeno la cosa non è stata troppo indecente.
Sono ideal-tipi i miei, per carità. Da prendere quindi con le pinze. Davano però ordine a comprendere quel che avveniva. Mi capitò allora di dire che i ‘liberisti’ li si trovava solo sulle colonne del Corriere della Sera. E francamente ritenevo, dopo le elezioni del 2008, che il ciclo economico-politico che si era instaurato negli anni Novanta - il succedersi di governi prima neo-liberisti (che spendono e spandono, ma incontrano anche un’opposizione sociale e poi politica che sempre più si coalizza) e poi social-liberisti (che non redistribuiscono un bel nulla per le preoccupazioni di bilancio pubblico, con la tanto attesa flessibilità che si incarna nella solita precarietà) - fosse terminato: per il suicidio del secondo corno di questa dialettica, per la sua progressiva e verticale perdita di consenso, a ogni giro minore. La stessa crisi globale del neo-liberismo veniva, in sostanza, gestita dai neoliberisti.
Il punto è che oggi l’editorialista principe del quotidiano milanese è al governo. Vero è che possiamo contare sull’entusiasmo del massimo editorialista del quotidiano concorrente. Nel passato gli ‘innamoramenti’ del fondatore di Repubblica non hanno portato un gran bene a coloro cui erano indirizzati. Come che sia, al governo è ora un ‘liberista’ vero, a tutto tondo. Senza né ‘neo’ né ‘social’ che inquinino la pulsione a far fare alla ‘concorrenza’, ovunque e più che si può, il benemerito lavoro ‘ottimizzante’ di stimolo all’efficienza e alla produttività che le sarebbe proprio. Al comando non ce l’ha messo il risorto ciclo economico-politico di cui dicevo. Non direttamente almeno: ce l’ha messo l’intervento ‘dall’alto’ del presidente della Repubblica, sull’onda di una crisi che ci aveva collocati (secondo l’opinione dei più) sull’orlo del baratro.
Che le politiche di Monti portino alla crescita, è però risibile. Che il nostro premier nella conferenza stampa di fine d’anno consigli alla Germania la liberalizzazione degli orari nei negozi, così anche lei crescerà di più, non fa neppure ridere: lascia attoniti (o abbiamo sottovalutato il sense of humour del nostro primo ministro). A ben vedere - anzi, anche al più distratto degli osservatori - è chiaro che è proprio in questo, nelle (timide) liberalizzazioni e nell’(aggressivo) attacco al lavoro si esaurisce sinora la politica della ‘crescita’ di Mario Monti, il famoso secondo atto della manovra.
Il diffondersi di posizioni contro l’austerità nei circoli capitalistici, che tanto ha colpito autorevoli commentatori della sinistra, non è affatto una novità. Posizioni moderatamente ‘espansive’ già avevano conquistato il Fondo Monetario Internazionale, con Dominique Strauss-Kahn e Olivier Blanchard. La novità sta nel fatto che il problema ha cambiato scala dal 2008-2009, quando - chi più, chi meno - qualcosa aveva fatto contro la crisi, a partire dalla stessa Germania. Ora è l’Europa, un intero continente, che rischia di trascinare gli altri con sé in fondo al burrone, con la bufala dell’austerità quale condizione dell’espansione. L’Italia non fa davvero eccezione. E’ anzi allievo modello, come infatti rivendica Monti.
Le gelide battute del nostro primo ministro contro i lavoratori, assieme alla timidezza verso i poteri che contano, non hanno certo il coraggio delle critiche alle élite politiche e finanziarie di Helmut Schmidt. Monti, in quel coro, stona: al più porta un supplemento di buon senso quando vuole scaglionare nel tempo l’austerità, o quando ricorda che i tagli al bilancio devono essere accompagnati da politiche di crescita. Quello che però terrorizza è che pare davvero convinto che ‘liberalizzare, liberalizzare, liberalizzare’ in ogni mercato sia la politica espansiva di cui avremmo bisogno. Una versione riveduta e corretta del ‘liquidate, liquidate, liquidate’ di Andrew Mellon, segretario del Tesoro di Herbert Hoover nel 1932.
Verso la disintegrazione europea
Rimane la strada della ‘doppia’ Unione Europea di Helmut Schmidt. O nella versione politica di un’avanguardia di nazioni che avanzano più veloci sul terreno del coordinamento, o nella versione economica del doppio euro. Come ho anticipato, peraltro, è alquanto difficile separare la prima opzione dalla seconda. Difficile, ancora, che la prima non si materializzi nell’opposto di quanto si desidera, e cioè nell’erezione di barriere verso gli ‘esclusi’, che siano essi interni o esterni all’eurozona. Difficile, infine, che la seconda (discussa in circoli governativi tedeschi e non solo, come trapelò qualche mese fa) avvenga in modo ‘ordinato’.
L’Ubs ha stimato che il costo di metter fuori Grecia, Portogallo, Irlanda sarebbe di gran lunga più elevato di una loro bancarotta. Se a uscire fosse la Spagna la sopravvivenza stessa dell’euro e della stessa Unione economica sarebbe forse a rischio, Il forse scompare se ad uscire fosse l’Italia. Un contagio di default sovrani, fallimenti bancari e un collasso dell’economia reale, fanno parte di questo scenario apocalittico. Se l’euro invece sopravviverà a quest’anno, come scrive Wolfgang Münchau, la previsione è di una stagnazione prolungata.
