Giulio Palermo - sinistrainrete -
La crisi del debito pubblico in Europa impone dure misure restrittive che si abbattono su una situazione economica già critica. Secondo le istituzioni internazionali e i governi nazionali non c’è altra via d’uscita: pagare il debito è l’unica cosa da fare. La gente protesterà, ma non si può vivere perennemente al di sopra dei propri mezzi.
Lo stato deve ora onorare i suoi debiti, anche a costo di adottare misure impopolari. Niente mostra meglio la distanza che esiste tra stato e popolo della rabbia sociale espressa fuori del Parlamento greco, mentre all’interno gli onorevoli onoravano i loro impegni con la comunità internazionale, approvando i provvedimenti indicati dalla Banca centrale europea, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, in difesa del potere bancario. Senza più alcuna mistificazione, lo stato schiaccia il proprio popolo, come misura necessaria a salvare il capitale internazionale.
In Italia, qualche ministro piange al pensiero che milioni di pensionati non arriveranno più a fine mese, ma non si dimette di certo: perché qualcuno il lavoro sporco dovrà pur farlo. “Misure impopolari, ma necessarie”, questo è il ritornello. Perché, appunto, la necessità è salvare le banche, anche a costo di sacrificare il popolo.
Gli stessi partiti di sinistra con ambizioni di governo faticano a dire qualcosa di sinistra perché la prima preoccupazione, per loro come per ogni partito borghese, non è il popolo che dovrebbero rappresentare, ma la stabilità del sistema, la solvibilità delle banche e la tenuta delle istituzioni finanziarie internazionali. Da questo punto di vista, ben vengano i governi tecnici: così sembra che le misure impopolari le prendano loro, senza che destra e sinistra se ne assumano direttamente la responsabilità politica (anche se, ovviamente, sono comunque parlamentari di destra e di sinistra che approvano le manovre dei governi tecnici).
In questo quadro, la nascita di un movimento che si oppone al pagamento del debito pubblico costituisce una novità politica significativa. Riconsiderare il debito, ed eventualmente ripudiarlo, per molti militanti significa rimettere in discussione i meccanismi che strangolano i debitori per il bene dei creditori, attaccare i principi sacri della proprietà privata, capovolgere l’assioma che antepone i profitti di banche e imprese ai bisogni di uomini e donne.
Ma può significare anche una cosa completamente diversa: “default controllato”, che in fondo è quanto chiede il capitale.
Nella proposta di rinegoziare il debito, insomma, si intrecciano potenzialità rivoluzionarie e rischi politici restauratori che devono essere attentamente valutati. In questo articolo, esamino criticamente la proposta del movimento contro il debito che si sta sviluppando in diversi paesi europei e faccio alcune considerazioni sul ruolo di una simile lotta all’interno di un percorso anticapitalista.
Il movimento contro il debito
Il movimento europeo contro il debito trae ispirazione dal Comitato per l’annullamento dei debiti del terzo mondo (Cadtm), una rete di associazioni, nata nel 1990, con sedi in Europa, Africa, America latina e Asia. L’obiettivo del Cadtm è l’azzeramento del debito pubblico estero e l’abbandono delle politiche strutturali imposte da Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Organizzazione mondiale del commercio ai paesi del terzo mondo e dell’ex blocco sovietico.
Nell’ottobre 2011, assieme ad altre associazioni e organizzazioni sindacali, il Cadtm ha dato vita in Francia al Collettivo per un audit cittadino del debito pubblico, il quale ha subito ricevuto il sostegno anche di un ampio spettro di partiti politici – dalla sinistra unitaria a quella anticapitalista – e di esponenti del mondo della cultura.
La critica del Collettivo francese parte da una constatazione semplice: oggi, con la scusa del debito, si tagliano tutte le voci di spesa pubblica, dalla sanità alle pensioni, dalla scuola ai trasporti … Tutte, tranne una: la spesa per interessi. Eppure è proprio questa la spesa meno trasparente per lo stato e per i cittadini, visto che i meccanismi di allocazione dei titoli del debito pubblico non consentono di individuare i detentori finali dei titoli stessi. Ma al di là del problema informativo: perché questa asimmetria? Perché i diritti dei lavoratori, degli studenti, dei malati e dei pensionati possono – anzi, in nome della coesione sociale, devono – essere rimessi in discussione, e quelli di chi percepisce rendite finanziarie devono considerarsi invece sacri? E poi, la tiritera secondo cui il popolo, anche in Francia, avrebbe vissuto al di sopra dei suoi mezzi pone un secondo problema di informazione: quali sono veramente le voci di bilancio che fanno esplodere il debito? Che peso ha la spesa sociale? E quanto incidono invece gli aiuti ai gruppi industriali e bancari in crisi, le politiche a favore del profitto e della rendita, le spese per la guerra e la frode fiscale?
Per rispondere a questi interrogativi, il Collettivo propone un “audit del debito pubblico”, ossia una verifica analitica di come si è formato il debito, delle voci in entrata e in uscita che ne hanno determinato la sua crescita e della loro effettiva utilità per i cittadini. La verifica dovrebbe essere fatta da un’apposita commissione indicata dai cittadini stessi, attraverso i Collettivi locali. A questo fine, il Collettivo intende costituire una base comune di dati e di analisi, esigendo che i poteri pubblici mettano a disposizione le informazioni economiche e finanziarie necessarie; pubblicare documenti esplicativi accessibili a tutti in cui si spieghino i meccanismi di formazione del debito; avviare un ampio dibattito pubblico da svilupparsi attraverso la creazione dei collettivi locali; e interpellare i politici sui loro programmi in materia di finanza pubblica.
Nelle parole di uno dei fondatori del movimento francese, François Chesnais:
L’ingiunzione a pagare il debito riposa implicitamente sull’idea che a essere state prestate siano delle somme frutto di un risparmio pazientemente accumulato nel corso di una vita di duro lavoro… L’audit ha per obiettivo quello di identificare i fattori che consentono di caratterizzare il debito come illegittimo, così come quelli che giustificano, o persino che impongono, il rimborso di almeno una parte del debito ad alcune categorie di creditori.
