Posted by keynesblog on 22 marzo 2012 in Italia, Lavoro
Ieri il ministro del Lavoro Elsa Fornero aveva spiegato che la riforma avanzata dal governo sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge n.300 del 1970) avrebbe esteso l’istituto del reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti discriminatori anche ai lavoratori delle aziende sotto i 16 dipendenti. Aveva inoltre affermato che la riforma avrebbe imposto la stabilizzazione dei lavoratori a tempo determinato dopo 36 mesi. Entrambe le affermazioni si sono però rivelate false. Il motivo è che tali tutele sono già previste dalle leggi vigenti.
In particolare la “reintegra” nel caso di licenziamenti discriminatori, a prescindere dalla dimensione dell’azienda, è già prevista da 22 anni e precisamente dall’art.3 della legge 108 del 1990 “Disciplina dei licenziamenti individuali” che così recita:
Articolo 3 – Licenziamento discriminatorio
1. Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie [...] è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti. (fonte)
Riguardo il secondo punto, il limite di 36 mesi per i contratti a termine è stabilito, ormai da 11 anni, dall’articolo 5 comma 4 bis del decreto legislativo 368 del 2001:
4-bis. Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti e fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2. (fonte)
Lo fanno notare in un comunicato stampa 53 giuslavoristi tra cui Umberto Romagnoli, Luigi Mariucci, Piergiovanni Alleva, Giovanni Orlandini e Sergio Matone.
Nel video in alto Umberto Romagnoli spiega i particolari della riforma, evidenziando tra l’altro come la complicazione delle norme potrebbe peggiorare il contenzioso, fallendo l’obiettivo di dare certezza alle imprese e ai lavoratori.
Ieri il ministro del Lavoro Elsa Fornero aveva spiegato che la riforma avanzata dal governo sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge n.300 del 1970) avrebbe esteso l’istituto del reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti discriminatori anche ai lavoratori delle aziende sotto i 16 dipendenti. Aveva inoltre affermato che la riforma avrebbe imposto la stabilizzazione dei lavoratori a tempo determinato dopo 36 mesi. Entrambe le affermazioni si sono però rivelate false. Il motivo è che tali tutele sono già previste dalle leggi vigenti.
In particolare la “reintegra” nel caso di licenziamenti discriminatori, a prescindere dalla dimensione dell’azienda, è già prevista da 22 anni e precisamente dall’art.3 della legge 108 del 1990 “Disciplina dei licenziamenti individuali” che così recita:
Articolo 3 – Licenziamento discriminatorio
1. Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie [...] è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti. (fonte)
Riguardo il secondo punto, il limite di 36 mesi per i contratti a termine è stabilito, ormai da 11 anni, dall’articolo 5 comma 4 bis del decreto legislativo 368 del 2001:
4-bis. Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti e fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2. (fonte)
Lo fanno notare in un comunicato stampa 53 giuslavoristi tra cui Umberto Romagnoli, Luigi Mariucci, Piergiovanni Alleva, Giovanni Orlandini e Sergio Matone.
Nel video in alto Umberto Romagnoli spiega i particolari della riforma, evidenziando tra l’altro come la complicazione delle norme potrebbe peggiorare il contenzioso, fallendo l’obiettivo di dare certezza alle imprese e ai lavoratori.
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