Certo, ci si può chiedere come si è arrivati qui, se si poteva fare altrimenti, cosa si potrebbe fare d’altro. Qui non posso che rimandare alle puntate trascorse dei miei articoli su alternative per il socialismo, e altrove[4]. Ho ricordato varie volte che il Trattato di Maastricht fu ancora figlio dell’Europa divisa in due. Faceva parte del progetto francese, nato da un’Europa divisa in due: con la Germania gigante economico, nano politico, despota della politica monetaria. Si voleva condividere il comando sulla moneta, ma si fu costretti a cedere sulle condizioni che la Bundesbank più che il governo tedesco o gli industriali pretendevano.
Lo ha ricordato recentemente Marcello De Cecco: «La Bundesbank l’euro non lo voleva e cercò di sollevare l’opinione pubblica contro di esso. Ma l’euro era il prezzo che i francesi pretesero per avallare la riunificazione, per tenere la Germania attaccata all’Europa occidentale e impedirle nuove avventure nazionalistiche […] La Bundesbank si ritirò allora su una posizione di ripiego, pretendendo che la banca centrale europea fosse fatta a sua immagine, e che il suo statuto addirittura accentuasse alcune caratteristiche monetariste che la Bundesbank era riuscita ad avere solo nella sua prassi, ma mai di diritto».[5]
Il punto è che gli alti tassi d’interesse imposti dal modo con cui il governo tedesco gestì la riunificazione fecero saltare in aria il Sistema Monetario Europeo, ma dunque anche Maastricht. Che il processo d’integrazione monetaria s sia rianimato a metà degli anni Novanta, che l’euro sia davvero nato, e che la moneta unica sia per un decennio parsa un esperimento di successo, è un miracolo che, ex post, si spiega facilmente. Fu conseguenza della debolezza tedesca nel primo decennio successivo alla riunificazione, quando la Germania eccezionalmente non ebbe affatto un avanzo delle partite correnti, e non figurava neanche così bene rispetto ai parametri da essa stessa voluti, ma intanto razionalizzava il proprio modello e ristrutturava contro il lavoro.
E fu merito della dinamica allora veloce del capitalismo anglosassone, con il suo ‘keynesismo privatizzato’ e il conseguente abbattimento non solo dell’inflazione ma anche dei tassi di interesse, che favorì gli stati indebitati candidati all’entrata nell’euro: nessuno ne restò fuori, e la Germania non poté che ripetere il gioco delle condizioni con il Patto di Stabilità di Dublino e Amsterdam. Dopo la moneta unica, l’abbattimento dei premi di rischio in Europa agì da gigantesco incentivo alla redistribuzione dei capitali verso la periferia d’Europa, che a sua volta accompagnava il rinnovato successo della deflazione competitiva tedesca.
Sicuramente sarebbe stata possibile un’altra via all’unificazione monetaria, non fondata su una moneta unica ma su una moneta comune alle banche centrali europee. In un disegno istituzionale più simile alle idee del Keynes 1944. Lasciando dunque margini per aggiustare i tassi di cambio a fronte di squilibri fondamentali, e imponendo che l’onere del riequilibrio cadesse anche sui paesi in avanzo commerciale, che avrebbero richiesto politiche espansive.
Certo, tutti ormai sappiamo che si sarebbe dovuta lasciare alla Banca Centrale Europea la funzione di finanziatore diretto dello Stato, e di prestatore d’ultima istanza. O meglio, dovremmo saperlo: ma c’è da dubitarne, visto che da sinistra c’è chi s’inventa come soluzione il non pagamento del debito (trasformando la crisi del debito sovrano in crisi bancaria e in catastrofe dell’unione). Certo, tutti sappiamo ormai che una convergenza puramente nominale produce l’aggravamento delle divergenze reali, a cui si potrebbe mettere rimedio solo con politiche strutturali che accelerino la produttività delle aree meno avanzate. O dovremmo saperlo: ma c’è da dubitarne, visto che da sinistra c’è chi s’inventa come soluzione che i salari tedeschi crescano come o più della produttività (traducendo così la divergenza di competitività in divergenza salariale).
Certo, tutti sappiamo che un’unione monetaria non è ottimale se non c’è un meccanismo di redistribuzione fiscale nell’area. O dovremmo saperlo: ma c’è da dubitarne, visto che l’azione della sinistra politica e sindacale rimane, al di là delle proclamazioni retorica, nazionale. E tutti dovremmo sapere che una via d’uscita dalla crisi, europea come globale, sta in un traino della spesa pubblica. O dovremmo saperlo: ma c’è da dubitarne, visto che quella sinistra di fatto si limita a invocare una mera redistribuzione. La critica dell’austerità si ferma ben prima di quella che sarebbe l’unica alternativa di sinistra all’altezza della più grande crisi dal Grande Crollo degli anni Trenta del secolo scorso: la promozione di disavanzi ‘buoni’ dello Stato, la socializzazione delle economie, un intervento su come, cosa, quanto e dove produrre, spinta dal basso, affinché sia imposta dall’alto.
L’Europa si trova, letteralmente, in un vicolo cieco, tanto sul versante delle dinamiche politiche che di quelle economiche. Che la crisi le sia caduta ‘dall’esterno’ è vero, eppure questo conta ormai poco tanto la sua inazione o i suoi ritardi hanno aggravato le cose. Conta di più che tutti ormai agiscano come se l’uscita dalla crisi debba essa stessa essere eterodiretta. Viste le dinamiche ormai pericolosamente disintegranti dell’Unione e dell’Eurozona, non c’è più Europa possibile se non grazie a soggetti sociali che ne facciano la condizione di una propria emancipazione e liberazione, e non di rivendicazione populista.