(Chesnais, Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, Derive approdi, p. 139, pp. 113-4)
Dalla Francia, il movimento si è allargato ad altri paesi europei, tra cui Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, i cosiddetti Piigs. Il movimento italiano nasce direttamente da quello francese con la traduzione dell’appello per un audit sul debito, pubblicata sul manifesto, e il lancio del gruppo Rivolta il debito, sostenuto, come oltralpe, dalla sinistra istituzionale, l’associazionismo e da singoli esponenti del mondo politico e culturale. La campagna è però eterogenea e comprende gruppi e formazioni, locali e nazionali, di diversa estrazione politica. Anzi, in molte realtà, i comitati locali contro il debito nascono proprio come tentativo di allargare il dibattito e la critica a settori non direttamente militanti ed estranei a percorsi politici già strutturati.
Dal sito di Rivolta il debito, Danilo Corradi, laureato in filosofia morale, illustra alcune specificità dell’Italia rispetto alla Francia e ad altri paesi europei:
Il debito non si è formato per un eccesso di spesa pubblica, ma per un deficit di entrate fiscali.
(Corradi, La crisi del debito pubblico, rivoltaildebito.globalist.it)
Ferma restando la necessità di un’analisi attenta della spesa, l’audit italiano, secondo le indicazioni nazionali, dovrebbe dunque concentrarsi sul lato delle entrate, dove risiede la causa profonda del debito.
Ma al di là delle specificità nazionali, l’obiettivo immediato del movimento europeo è comune: prendere tempo, formare le commissioni di audit e, alla luce dei loro risultati, rinegoziare con i creditori responsabili della parte illegittima del debito le condizioni della sua restituzione, fissando la percentuale che non deve essere pagata.
Economia politica e critica morale
Prima di criticare i contenuti politici e i dettagli tecnici di questa proposta, dobbiamo precisare le ragioni che hanno portato all’esplodere del problema del debito pubblico. Si tratta evidentemente di processi squisitamente economici, che però il movimento contro il debito critica su basi essenzialmente morali.
La crisi del debito pubblico in Europa è una conseguenza diretta della crisi finanziaria esplosa nel 2007 negli Stati uniti e generalizzatasi immediatamente a livello globale: in Italia, ad esempio, sono 20 anni che il rapporto debito/pil ha superato la soglia del 100%, ma è solo ora che si inizia a parlare di rischio default. Si pensi anche alla Francia, cui non so può certo rimproverare il lassismo dell’Italia in materia di finanza pubblica, e che però deve fare fronte agli stessi problemi (anche se di entità minore) di finanziamento e di credibilità sui mercati finanziari. La crescita del debito pubblico è un processo storico con frenate e accelerazioni. Ma è quando l’economia si arresta e il credito si intoppa che il pagamento del debito diventa problematico.
Nella proposta del movimento contro il debito, il problema è tuttavia individuato nelle spese ingiuste e nell’insufficiente ed iniqua tassazione. Cose sicuramente odiose, ma che esistevano anche prima che il debito pubblico da problema degli stati diventasse problema delle banche. Come ad esempio negli anni del risanamento dei conti pubblici, quando per ridurre il debito, lo stato tagliava a colpi di accetta la spesa sociale e il pubblico impiego, finanziando però missioni di guerra e devastazioni del territorio, e inviava la guardia di finanza nelle piazze, in assetto antisommossa stile robocop, a reprimere il dissenso, invece di lasciarla al suo posto, davanti a un computer, a verificare le dichiarazioni dei redditi delle categorie più note di evasori fiscali. Insomma, ognuno si può indignare quando vuole, ma il ruolo dello stato nell’economia non è affatto cambiato in questi ultimi anni. Il dato nuovo è invece un altro: se oggi tutti chiedono urgentemente il pagamento del debito pubblico è perché se lo stato non paga, le banche falliscono. Per questo si devono salvare gli stati: per salvare le banche.
Le condizioni di sostenibilità del debito sono di ordine economico, non etico. La crisi del debito dipende dalla crescita eccessiva del debito rispetto alla capacità di restituzione delle somme prese in prestito. Il problema – e gli esperti di Goldman Sachs lo sanno bene – non riguarda la buona o la cattiva volontà del debitore, ma la sua capacità oggettiva di pagare. Nelle attuali condizioni economiche, i livelli raggiunti dal debito pubblico di molti paesi sono di fatto inesigibili: se anche le istituzioni finanziarie oggi propongono la ristrutturazione del debito e un default controllato dei paesi più esposti è perché sanno che soldi non ce ne sono. E non ce ne saranno.
Mi devi 100, ma anche se ti spremo al massimo riesco a cavarti solo 40? Allora, fissiamo il debito a 40, ma sbrigati a pagarlo e, soprattutto, adotta in fretta tutte le “misure necessarie”. Questo è quello che chiedono il mondo bancario e le istituzioni finanziarie internazionali. Perché 40 e non 50 o 30? Perché se ti chiedo 50, di fatto, non potrai pagarli, il che prolungherà questa fase di sfiducia, senza alcun reale aumento dei profitti bancari, visto appunto che quei 10 di più comunque non riuscirai a restituirli e i mercati, cioè le banche stesse, lo sanno; e se ti chiedo 30, ti sto lasciando in mano 10, dopo che ti ho già regalato 50. Il calcolo è puramente economico, non c’è niente di morale o di immorale.
Sinistra istituzionale e movimento antagonista
Sul piano politico, quelle “misure necessarie” di cui si diceva impongono privazioni, tagli generalizzati, povertà e maggior sfruttamento, creando inevitabilmente malcontento e tensioni sociali. Per questo, sono importanti i richiami all’unità nazionale, alla solidarietà e alla coesione: per far sì che la classe lavoratrice – da cui in definitiva sarà estratto il nuovo valore che andrà a remunerare le banche – cooperi volontariamente alla realizzazione di questo processo. Senza un coinvolgimento del popolo, pacifico ed operoso, il rischio è che prevalgano le forze violente e antiistituzionali, gli incappucciati con le molotov, come in Grecia. Problema questo che non riguarda solo il governo, ma anche la sinistra istituzionale.
Perché, in effetti, con l’aggravarsi della crisi, cresce anche la distanza tra le diverse anime del movimento: da una parte, si sviluppa l’indignazione morale, si avviano iniziative informative e di denuncia, individuando la causa del problema nella frode, nei favoritismi, nell’ingiustizia della politica economica e nella scarsa coscienza e conoscenza dei cittadini; dall’altra, il capitalismo mostra le sue contraddizioni, cresce il conflitto, la rabbia, la violenza, l’alienazione dallo stato.