Non credo che il nodo sia tanto stare ‘dentro’ o ‘fuori’ il recinto, a rischio di un’oscillazione tra rivolta e subalternità. Occorrerebbe, invece, tornare a pensare fuori dalle compatibilità dell’esistente una nuova economia e una nuova politica. Intrecciare causazione ideale e causazione materiale, movimenti sociali e trasformazione della realtà. Una utopia, certamente. D’altra parte il compito di una sinistra degna di questo nome non è cancellare la sfida, ma affrontarla.
*Dipartimento di Scienze Economiche - Facoltà di Economia, Università di Bergamo
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[1] “Germany in and with Europe” Helmut Schmidt’s speech at the Social Democratic Party, che si trova facilmente in rete.
[2] “Wanted – political leadership in Europe”, Helmut Schmidt interview von David Marsh,
[3] "Four scenarios for the reinvention of Europe", European Council of Foreign Relations, cfr.
[4] Da ultimo si vedano La crisi globale. L’Europa, l’euro, la Sinistra e La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, editi entrambi da Asterios, Trieste 2012.
[5] “Quella lobby della Buba”, la Repubblica, supplemento Affari e Finanza, 23 gennaio 2012.
dalla rivista ALTERNATIVE PER IL SOCIALISMO
Il magico mondo di Mario Monti
Certo, pare di vivere in uno strano meraviglioso mondo, con il ‘tecnico’ Mario Monti al governo del Paese. Il secondo ‘Super-Mario’ dopo l’originale: Mario Draghi ora al comando della Banca Centrale Europea. Intanto la nave europea affonda - talora sembra velocemente con un botto, talora più lentamente con un sospiro: qualcosa a metà tra la tragedia del Titanic e la farsa (tragica essa stessa) della Concordia. Da noi, l’entusiasmo lambisce lidi inattesi, da chi invita con il cuore in mano a ‘baciare il rospo’, a chi puntigliosamente elenca ‘pilastri della saggezza’. Tanto senno da dignitosa conversazione al bar, nutrito di stoica, o etica, cognizione della grave ‘necessità’ del momento, in una pretesa assenza di alternative.
Monti: che, se non fracassone come Sarkozy, pure proclama una certa simpatia per la tassa Tobin, e se solo potesse proporrebbe una vera patrimoniale. Quel Monti che, a veder bene, è guardato con una neanche tanto nascosta simpatia dalla multiforme galassia post-operaista. Fosse mai che la riforma del mercato del lavoro facesse uscire dalla bottiglia il genio del ‘reddito di esistenza’, ora nelle proclamazioni anche della Fiom? In volgare, non si tratta d’altro che di un qualche sostegno al lavoro precario, sempre più universalizzato. Un Monti che, udite udite, infila pure qualche considerazione sensata, che alcune/i di noi andavamo in realtà dicendo da un bel po’ di tempo (anche su queste pagine). Tipo: che le agenzie di rating mica hanno tutti i torti; che il problema è la crescita (anche se io preferirei dire, lo sviluppo); che la mera austerità non ci farà uscire dalla crisi - ma il suo ‘posto fisso’ non è quello di professore, non stupido, di economia?
Dunque, di che stupirsi? Quel Monti che non soltanto fa apparire - con il suo aplomb anglosassone e la sobrietà che gli calza come una seconda pelle - Angela Merkel e Nicholas Sarkozy, diciamocelo, un po’ volgarotti, riempiendoci così di italico orgoglio. Quel Monti che superficialmente dà l’impressione di avere doti inaspettate di politico, in grado di inserirsi come abile terzo nell’asse frastagliato tra Berlino e Parigi, proclamando ad alta voce alcune verità, e sparigliando i giochi.
Così, la sinistra oscilla tra una più o meno nascosta ammirazione e il ricorso all’argomento finale: che i tedeschi non ne azzeccano mai una.
Con tutta la sua bravura di tecnico sperimentato e di politico amatoriale Monti in fondo è ancora troppo interno al male dei mali, l’ossessione teutonica per il pareggio del bilancio pubblico, l’anti-inflazionismo della banca centrale, l’austerità nella crisi. Un novello Brüning: il cancelliere tedesco la cui austerità fece da preludio al nazismo. Molte cose tornano. Non tutte.
Helmut Schmidt al convegno della Spd (dicembre 2011)
Cerchiamo di vedere meglio. E aiutiamoci con due interventi di Helmut Schmidt, il cancelliere socialdemocratico, l’uno a distanza di un anno dall’altro. Li prenderò all’inverso, partendo dal più recente, il discorso del 4 dicembre 2011 a un convegno del Partito Socialdemocratico tedesco[1]. Discorso significativo, di alto respiro e spietata lucidità.
La difficoltà che Schmidt prende di petto è: quando la Germania diventerà un paese normale? Colloca la sua risposta lungo due assi. Il primo è l’impossibilità che ciò sia possibile nel breve-medio periodo: dato il peso della storia europea, ma in particolare date le responsabilità tedesche nella seconda Guerra dei Trent’anni, nella prima metà del secolo che si è appena chiuso. Responsabilità su cui Schmidt usa parole inequivoche che lo conducono ad affermare l’inopportunità che la forza materiale si traduca in egemonia politica: si potrebbe dire anche qui, peggio di un crimine, un errore.
Il secondo asse, che qui più ci interessa ma che va visto sullo sfondo del primo, è la sempre maggiore centralità economica della Germania, in un’Europa frammentata in una moltitudine di nazioni. Ricorda Schmidt che Churchill nel 1946 a Zurigo invitò i francesi a vivere in armonia con i tedeschi, e a fondare gli Stati Uniti d’Europa: non solo nell’ottica di una difesa dall’Unione Sovietica, ma anche nella previsione di una rapida ascesa economica della Germania dopo la ricostruzione. Analoghe le motivazioni di Schuman e Monnet, e poi De Gaulle.
Allora, come in tutta la fase successiva, non è l’idealismo a essere il motore della costruzione europea. Più cresceva la forza della Repubblica Federale Tedesca, più le altre nazioni coinvolte nel processo vedevano l’integrazione europea come una politica di assicurazione dalla tentazione di una maggiore potenza politica della Germania occidentale. In un mondo, peraltro, in cui la stessa divisione in blocchi agiva da limite, e l’aiuto atlantico dentro l’egemonia degli Stati Uniti era fattore essenziale e fondante della ripresa europea.
E’ qui che s’innesta, continua Schmidt, il lavoro della commissione Delors, che porterà al Trattato di Maastricht, così come il lungo e travagliato decennio degli anni Novanta (su cui tornerò velocemente più avanti). L’itinerario che porta all’istituzione dell’euro - come, ma ancor più, che la vicenda dell’integrazione postbellica europea - ha avuto come forza trascinante non tanto la Germania, ma la Francia. L’universo globale che abbiamo di fronte è in rapida mutazione, con una riduzione del peso relativo sia della popolazione che della produzione europee: nel 2050 la prima sarà il 7% e la seconda il 10% del pianeta (quest’ultima percentuale è inferiore di ben due terzi rispetto a un secolo prima).
La preoccupazione di Schmidt - di nuovo, in una logica aliena dai buoni sentimenti - è quella di contrastare la ‘marginalizzazione’, delle singole nazioni e dell’Europa tutta. Senza Comunità Europea un esito del genere è indubitabile. Sono i tedeschi coscienti dei loro doveri e dei loro interessi? Comprendono il sospetto e il timore che la loro azione e le loro parole suscitano oggi nei ‘vicini’? A queste domande dell’ex-cancelliere, la risposta pare poco tranquillizzante. «Non siamo coscienti che la nostra economia è altamente integrata nel mercato comune europeo e altamente globalizzata … Per questo negli anni a venire assisteremo ad esportazioni tedesche che non cresceranno più esponenzialmente».
Per Schmidt, come per i critici del modello ‘neo-mercantilista’ tedesco, gli avanzi sempre più vistosi nella bilancia commerciale come nelle partite correnti, la cui entità è pari ai surplus cinesi, non sono affatto i benvenuti. Destano anzi una viva preoccupazione. Sono l’altra faccia dei disavanzi di altre nazioni, e i crediti della Germania sono i loro debiti. Si tratta, testualmente, di un ‘danno indesiderabile’, di un vulnus portato a quello che una volta era l’ideale dell’equilibrio ‘esterno’: una ferita, dunque, che non può non innervosire i partner. Un fastidio che si aggrava quando voci esterne (in primis, gli Stati Uniti) insistono affinché la Germania prenda essa la posizione di testa di una via d’uscita alle difficoltà europee.
Lungo questa strada è pressoché inevitabile una reazione che porterebbe all’isolamento della Germania. E’ il calcolo politico, avverte Schmidt, che impone ai tedeschi un atteggiamento di ‘simpatia’, che rende loro interesse manifestare e praticare un’attiva volontà di aiuto verso i vicini dell’Unione Europea. E’, questo, anche il riconoscimento di una verità da non dimenticare: il ‘miracolo’ tedesco viene in larga misura da fuori: dall’aiuto delle potenze vittoriose, dall’alleanza atlantica, dalla inclusione nella Comunità Economica Europea, dall’aiuto degli altri paesi europei, dal crollo politico dell’Europa dell’Est europeo. E’ vero che la Germania ha versato e versa contributi all’Europa unita più di quanti ne abbia prelevati, mentre è vero il contrario per Grecia, Portogallo e Irlanda. Ma è chiaro, fa capire, Schmidt, che è bene che sia così. In fin dei conti è la Germania stessa che ne ha goduto i dividendi economici e politici.
Quando deve disegnare una via d’uscita, Schmidt si limita in realtà a pochi cenni. Essenzialmente, si tratta di muoversi lungo la linea di sfruttare il varco dell’articolo 20 del Trattato di Lisbona che consente a paesi dell’Unione di stabilire terreni di più stretta collaborazione. Schmidt ha qui in mente una più forte regolazione delle banche e della finanza: un po’ poco, in verità. Ma sa bene che è sicuro che «senza crescita, senza nuova occupazione, nessun paese può mettere in equilibrio il proprio bilancio. Chiunque ritenga che l’Europa possa tornare in salute limitandosi alle misure di austerità farà bene a studiarsi le conseguenze fatali delle politiche di deflazione di Heinrich Brüning nel 1930-32 [un paragone che, si è visto, è diventato quasi un luogo comune nei commentatori, nda]. Politiche che aprirono la strada alla depressione e a una disoccupazione di entità insopportabile, conducendo alla fine della prima democrazia tedesca».
Helmut Schmidt all’Handesblatt (dicembre 2010)
Alcuni di questi temi erano già nel secondo testo a cui faccio riferimento, una intervista a David Marsh sull’Handelsblatt del 7 dicembre del 2010 (pubblicato il giorno dopo anche su Le Monde)[2]. Schmidt sa bene che la Germania è - guarda un po’ - la prima responsabile dell’infrazione del Patto di Stabilità alla fine del primo decennio degli anni Duemila, come lo era stata nella crisi d’inizio decennio. Ciò, registra, non ha affatto incrinato la ‘cultura della stabilità’. Il pragmatismo nella crisi si accompagna a un’assenza di autentica preveggente leadership, a governanti ignoranti delle più basilari dinamiche economiche. Pragmatismo e ottusità, possiamo aggiungere, più che un’ottusa riaffermazione di una linea tedesca di lungo termine, determinano una nuova politica sperimentale e talora abborracciata, del giorno per giorno. La pretesa, o la miope accettazione, di un ruolo accresciuto in Europa va a braccetto con la ricerca del consenso interni: di qui l’oscillazione tra industriali e banche, dunque gli scontri, ma anche la dipendenza, dalla Bundesbank: i cui rappresentanti Schmidt qualifica senza mezzi termini come ‘reazionari’ contro l’integrazione europea.