È con questo stato di cose che deve fare i conti la sinistra istituzionale, la quale, dopo essere stata espulsa dal Parlamento per volontà popolare, cerca ora di ricostruirsi attraverso i canali di movimento. Senza tuttavia capirne la logica e pretendendo invece di esserne la guida. Avendo abbandonato le proprie radici ideologiche e il proprio metodo di critica scientifica, i partiti di sinistra faticano infatti a trovare una collocazione politica tra quanti si oppongono al capitalismo. Perché l’anticapitalismo della sinistra istituzionale non si fonda affatto sulla critica scientifica di questo modo di produzione, ma sulla condanna morale dei fenomeni che esso genera. E il paradosso è che la stessa critica morale che si vorrebbe sviluppare incorpora proprio quei valori borghesi caratteristici di questo modo di produzione, i quali però sono presentati come assoluti e universali: la proprietà è sacra, ma solo se frutto del risparmio e del duro lavoro, mentre è illegittima se acquisita con l’imbroglio e con l’inganno; lo stato non risponde agli interessi delle classi dominanti, ma è il garante equo e imparziale dei cittadini, solo che ogni tanto sbaglia; i debiti si pagano, ma se sono ingiusti se ne ridiscute l’ammontare.
Questo moralismo tutto borghese, che idealizza il capitalismo e ne presenta le contraddizioni intrinseche come disfunzioni e degenerazioni da correggere puntualmente, non riguarda solo le ricette per rendere finalmente giusto questo sistema di sfruttamento, ma si applica anche alla legittimità delle diverse pratiche di lotta contro il capitalismo. Così, mentre il movimento matura, si radicalizza, cresce la coscienza politica e si precisano i rapporti di compatibilità e solidarietà tra i vari fronti di lotta, la sinistra istituzionale resta incastrata nei suoi schemi etici precostituiti, fatti di contrapposizioni tra violenti e non violenti, buoni e cattivi, indignati e black block.
Col risultato che, nelle istituzioni, la sinistra buona – quella critica ma responsabile, che non cerca la lotta di classe ma il bene comune– ritrova credibilità agli occhi del capitale (o almeno così crede) e, nelle piazze, le forze anti-istituzionali non devono più guardarsi solo dai robocop di professione, ma anche dai nuovi guardian angels di sinistra, che trattengono con la forza e consegnano alla polizia i compagni che ragionano e agiscono secondo una logica diversa dalla loro; dai nazipacifisti, che non tollerano che la loro protesta, gioiosa e colorata, sia rovinata da una minoranza tutta nera che si nasconde dietro il passamontagna; e dai delatori del giorno dopo, che credono che la lotta politica si faccia nei commissariati di polizia, di fronte alle foto segnaletiche dei più temibili teppisti.
Questa è la strategia di chi vorrebbe avere il suo posto in prima fila nel movimento. Tutti in coro: Noi la crisi non la paghiamo! No al debito odioso! Ma con calma, senza disordini, se no passiamo dalla parte del torto.
La politica come scontro tra tecnici buoni e cattivi
La politica dei buoni e dei cattivi non è ovviamente solo una questione di piazza. Il problema è generale. Perché, come dicevamo, è la politica istituzionale stessa che ha perso ogni connotazione di classe e alla sinistra con ambizioni parlamentari non rimane oggi che la pretesa di una morale superiore rispetto alle altre forze politiche. Prima almeno c’era Berlusconi, affarista per eccellenza, contro cui si potevano schierare uomini senza idee, ma dal volto onesto. Oggi invece c’è Monti, il tecnico cattivo inviato direttamente da Goldman Sachs. E la sinistra ha dunque bisogno di trovare rapidamente il suo tecnico buono, ancora una volta, dal volto onesto e senza idee.
Via dunque i tecnici di Goldman Sachs e largo ai tecnici del popolo (che già sgomitano per guadagnarsi il titolo di esperto morale di debito pubblico). I quali però, se questo è l’approccio, arriveranno necessariamente alla stessa conclusione dei tecnici cattivi: che, effettivamente, di quel debito di 100, 60 erano odiosi e quindi non vanno restituiti. E se per qualche ragione le stime dei due comitati tecnici divergeranno, non sarà difficile trovare una mediazione e magari da 60 si passerà a 65. Ma subito dopo, in nome della coesione sociale e del sistema-Italia, senza che Goldman Sachs abbia mai fatto la sua apparizione in modo esplicito nel dibattito politico, tutti al lavoro per pagare questi 40, o 35 che siano, e che nessuno più protesti.
I lavoratori si stringeranno spontaneamente la cinghia di un paio di buchi, compiaciuti di aver ottenuto, grazie alla “lotta” (dei loro tecnici), di non doversela stringere di quei tre buchi che avrebbero significato la loro fine. E forti di questo successo politico, torneranno ordinatamente al lavoro, a ritmi sempre più intensi, anzi, ai massimi ritmi tollerabili, quelli calcolati dagli uomini di Goldman Sachs quando hanno fissato a 40 l’ammontare del debito da pagare: perché ora il capitale quei 40 cui ha diritto li vuole senza indugi.
Finalmente la lotta di classe abbandona i luoghi di lavoro, le scuole e le piazze e si sviluppa comodamente nei salotti degli uomini che hanno studiato. Da una parte, i tecnici del capitale, scelti direttamente da Goldman Sachs; dall’altra, i tecnici del popolo, scelti per autoacclamazione da una sinistra che non esiste più. Perché nonostante le dichiarazioni formali in senso anticapitalista di uno dei dibattenti, l’obiettivo è lo stesso: rilanciare il processo di accumulazione (attraverso l’inasprimento dello sfruttamento), permettere alle banche di uscire dalla crisi di fiducia e solvibilità, ridare credibilità allo stato nei mercati finanziari (per poter ricominciare a prendere a prestito). Insomma, mantenere in piedi il sistema. Quello che non va nel capitalismo è che stritola i lavoratori. Attrezziamoci dunque affinché in futuro non li stritoli più, ma li sprema al punto giusto. Questo è il vero obiettivo della sinistra moralista e questo è anche il vero rischio del movimento no debito.