Il peccato originale di Maastricht fu, per l’ex cancelliere, di non aver preso la via di un ‘cuore’ europeo ristretto, con regole più rigide e precise, dunque più vincolanti: non semplici ‘accordi’ come il Patto di Stabilità. Schmidt qui vede benissimo non solo l’accumularsi ‘cinese’ degli avanzi tedeschi, ma anche come, essendo la Germania immersa nell’Europa, ciò ha rallentato la rivalutazione dell’euro (rispetto a quanto sarebbe avvenuto con il marco), cioè della valuta da cui dipendono le esportazioni nette del suo paese. Si sono così evitati uno o due violenti attacchi speculativi di segno inverso a quelli portati contro la Grecia e l’Irlanda.
Questo hard core dell’Unione Europea dentro la moneta unica dovrebbe comprendere, a suo parere, Francia, Germania, Olanda (e più in generale il Benelux); «non sono sicuro per quanto riguarda l’Italia», ne sarebbe esclusa la Gran Bretagna (ma per sua scelta), ma includerebbe probabilmente Austria, Danimarca e Svezia. Per convincere la Francia, ricorda il proprio atteggiamento di una vita: «Ho fatto sempre avanzare i francesi sul tappeto rosso prima di me».
Benché Schmidt travesta la ‘selezione’ di questo nucleo di una razionalità soprattutto politica, ciò che ne risulta corrisponde con precisione millimetrica proprio ai confini dell’area esportatrice netta nel continente europeo. Sui ‘profitti’ da esportazione netta nel medio-lungo termine, l’ex cancelliere è d’altronde alquanto scettico: «Vendi beni e ottiene indietro carta, carta che sarà svalutata prima o poi, e dovrai cancellare dai bilanci: così sottrai alla tua nazione beni che si sarebbero potuti consumare».
Ho dedicato molto spazio alla ricostruzione del pensiero di Helmut Schmidt, perché indicativo di un pensiero ‘borghese’ alto sull’Europa nella crisi. La lucidità della visione non cancella il suo orizzonte ristretto. L’agenda dei problemi è in larga misura corretta, se si guarda dall’orizzonte del ‘politico’. Non però il modo con cui vengono affrontati. Le misure contro la crisi sono quasi tutte sul piano del controllo della ‘cattiva’ finanza. La critica al neomercantilismo del Centro-Nord Europa, spogliata di un qualche pudore nella sua formulazione, non pare andare fino in fondo. Prelude a un’Europa a due velocità anche sul terreno valutario, e non si pone il problema di un nuovo motore della crescita.
Al di là di quanto viene detto esplicitamente, il discorso del novantatreenne leader europeo pare coerente con la speranza di mantenere ancora ‘legata’ in un pur più elastico accordo di cambio la periferia europea al nucleo centrale, così da limitare la rivalutazione conseguente dell’area dell’euro forte, e mantenere ancora in vita il modello incentrato esportazioni nette all’interno dell’Europa. E fuori d’Europa, come vede bene un anno dopo lo stesso Schmidt, la sensazione tedesca di essersi parzialmente emancipati dal mercato europeo esportando in Cina e nei paesi emergenti si rivelerà probabilmente una pericolosa illusione: se ne sentono già gli scricchiolii. Se non le esportazioni nette, cosa può trascinare le economie europee fuori dalla stagnazione? Schmidt non pare affatto prefigurare un forte intervento pubblico come soluzione. Soprattutto, la transizione dallo stato attuale a quello da lui desiderato si presenta come una via che passa per l’inferno. Era chiaro già un anno fa. Le crescenti tensioni in Europa lo mostrano con l’evidenza dei fatti.
Tecnocrazia versus populismi, capitale versus democrazia
Quella di Schmidt è solo una delle strategie che paiono aperte all’Unione Europea per sopravvivere alla crisi dell’euro. In un’Europa che è ancora più frantumata degli assi che individuavamo Joseph Halevi e chi scrive anni fa nel nostro intervento al convegno di Rive Gauche ormai sette anni fa. Il polo franco-tedesco del manifatturiero di qualità e delle macchine avanzate, attorno a cui si aggreganoin primis Olanda, Belgio, Austria e Svizzera, con una periferia sempre più significativa ad Est, vede ora il lato francese in grave crisi di produttività, della banca e della finanza, e a ciò segue una debolezza cui corrisponde una marcata subalternità politica.
C’è poi, parte del club degli esportatori netti, il polo delle tecnologie hi-tech dei paesi scandinavi. Il polo anglosassone, l’Italia e la sua periferia povera, la Spagna con il Portogallo e la Grecia - ovvero gli altri tre poli, con la qualificazione che lo sviluppo spagnolo è stato trainato da una bolla immobiliare, e che l’Irlanda è protagonista della crisi senza autonomia della moneta e della banca centrale - sono in crisi verticale. La Gran Bretagna ha imboccato la via dell’uscita, il polo dell’Europa del Sud e l’Irlanda avrebbero bisogno dello sviluppo ma non hanno ‘voce’.
Come ha osservato Mark Leonard[3], direttore dell’European Council of Foreign Relations, si è perciò incancrenito un circolo vizioso tra deriva tecnocratica e reazione populista, che si è trasformata in una vera e propria spirale autoriproducentesi. L’esigenza del ‘rigore’ è stata portata avanti in nome di una razionalità tecnocratica, che ha sempre più eroso la fragile legittimazione della costruzione europea fuori da qualsiasi canale democratico, e a cui ha fatto da contraltare una critica populista da destra (e la resistenza di movimenti sociali di sinistra privi o di massa critica o di rappresentanza politica adeguata, o di entrambe).
Il circolo diviene una spirale per la necessità vitale che a questo punto ha la tecnocrazia di aggirare il problema del consenso in un’Europa in caduta libera. La vicenda greca e il caso italiano sono la dimostrazione palmare dell’esito (per ora) finale di questo processo, con la sostanziale espropriazione della sovranità politica democratica in Grecia e in Italia, dove al governo sono andati tecnici integralmente parte di quella stessa tecnocrazia. A conferma, se ce ne fosse stato bisogno, del contrasto profondo tra capitale e democrazia.
La messa in mora della democrazia è tanto più palese quanto, non solo le opposizioni interne (per lo meno quelle rappresentate in parlamento), ma anche eventuali governi ‘fuori linea’ rispetto a questa dinamica sono, o si sentono, obbligati, in nome dello ‘stato di necessità’, a rinserrare le fila del sostegno. Nella convinzione, priva di fondamento, che si aprano così spazi a politiche meno deflattive, a una austerità più soft, a un qualche ammorbidimento della posizione tedesca sugli eurobond, a un ulteriore prolungamento sostegno alla liquidità da parte della Bce, e così via (e lo stesso Mario Monti si fa portatore di questo discorso). Al più, come appunto nel quantitative easing in versione Mario Draghi, si ottengono misure necessarie a evitare la strozzature del credito, ma palliativi dal punto di vista di una ripresa dello sviluppo.
Il modo con cui l’Europa ha affrontato la sua crisi, politicamente, è stato prima quello di perseguire la via di una costruzione di nuove istituzioni di ‘salvataggio’, sempre troppo poco e sempre troppo tardi. Sul filo dell’invenzione di stratagemmi per stare al confine di quanto i trattati esistenti consentivano, e continuamente aggirando le proprie istanze politiche. Negli organismi disegnati per tamponare falle sempre più vistose, il potere si distribuisce (in contrasto alla antica saggezza, ricordata da Helmut Schmidt) secondo i contributi. Il procedere della crisi sta bloccando questa prima strada, e sta spingendo lungo la via di una più stretta unione ‘politica’.
Scartata l’ipotesi di un bilancio pubblico europeo in grado di prelevare risorse e gestire la spesa, e dunque che possa effettuare trasferimenti all’interno dell’Unione (un modo classico per gestire le disparità regionali), si è imboccata la strada di una modificazione dei trattati centrata su regole di bilancio non solo più rigide ma anche ‘costituzionalizzate’ in cambio degli aiuti. Dove è però chiaro che vi è cessione politica a un ‘centro’ in grado di commissariare i reprobi, senza alcuna reale condivisione. Una tendenza che si scontrerà con la dura materialità di una crisi che viene soltanto aggravata dalle misure di austerità.
Dalla dialettica neo-liberismo/social-liberismo, a un governo liberista
Qui, come è evidente, i commentatori che hanno visto in Monti una alternativa hanno preso lucciole per lanterne. Mi capitò anni fa di distinguere neo-liberisti e social-liberisti. Nessuno veramente ‘liberista’ fino in fondo. I neo-liberisti amano il libero mercato contro il lavoro: smantellando quanto rimane delle difese per i lavoratori nel mercato e nel processo di lavoro; e tagliando quanto più si può nel welfare. Sono però indifferenti alle posizioni di monopolio e, all’occorrenza, ai disavanzi nel bilancio dello Stato - e, infatti, in una certa misura, l’ultimo Tremonti, quello della borsa stretta e dei tagli lineari, si presenta(va) come un ‘prigioniero politico’ dell’Europa.
I social-liberisti sono invece di cuore tenero, fautori in astratto di un welfare universalistico, e cantori di una flessibilità che non scivoli in precarietà. Epperò molto più liberisti dei neo-liberisti: a favore delle liberalizzazioni, incantati dal rigore del patto di stabilità e delle sue mutazioni. Entrambi gli indirizzi amano molto (ognuno a suo modo) le privatizzazioni e perfino hanno adorato (anche qui, ognuno a suo modo) la mano libera nei mercati finanziari, fino a che almeno la cosa non è stata troppo indecente.
Sono ideal-tipi i miei, per carità. Da prendere quindi con le pinze. Davano però ordine a comprendere quel che avveniva. Mi capitò allora di dire che i ‘liberisti’ li si trovava solo sulle colonne del Corriere della Sera. E francamente ritenevo, dopo le elezioni del 2008, che il ciclo economico-politico che si era instaurato negli anni Novanta - il succedersi di governi prima neo-liberisti (che spendono e spandono, ma incontrano anche un’opposizione sociale e poi politica che sempre più si coalizza) e poi social-liberisti (che non redistribuiscono un bel nulla per le preoccupazioni di bilancio pubblico, con la tanto attesa flessibilità che si incarna nella solita precarietà) - fosse terminato: per il suicidio del secondo corno di questa dialettica, per la sua progressiva e verticale perdita di consenso, a ogni giro minore. La stessa crisi globale del neo-liberismo veniva, in sostanza, gestita dai neoliberisti.