I dettagli tecnici della campagna istituzionale contro il debito
Il rischio che il movimento contro il debito assuma una connotazione conservatrice, stravolgendo dunque le motivazioni di molti militanti, può essere valutato a partire dalle contraddizioni che emergono non appena si esamini la proposta di audit nei suoi dettagli tecnici.
Tecnicamente, non è possibile stabilire quale parte del debito sia giusta e quale invece ingiusta: il debito non è altro che la somma dei deficit accumulati nel tempo e ogni deficit è il risultato di un eccesso di uscite sulle entrate in un determinato anno; sia le prime che le seconde comprendono tuttavia voci odiose e altre eticamente condivisibili. Si può quindi solo stabilire, a livello aggregato, la percentuale di debito odiosa, ma non quali titoli del debito son serviti a finanziare le singole voci di spesa odiose.
Con chi bisogna prendersela allora? Chi ha acquistato un titolo del debito pubblico nell’anno X non ha mica approvato e sottoscritto il bilancio pubblico dell’anno X. Ha solo prestato soldi allo stato, democratico e legittimo, che glieli chiedeva. Quei soldi servivano a colmare la differenza complessiva tra spesa pubblica e entrate fiscali e, anche volendo, non sarebbe stato possibile per un prestatore eticamente attento distinguere le voci di spesa statale a lui gradite. Su che basi si dovrebbe allora stabilire se un soggetto abbia veramente diritto alla restituzione di quanto avanzato? Esistono tre tipi di criteri:
1. CRITERIO DELLE USCITE. Non restituire i soldi a chi ha comprato i titoli del debito pubblico negli anni in cui lo stato ha speso i soldi in modo odioso e restituirli solo a chi ha comprato i titoli negli anni in cui lo stato spendeva in modo amabile, espandendo ad esempio la spesa sociale.
2. CRITERIO DELLE ENTRATE. Alcuni sostengono tuttavia che il debito pubblico italiano nasca da problemi di entrate insufficienti, piuttosto che di uscite eccessive. Si tratta di una posizione che assume probabilmente significato in campo filosofico o morale, ma che non ne ha nessuno in quello economico, visto che il saldo di bilancio è la differenza tra uscite ed entrate e non è dunque causato né dalle prime, né dalle seconde, ma appunto dalla loro differenza. Ad ogni modo, stando a questa posizione morale, i soggetti che dovrebbero perdere il diritto al rimborso sono quelli che hanno comprato titoli negli anni in cui il buco di bilancio è stato causato da sgravi fiscali ai ricchi, trattamenti di eccessivo sostegno ai profitti e alla rendita finanziaria o da politiche tolleranti nei confronti dell’evasione fiscale.
3. CRITERIO DELLE ENTRATE E DELLE USCITE. Per una questione di coerenza interna, si pone poi il problema di compatibilità di questi due criteri basati sull’analisi delle uscite e delle entrate, perché non è detto che i canoni morali adottati debbano condannarle o assolverle entrambe: cosa si dovrebbe fare in presenza di una spesa pubblica tutta a carattere sociale e di una pressione fiscale odiosa, a carico solo dei più poveri? Si devono pagare oppure no i corrispondenti titoli del debito pubblico?
Quale che sia il criterio adottato, l’audit – analitico e particolareggiato quanto si vuole – non potrà mai far ricadere il peso della ristrutturazione del debito sui diretti responsabili, semplicemente perché non c’è alcun legame tra la formazione della parte di debito odiosa e il soggetto che acquista i corrispondenti titoli del debito. Certo, nel momento in cui si stabilisce che una parte del debito non deve essere pagata, si può scegliere anche su chi far ricadere il peso di questo default controllato: persone fisiche o giuridiche, nazionali o estere, vecchiette con i Bot o hedge fund speculativi. Ma la questione diventa solo distributiva e per difendere la nonnina che non ce la fa con la pensione, forse ci sono argomenti politici (ma anche morali) più efficaci e che non richiedono un’analisi minuziosa dell’intera storia economica d’Italia.
La moralizzazione del debito pubblico
Se la critica moralistica del debito pubblico ha senz’altro il suo impatto tra chi crede che il problema del capitalismo sia di natura morale, nel passaggio ad un’eventuale fase attuativa dell’audit resta comunque il problema di giungere a criteri morali condivisi con cui valutare i libri contabili dello stato. Come si stabilisce in effetti quali spese sono veramente odiose?
Nel discorso politico, una prima interpretazione suggerisce di escludere la spesa sociale: scuole, ospedali, pensioni sono tutti interventi che vanno conservati. Per alcuni, in quanto diritti dei cittadini e doveri dello stato, ottenuti attraverso una storia di lotte sociali e conquiste economiche; secondo l’approccio moralistico, invece, in quanto desiderabili secondo particolari giudizi etici, presentati come unanimemente condivisibili. Accanto alla spesa sociale, la morale universale salva poi altre voci della spesa pubblica, poiché giudicate comunque a beneficio del cittadino. Viceversa, le spese per l’esercito, i regali al capitale, la nazionalizzazione delle imprese in perdita, le opere che devastano l’ambiente sono senz’altro odiose e devono quindi essere ripudiate. Anche in questo caso in nome di una pretesa morale universale, che non tiene conto della politica.
Il fatto ad esempio che, secondo la Costituzione repubblicana, le forze armate siano parte integrante dell’ordinamento dello stato o che si riconosca validità ai Patti lateranensi, che concedono ampi privilegi alla Chiesa, può forse indignare i militanti pacifisti e anticlericali, ma restano principi giuridici stabiliti per via politica ed è la lotta politica, non una commissione di audit, che può cambiarli.
Nel caso della Grecia, l’attivista francese Chesnais non esita ad esplicitare la superiorità della critica morale sulla storia politica:
La Costituzione del 1975 (la prima Costituzione dopo la dittatura dei colonnelli, ndr) comporta, nella sua stessa carta, l’esenzione fiscale per gli armatori greci, per le loro famiglie e per i loro associati. Un tale privilegio può essere considerato di per sé un elemento distintivo dei tratti del debito odioso.