Il punto è che oggi l’editorialista principe del quotidiano milanese è al governo. Vero è che possiamo contare sull’entusiasmo del massimo editorialista del quotidiano concorrente. Nel passato gli ‘innamoramenti’ del fondatore di Repubblica non hanno portato un gran bene a coloro cui erano indirizzati. Come che sia, al governo è ora un ‘liberista’ vero, a tutto tondo. Senza né ‘neo’ né ‘social’ che inquinino la pulsione a far fare alla ‘concorrenza’, ovunque e più che si può, il benemerito lavoro ‘ottimizzante’ di stimolo all’efficienza e alla produttività che le sarebbe proprio. Al comando non ce l’ha messo il risorto ciclo economico-politico di cui dicevo. Non direttamente almeno: ce l’ha messo l’intervento ‘dall’alto’ del presidente della Repubblica, sull’onda di una crisi che ci aveva collocati (secondo l’opinione dei più) sull’orlo del baratro.
Che le politiche di Monti portino alla crescita, è però risibile. Che il nostro premier nella conferenza stampa di fine d’anno consigli alla Germania la liberalizzazione degli orari nei negozi, così anche lei crescerà di più, non fa neppure ridere: lascia attoniti (o abbiamo sottovalutato il sense of humour del nostro primo ministro). A ben vedere - anzi, anche al più distratto degli osservatori - è chiaro che è proprio in questo, nelle (timide) liberalizzazioni e nell’(aggressivo) attacco al lavoro si esaurisce sinora la politica della ‘crescita’ di Mario Monti, il famoso secondo atto della manovra.
Il diffondersi di posizioni contro l’austerità nei circoli capitalistici, che tanto ha colpito autorevoli commentatori della sinistra, non è affatto una novità. Posizioni moderatamente ‘espansive’ già avevano conquistato il Fondo Monetario Internazionale, con Dominique Strauss-Kahn e Olivier Blanchard. La novità sta nel fatto che il problema ha cambiato scala dal 2008-2009, quando - chi più, chi meno - qualcosa aveva fatto contro la crisi, a partire dalla stessa Germania. Ora è l’Europa, un intero continente, che rischia di trascinare gli altri con sé in fondo al burrone, con la bufala dell’austerità quale condizione dell’espansione. L’Italia non fa davvero eccezione. E’ anzi allievo modello, come infatti rivendica Monti.
Le gelide battute del nostro primo ministro contro i lavoratori, assieme alla timidezza verso i poteri che contano, non hanno certo il coraggio delle critiche alle élite politiche e finanziarie di Helmut Schmidt. Monti, in quel coro, stona: al più porta un supplemento di buon senso quando vuole scaglionare nel tempo l’austerità, o quando ricorda che i tagli al bilancio devono essere accompagnati da politiche di crescita. Quello che però terrorizza è che pare davvero convinto che ‘liberalizzare, liberalizzare, liberalizzare’ in ogni mercato sia la politica espansiva di cui avremmo bisogno. Una versione riveduta e corretta del ‘liquidate, liquidate, liquidate’ di Andrew Mellon, segretario del Tesoro di Herbert Hoover nel 1932.
Verso la disintegrazione europea
Rimane la strada della ‘doppia’ Unione Europea di Helmut Schmidt. O nella versione politica di un’avanguardia di nazioni che avanzano più veloci sul terreno del coordinamento, o nella versione economica del doppio euro. Come ho anticipato, peraltro, è alquanto difficile separare la prima opzione dalla seconda. Difficile, ancora, che la prima non si materializzi nell’opposto di quanto si desidera, e cioè nell’erezione di barriere verso gli ‘esclusi’, che siano essi interni o esterni all’eurozona. Difficile, infine, che la seconda (discussa in circoli governativi tedeschi e non solo, come trapelò qualche mese fa) avvenga in modo ‘ordinato’.
L’Ubs ha stimato che il costo di metter fuori Grecia, Portogallo, Irlanda sarebbe di gran lunga più elevato di una loro bancarotta. Se a uscire fosse la Spagna la sopravvivenza stessa dell’euro e della stessa Unione economica sarebbe forse a rischio, Il forse scompare se ad uscire fosse l’Italia. Un contagio di default sovrani, fallimenti bancari e un collasso dell’economia reale, fanno parte di questo scenario apocalittico. Se l’euro invece sopravviverà a quest’anno, come scrive Wolfgang Münchau, la previsione è di una stagnazione prolungata.
Certo, ci si può chiedere come si è arrivati qui, se si poteva fare altrimenti, cosa si potrebbe fare d’altro. Qui non posso che rimandare alle puntate trascorse dei miei articoli su alternative per il socialismo, e altrove[4]. Ho ricordato varie volte che il Trattato di Maastricht fu ancora figlio dell’Europa divisa in due. Faceva parte del progetto francese, nato da un’Europa divisa in due: con la Germania gigante economico, nano politico, despota della politica monetaria. Si voleva condividere il comando sulla moneta, ma si fu costretti a cedere sulle condizioni che la Bundesbank più che il governo tedesco o gli industriali pretendevano.
Lo ha ricordato recentemente Marcello De Cecco: «La Bundesbank l’euro non lo voleva e cercò di sollevare l’opinione pubblica contro di esso. Ma l’euro era il prezzo che i francesi pretesero per avallare la riunificazione, per tenere la Germania attaccata all’Europa occidentale e impedirle nuove avventure nazionalistiche […] La Bundesbank si ritirò allora su una posizione di ripiego, pretendendo che la banca centrale europea fosse fatta a sua immagine, e che il suo statuto addirittura accentuasse alcune caratteristiche monetariste che la Bundesbank era riuscita ad avere solo nella sua prassi, ma mai di diritto».[5]
Il punto è che gli alti tassi d’interesse imposti dal modo con cui il governo tedesco gestì la riunificazione fecero saltare in aria il Sistema Monetario Europeo, ma dunque anche Maastricht. Che il processo d’integrazione monetaria s sia rianimato a metà degli anni Novanta, che l’euro sia davvero nato, e che la moneta unica sia per un decennio parsa un esperimento di successo, è un miracolo che, ex post, si spiega facilmente. Fu conseguenza della debolezza tedesca nel primo decennio successivo alla riunificazione, quando la Germania eccezionalmente non ebbe affatto un avanzo delle partite correnti, e non figurava neanche così bene rispetto ai parametri da essa stessa voluti, ma intanto razionalizzava il proprio modello e ristrutturava contro il lavoro.
E fu merito della dinamica allora veloce del capitalismo anglosassone, con il suo ‘keynesismo privatizzato’ e il conseguente abbattimento non solo dell’inflazione ma anche dei tassi di interesse, che favorì gli stati indebitati candidati all’entrata nell’euro: nessuno ne restò fuori, e la Germania non poté che ripetere il gioco delle condizioni con il Patto di Stabilità di Dublino e Amsterdam. Dopo la moneta unica, l’abbattimento dei premi di rischio in Europa agì da gigantesco incentivo alla redistribuzione dei capitali verso la periferia d’Europa, che a sua volta accompagnava il rinnovato successo della deflazione competitiva tedesca.
Sicuramente sarebbe stata possibile un’altra via all’unificazione monetaria, non fondata su una moneta unica ma su una moneta comune alle banche centrali europee. In un disegno istituzionale più simile alle idee del Keynes 1944. Lasciando dunque margini per aggiustare i tassi di cambio a fronte di squilibri fondamentali, e imponendo che l’onere del riequilibrio cadesse anche sui paesi in avanzo commerciale, che avrebbero richiesto politiche espansive.
Certo, tutti ormai sappiamo che si sarebbe dovuta lasciare alla Banca Centrale Europea la funzione di finanziatore diretto dello Stato, e di prestatore d’ultima istanza. O meglio, dovremmo saperlo: ma c’è da dubitarne, visto che da sinistra c’è chi s’inventa come soluzione il non pagamento del debito (trasformando la crisi del debito sovrano in crisi bancaria e in catastrofe dell’unione). Certo, tutti sappiamo ormai che una convergenza puramente nominale produce l’aggravamento delle divergenze reali, a cui si potrebbe mettere rimedio solo con politiche strutturali che accelerino la produttività delle aree meno avanzate. O dovremmo saperlo: ma c’è da dubitarne, visto che da sinistra c’è chi s’inventa come soluzione che i salari tedeschi crescano come o più della produttività (traducendo così la divergenza di competitività in divergenza salariale).
Certo, tutti sappiamo che un’unione monetaria non è ottimale se non c’è un meccanismo di redistribuzione fiscale nell’area. O dovremmo saperlo: ma c’è da dubitarne, visto che l’azione della sinistra politica e sindacale rimane, al di là delle proclamazioni retorica, nazionale. E tutti dovremmo sapere che una via d’uscita dalla crisi, europea come globale, sta in un traino della spesa pubblica. O dovremmo saperlo: ma c’è da dubitarne, visto che quella sinistra di fatto si limita a invocare una mera redistribuzione. La critica dell’austerità si ferma ben prima di quella che sarebbe l’unica alternativa di sinistra all’altezza della più grande crisi dal Grande Crollo degli anni Trenta del secolo scorso: la promozione di disavanzi ‘buoni’ dello Stato, la socializzazione delle economie, un intervento su come, cosa, quanto e dove produrre, spinta dal basso, affinché sia imposta dall’alto.
L’Europa si trova, letteralmente, in un vicolo cieco, tanto sul versante delle dinamiche politiche che di quelle economiche. Che la crisi le sia caduta ‘dall’esterno’ è vero, eppure questo conta ormai poco tanto la sua inazione o i suoi ritardi hanno aggravato le cose. Conta di più che tutti ormai agiscano come se l’uscita dalla crisi debba essa stessa essere eterodiretta. Viste le dinamiche ormai pericolosamente disintegranti dell’Unione e dell’Eurozona, non c’è più Europa possibile se non grazie a soggetti sociali che ne facciano la condizione di una propria emancipazione e liberazione, e non di rivendicazione populista.
Non credo che il nodo sia tanto stare ‘dentro’ o ‘fuori’ il recinto, a rischio di un’oscillazione tra rivolta e subalternità. Occorrerebbe, invece, tornare a pensare fuori dalle compatibilità dell’esistente una nuova economia e una nuova politica. Intrecciare causazione ideale e causazione materiale, movimenti sociali e trasformazione della realtà. Una utopia, certamente. D’altra parte il compito di una sinistra degna di questo nome non è cancellare la sfida, ma affrontarla.
*Dipartimento di Scienze Economiche - Facoltà di Economia, Università di Bergamo
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[1] “Germany in and with Europe” Helmut Schmidt’s speech at the Social Democratic Party, che si trova facilmente in rete.
[2] “Wanted – political leadership in Europe”, Helmut Schmidt interview von David Marsh,
[3] "Four scenarios for the reinvention of Europe", European Council of Foreign Relations, cfr.
[4] Da ultimo si vedano La crisi globale. L’Europa, l’euro, la Sinistra e La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, editi entrambi da Asterios, Trieste 2012.
[5] “Quella lobby della Buba”, la Repubblica, supplemento Affari e Finanza, 23 gennaio 2012.
dalla rivista ALTERNATIVE PER IL SOCIALISMO
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