(Chesnais, Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, Derive approdi, p. 116)
Che la Costituzione di ogni paese sia il risultato di processi storici e scontri politici diventa del tutto secondario. Quello che conta è la morale universale che determina il bene e il male, i buoni e i cattivi, il giusto e l’ingiusto. Come valori assoluti, non come prodotti della storia. Un po’ come le potenze imperialistiche esportano la propria civiltà a suon di bombe, le forze moralizzatrici vorrebbero esportare la loro morale con le commissioni di audit. Nessun bombardamento aereo contro l’asse del male, ma un comitato di giusti che riveda l’intero ordinamento degli stati immorali.
Debiti odiosi e debiti illegittimi
Nella proposta di audit, il movimento oscilla con disinvoltura tra due aggettivi per caratterizzare il debito che non va pagato: odioso e illegittimo. Il primo termine richiama immediatamente le questioni etiche: per le cose odiose ci si indigna.
L’insistenza sull’illegittimità serve invece a mostrare la via del cambiamento, che deve essere appunto rispettosa del diritto esistente.
Secondo molti queste due cose si completano a vicenda perché, in fondo, nel capitalismo, etica e diritto vanno a braccetto, solo che ogni tanto qualcuno imbroglia, il che è odioso e illegittimo. Secondo altri, le due cose invece si contrappongono: chi odia veramente il capitalismo lo fa perché si tratta di un sistema di sfruttamento legalizzato che, al pari dei sistemi di sfruttamento che l’hanno preceduto, pone il diritto al servizio della classe dominante per consentirgli appunto di sfruttare quella dominata. Non c’è bisogno di attendere la degenerazione, l’abuso o l’imbroglio per odiare il debito: basta odiare il capitalismo.
Quale che sia l’approccio al problema, debiti odiosi e illegittimi restano comunque cose distinte. Sul piano etico, possiamo condannare molte pratiche, ma avere ragione in sede legale è altra cosa. Non c’è voce di spesa su cui non sia possibile esprimere giudizi morali discordanti. Ma non tutto ciò che non ci piace è illegittimo.
Gli argomenti che convincono gli indignati non convincono necessariamente anche i giudici. Per quelli che insistono tanto sull’evasione fiscale, ad esempio, cosa dovremmo fare? Dire a un creditore internazionale che non gli ridiamo i soldi perché l’anno in cui ce li ha prestati, nel nostro paese, alcuni non hanno pagato le tasse? Veramente, le scuse dei tossici sono più divertenti. Se non vogliamo pagare, non paghiamo. Ma se pensiamo di procedere per vie legali, attrezziamoci meglio.
La verità è che, se anche si trovassero i giusti argomenti, la questione del diritto all’insolvenza accentua i problemi irrisolti della delega politica e fa inevitabilmente scivolare la lotta di massa in tecnicismi per esperti. Avvocati contro avvocati. Toghe e tribunali che, per alcuni, costituiscono la garanzia stessa della democrazia, ma che molti militanti vedono con sospetto, forse perché abituati a conoscerli dal lato sbagliato. Ma queste differenze diventano di fatto secondarie. Perché, in ogni caso, tutti, fiduciosi e scettici, non devono far altro che tornare a casa e aspettare il telegiornale, sperando di sentire che i loro avvocati sono stati più abili di quelli delle banche. Invece di lottare, faremo il tifo.
La questione legalistica allontana poi il dibattito dalle possibili risposte immediate, a livello nazionale, ponendo come unico scenario possibile quello di una soluzione internazionale. In un’economia globalizzata, infatti, il debito sta in gran parte all’estero. Per ripudiarlo si deve quindi guardare al diritto internazionale. La Costituzione, che in molti brandivano nelle piazze in difesa dei diritti fondamentali, lascia dunque il posto alla Carta dell’Onu, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ad altri accordi internazionali, peraltro sistematicamente violati dalle principali potenze capitalistiche, che però sanciscono nero su bianco i più alti valori morali del capitalismo ideale.
E in tutto questo nessuno sembra vedere che questo slittamento dal diritto nazionale a quello internazionale è, in realtà, il grimaldello attraverso cui il capitale viola la sovranità nazionale e schiaccia i popoli dei paesi più deboli. E già, perché anche l’Unione europea, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e le altre istituzioni del neoliberismo globalizzato sono fonti di diritto internazionale. E probabilmente, con gli accordi assurdi che i nostri stati legittimi hanno firmato, che concedono tutto il potere alle banche e alla finanza, se andiamo veramente in tribunale contro queste istituzioni, ne usciamo pure malconci.
Il ruolo istituzionale della commissione di audit
Un’ultima questione tecnica, anche se non proprio di dettaglio, riguarda il ruolo istituzionale che la commissione di audit dovrebbe avere. Perché in realtà di gruppi di lavoro che studiano attentamente il debito ce ne sono già molti: presso il Ministero dell’economia, la Banca d’Italia, nelle università e nei centri studi economici, pubblici e privati, per non parlare poi delle organizzazioni internazionali. Non c’è niente di rivoluzionario, né di progressista, nell’esaminare la formazione del debito pubblico. Anzi, sono proprio gli esperti del debito che in genere giungono alle conclusioni più severe sul piano della politica economica. Si pone allora la domanda: che differenza ci sarà tra la commissione voluta dal movimento e quelle che già esistono? E poi, una volta che la commissione di movimento avrà approfondito i bilanci e informato la popolazione, che impatto avrà tutto ciò sulla realtà economica?
Perché, delle due, l’una: o la commissione non conta niente e l’unico impatto reale sarà la pubblicazione di un altro libro sul debito pubblico e il lancio in politica di qualche militante della “base” di questo movimento; oppure invece, quella commissione avrà un vero ruolo istituzionale e le sue indicazioni saranno vincolanti o avranno almeno un certo peso. Allora però, se vale questa seconda ipotesi, il vero scontro riguarderà la formazione di questa commissione, investita di rivedere tutte le scelte economiche prese nel corso della storia d’Italia, indicando se convalidarle o ripudiarle, una ad una, sulla base dei giudizi morali che la commissione vorrà adottare.
Si pone dunque un problema di rappresentanza politica, che i richiami alla democrazia diretta e ai collettivi locali rimandano, ma non risolvono. Anche perché il problema delle forme di rappresentanza non è cosa che si affronta come appendice al problema del debito.
Piccoli passi e anticapitalismo
Consideriamo infine l’ultimo argomento, che non dipende da tecnicismi, né moralismi, ma che serve a giustificare la politica dei piccoli passi: tra pagare tutto e pagare in parte, dicono nel movimento, saremo almeno tutti d’accordo che è meglio pagare solo in parte!
Effettivamente, sì. Ma allora lasciamo perdere la morale e il diritto. Ridotta a questo, la questione è di semplice buon senso. Buon senso che però non contempla la vera ragione da cui nasce tutto il problema: l’ipotesi di non pagare niente.
Quest’ipotesi, scartata a priori dal movimento, è in realtà la vera preoccupazione dei creditori. Perché il dato economico da cui tutto parte è che i paesi indebitati non ce la fanno a pagare. Dopodiché, ciascuno ci arriva per la sua strada, ma la proposta del default controllato nasce come risposta al timore che gli stati cedano alle richieste dei popoli e smettano di pagare, non come tentativo di moralizzare l’economia.
Senza mistificazioni, diciamo allora le cose come stanno: cerchiamo di pagare il meno possibile perché è nel nostro interesse. Non è questione di bene comune, né di moralità o di legittimità. È solo un problema di rapporti di forza. Di più non possiamo ottenere? E allora autoriduciamoci il debito del 60%. E se invece, nel corso della lotta, siamo cresciuti e ci siamo rafforzati, allora pretendiamo un abbattimento del 70%. Ma, smettetela di parlarci di diritto e di morale. E soprattutto, quando ci costringono a pagare la restante parte, non diteci che è giusto e non chiedeteci di fare i bravi.
Perché noi in realtà non vogliamo pagare niente. Non vogliamo pagare i debiti contratti nel passato perché non vogliamo pagare nemmeno i profitti presenti e futuri.
Non vi riconosciamo il diritto al nostro pluslavoro futuro perché non vi riconosciamo il diritto ad alcun pluslavoro. Non è una questione di misura, né di tempo: non vogliamo essere sfruttati e basta.
E siccome il capitale, mentre sfrutta noi, mercifica tutto e si impossessa del pianeta, ci uniamo a tutti quelli che lottano contro il capitale da altre prospettive. La demercificazione, la soddisfazione dei bisogni della popolazione invece che la valorizzazione del capitale, può partire da qualsiasi settore: l’acqua, la sanità, l’ambiente, i trasporti, il lavoro. Dove il capitale trasforma in merci i rapporti sociali, la società si organizza e combatte il capitale. Se i percorsi di lotta si intrecciano è perché i problemi che i vari movimenti combattono hanno una causa comune: il sistema del capitale. Il movimento no debito ha quindi piena legittimità nello schieramento anticapitalista e, per molti militanti, questa è anzi la sua naturale collocazione politica.
La classe lavoratrice non è mai in debito
Il debito e il credito sono estensioni del diritto di proprietà nel tempo. Nel capitalismo, si sviluppano con l’ampliarsi dei rapporti di mercato e, al tempo stesso, costituiscono la leva del processo di accumulazione. Ma debito e credito, in quanto tali, non producono, né distruggono valore. Ridefiniscono soltanto i legittimi proprietari del valore presente e futuro.
Il valore lo producono i lavoratori. I quali però se ne appropriano solo in parte, perché, nel capitalismo, la restante parte spetta a chi anticipa il capitale. Non per appropriazione illecita, ma in forza di legge. Perché lo sviluppo del capitalismo richiede e impone trasformazioni anche giuridiche che garantiscano la proprietà privata e che rendano possibile la libera vendita della forza lavoro come strumento di valorizzazione del capitale.
Il credito, ovvero il diritto di appropriarsi dei frutti dello sfruttamento futuro, risponde alla medesima logica: non nasce da soggetti malvagi che manipolano l’informazione, ma dal fatto che il capitalismo è un sistema di sfruttamento basato sul mercato e, come tale, oltre a consentire (e rendere necessario) lo sfruttamento, consente di vendere i suoi frutti prima ancora che siano realizzati. L’interesse è appunto la parte di profitto che spetta alla banca. Ma credito e sfruttamento sono entrambi parti integranti del modo di produzione capitalistico: l’uno regola i rapporti interni al capitale (i rapporti tra interesse e profitto), l’altro quelli tra capitale e lavoro (i rapporti tra profitti e salari).
Non ha alcuna importanza il fatto che il lavoratore in genere non prenda a prestito un bel niente. Basta che sia lo stato a farlo per lui. Perché il debito pubblico alla fine è sempre il pluslavoro dei lavoratori che lo ripaga. La contabilità borghese può scrivere quello che vuole sui suoi registri: che il lavoratore è debitore e che la banca è creditrice; che lo stato è debitore perché i soldi che spende invece di stamparseli se li fa prestare a interesse; che, in virtù di questo, anche il lavoratore che non ha mai chiesto un euro in prestito deve pagare. Ma la realtà è che, ogni anno, sono dei lavoratori, non dei banchieri o dei capitalisti, che producono il valore che la società si spartisce. Il fatto che il loro debito possa aumentare non dipende dal loro consumo smodato, ma dalle leggi del capitale. Perché in questa società, fondata sullo sfruttamento, effettivamente, le leggi dell’economia e della borghesia stabiliscono che al banchiere spettava un po’ più. Da qui nasce il debito del lavoratore: da un sistema di regole che gli impone di cedere al capitale parte di quello che produce e che stabilisce che, se un anno ne cede una parte troppo piccola, l’anno dopo deve “compensare”, cedendone una più grande. Ma di fatto, anche quando le banche prestano generosamente i loro fondi, il reddito dei banchieri (e dei capitalisti) è comunque prodotto dai lavoratori: il banchiere mangia quello che il lavoratore produce e il lavoratore rimane senza un soldo in tasca e con un debito nei confronti del banchiere.
Ma dove stanno tutte queste cicale che avrebbero causato la crisi del debito? Forse nelle favole moralistiche di Esopo, ma non certo nelle fabbriche capitalistiche. Dove lo trovano il tempo per cantare i lavoratori? In fabbrica, nei call center, nei cantieri, non si canta, si lavora. Solo che a differenza delle formiche di Esopo, che poi si mangiano i frutti del lavoro accumulato, lasciando morire di fame l’oziosa cicala, i lavoratori quello che non consumano lo girano direttamente al capitale e a morire di fame sono loro stessi. Questo è il segreto dell’accumulazione capitalistica: pluslavoro e sfruttamento per chi lavora, profitti e interesse per chi controlla il capitale. E se non basta, debiti per i primi e crediti per i secondi.
In Italia, tolte le spese per il pagamento degli interessi, sono venti anni che le tasse superano la spesa pubblica (in termini tecnici, si dice che il “bilancio primario” – quello che non considera la spesa per interessi – è in attivo). Sono cioè venti anni che lo stato incassa dai contribuenti più di quanto spenda e che gira la differenza alle banche. Senza tuttavia far diminuire di un centesimo il debito, il quale, anzi, è aumentato, visto che spesso la spesa per interessi è stata maggiore del surplus primario. Il che significa che, pur sottraendo risorse ai cittadini per darle alle banche, alla fine dell’anno lo stato si trova più indebitato di prima. Le banche non sganciano un euro, anzi lo incassano, ma il loro credito aumenta perché secondo i sacri principi della proprietà privata quanto hanno ricevuto è di meno di quanto era stato loro promesso.
Questi non sono problemi morali, ma contraddizioni economiche. Il capitalismo è in crisi perché lo sfruttamento corrente non è più sufficiente a pagare i debiti passati.
Affrontare la questione del debito all’interno del capitalismo significa cercare una misura dello sfruttamento compatibile con le esigenze remunerative del capitale; significa aiutare il capitale a trovare le soluzioni che non trova da solo; significa razionalizzarne e legittimarne i meccanismi. Ma significa anche non vedere che, se nel capitalismo, i lavoratori e il popolo intero, sono in debito, il problema non possono essere né i lavoratori, né il popolo, né tanto meno il debito, ma il capitalismo.
Conclusioni
Nel capitalismo, la crisi economica non esplode quando la parte del prodotto sociale che spetta ai lavoratori non basta a soddisfare i loro bisogni. Ma quando la parte di cui si appropriano capitalisti e banchieri diventa insufficiente a saziare gli appetiti del capitale. Perché se il lavoratore fatica ad arrivare alla quarta settimana o muore il giorno in cui va in pensione il capitalismo gira bene lo stesso (anzi, gira ancora meglio); ma se il capitale non riceve la dovuta remunerazione, il banchiere non presta, il capitalista non investe e l’economia si intoppa.
Parimenti, il capitalismo non entra in crisi quando devasta il pianeta e assoggetta ogni aspetto della vita sociale, ma quando queste devastazioni e questo assoggettamento mettono a rischio il profitto. Perché nel sistema del capitale conta una sola cosa: la valorizzazione del capitale stesso. Questa è la contraddizione da cui nascono i movimenti che lottano per liberare la società dal capitale.
Le potenzialità e i rischi del movimento no debito dipendono dal rapporto che esso saprà stabilire con questi altri percorsi di lotta al capitalismo. In questo articolo, ho dunque sottoposto a critica la proposta di un audit cittadino sul debito pubblico, adottando espressamente una prospettiva anticapitalista. La critica generale che rivolgo alle forze istituzionali che sostengono il movimento riguarda la loro incapacità di collegare gli attuali problemi sociali alle contraddizioni economiche del capitalismo e il loro tentativo di affrontarli su basi solo morali. A partire da questa critica generale, ho discusso i principali limiti della concezione moralistica e i rischi cui incorre il movimento:
1. La critica morale si fonda sull’assunto che esista un’etica universale, unanimemente condivisibile. Il sistema morale adottato, anche se di rapporti di classe se ne parla poco, è quello della classe borghese, il quale viene tuttavia presentato come sistema morale universale. La critica morale non si sviluppa quindi come parte della lotta di classe – che porta ad uno scontro anche tra sistemi morali – ma fa propria l’ideologia borghese e, a partire da essa, si propone di moralizzare il capitalismo.
2. Posta in termini di diritto all’insolvenza, la campagna per l’audit rischia di indebolire la capacità del movimento di ottenere risultati attraverso la lotta delle masse e rafforza invece il principio della delega agli esperti tecnicolegali.
3. L’accettazione implicita e acritica dei valori borghesi ostacola, invece di unire, i percorsi di chi lotta contro il capitalismo e riproduce le divisioni, comode al capitale, tra buoni e cattivi, anche tra chi il capitale lo combatte.
Friedrich Engels replicava così ai moralizzatori della sua epoca:
Noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell’avvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi principi permanenti, che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli. Affermiamo per contro, che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo. E come la società si è mossa sinora sul piano degli antagonismi di classe, così la morale è stata sempre una morale di classe.
(Engels, Antidühring, Editori Riuniti, p. 100)
La critica morale non si fonda affatto sulle contraddizioni del capitalismo. Al contrario, fa apparire come errori e degenerazioni gli ordinari processi economici di questo modo di produzione, mantenendo dunque vivo il sogno di un capitalismo dal volto umano. I problemi della società, in una simile concezione, non sono frutto del suo assoggettamento al capitale, ma di fattori esterni: la finanza cattiva, la scarsa informazione, lo stato immorale.
Facendo coincidere la critica del capitalismo con l’indignazione morale piccoloborghese, la proposta di audit svuota di ogni contenuto rivoluzionario le rivendicazioni popolari contro le banche, contro i padroni, contro lo sfruttamento, contro il capitalismo. In questo processo mistificatorio, il rischio politico cui è esposto il movimento è di finire, sicuramente in modo involontario, per fare il gioco del mondo bancario. Perché, se abbandoniamo l’alta morale e torniamo coi piedi per terra, il problema molto concreto è questo: la proposta di un audit cittadino sembra proprio la sponda che cercava il mondo bancario per far passare la richiesta di un default controllato nei paesi più esposti.
Per molti militanti la battaglia sul debito significa una sola cosa: affermare la sovranità del popolo su quella del capitale. Per questo il ripudio del debito è parte di un percorso generale di attacco alla proprietà privata: oggi non pago i debiti, domani non pago il pane, dopodomani non pago la casa, le medicine, i trasporti, la scuola e alla fine non pago più niente, perché sono i lavoratori, non i capitalisti che producono la ricchezza del paese. L’esatto contrario di quanto vorrebbero le forze moralizzatrici della borghesia, per le quali il default controllato si inquadra nelle strategie di conservazione della proprietà privata: oggi non pago il debito così domani potrò pagare il pane, la casa e tutto il resto, compresa la parte rimanente di debito.
Per questo un confronto aperto sull’anticapitalismo e sui rapporti da sviluppare con gli altri movimenti è assolutamente necessario. Ma, sul piano teorico, questo può avvenire solo se si abbandona la morale borghese, che impedisce di ragionare su ogni altro mondo possibile. E su quello pratico, nessun cambiamento reale sarà possibile se non si esce dal legalismo dell’ordine capitalista. Perché chi l’anticapitalismo cerca di metterlo in pratica nelle lotte sociali, nei posti di lavoro, nelle scuole, nei territori, questo principio ce l’ha ben chiaro: il capitale è il nostro nemico, non perché è illegittimo, ma perché è la legge.
La crisi del debito pubblico in Europa impone dure misure restrittive che si abbattono su una situazione economica già critica. Secondo le istituzioni internazionali e i governi nazionali non c’è altra via d’uscita: pagare il debito è l’unica cosa da fare. La gente protesterà, ma non si può vivere perennemente al di sopra dei propri mezzi.
Lo stato deve ora onorare i suoi debiti, anche a costo di adottare misure impopolari. Niente mostra meglio la distanza che esiste tra stato e popolo della rabbia sociale espressa fuori del Parlamento greco, mentre all’interno gli onorevoli onoravano i loro impegni con la comunità internazionale, approvando i provvedimenti indicati dalla Banca centrale europea, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, in difesa del potere bancario. Senza più alcuna mistificazione, lo stato schiaccia il proprio popolo, come misura necessaria a salvare il capitale internazionale.
In Italia, qualche ministro piange al pensiero che milioni di pensionati non arriveranno più a fine mese, ma non si dimette di certo: perché qualcuno il lavoro sporco dovrà pur farlo. “Misure impopolari, ma necessarie”, questo è il ritornello. Perché, appunto, la necessità è salvare le banche, anche a costo di sacrificare il popolo.
Gli stessi partiti di sinistra con ambizioni di governo faticano a dire qualcosa di sinistra perché la prima preoccupazione, per loro come per ogni partito borghese, non è il popolo che dovrebbero rappresentare, ma la stabilità del sistema, la solvibilità delle banche e la tenuta delle istituzioni finanziarie internazionali. Da questo punto di vista, ben vengano i governi tecnici: così sembra che le misure impopolari le prendano loro, senza che destra e sinistra se ne assumano direttamente la responsabilità politica (anche se, ovviamente, sono comunque parlamentari di destra e di sinistra che approvano le manovre dei governi tecnici).
In questo quadro, la nascita di un movimento che si oppone al pagamento del debito pubblico costituisce una novità politica significativa. Riconsiderare il debito, ed eventualmente ripudiarlo, per molti militanti significa rimettere in discussione i meccanismi che strangolano i debitori per il bene dei creditori, attaccare i principi sacri della proprietà privata, capovolgere l’assioma che antepone i profitti di banche e imprese ai bisogni di uomini e donne.
Ma può significare anche una cosa completamente diversa: “default controllato”, che in fondo è quanto chiede il capitale.
Nella proposta di rinegoziare il debito, insomma, si intrecciano potenzialità rivoluzionarie e rischi politici restauratori che devono essere attentamente valutati. In questo articolo, esamino criticamente la proposta del movimento contro il debito che si sta sviluppando in diversi paesi europei e faccio alcune considerazioni sul ruolo di una simile lotta all’interno di un percorso anticapitalista.
Il movimento contro il debito
Il movimento europeo contro il debito trae ispirazione dal Comitato per l’annullamento dei debiti del terzo mondo (Cadtm), una rete di associazioni, nata nel 1990, con sedi in Europa, Africa, America latina e Asia. L’obiettivo del Cadtm è l’azzeramento del debito pubblico estero e l’abbandono delle politiche strutturali imposte da Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Organizzazione mondiale del commercio ai paesi del terzo mondo e dell’ex blocco sovietico.
Nell’ottobre 2011, assieme ad altre associazioni e organizzazioni sindacali, il Cadtm ha dato vita in Francia al Collettivo per un audit cittadino del debito pubblico, il quale ha subito ricevuto il sostegno anche di un ampio spettro di partiti politici – dalla sinistra unitaria a quella anticapitalista – e di esponenti del mondo della cultura.
La critica del Collettivo francese parte da una constatazione semplice: oggi, con la scusa del debito, si tagliano tutte le voci di spesa pubblica, dalla sanità alle pensioni, dalla scuola ai trasporti … Tutte, tranne una: la spesa per interessi. Eppure è proprio questa la spesa meno trasparente per lo stato e per i cittadini, visto che i meccanismi di allocazione dei titoli del debito pubblico non consentono di individuare i detentori finali dei titoli stessi. Ma al di là del problema informativo: perché questa asimmetria? Perché i diritti dei lavoratori, degli studenti, dei malati e dei pensionati possono – anzi, in nome della coesione sociale, devono – essere rimessi in discussione, e quelli di chi percepisce rendite finanziarie devono considerarsi invece sacri? E poi, la tiritera secondo cui il popolo, anche in Francia, avrebbe vissuto al di sopra dei suoi mezzi pone un secondo problema di informazione: quali sono veramente le voci di bilancio che fanno esplodere il debito? Che peso ha la spesa sociale? E quanto incidono invece gli aiuti ai gruppi industriali e bancari in crisi, le politiche a favore del profitto e della rendita, le spese per la guerra e la frode fiscale?
Per rispondere a questi interrogativi, il Collettivo propone un “audit del debito pubblico”, ossia una verifica analitica di come si è formato il debito, delle voci in entrata e in uscita che ne hanno determinato la sua crescita e della loro effettiva utilità per i cittadini. La verifica dovrebbe essere fatta da un’apposita commissione indicata dai cittadini stessi, attraverso i Collettivi locali. A questo fine, il Collettivo intende costituire una base comune di dati e di analisi, esigendo che i poteri pubblici mettano a disposizione le informazioni economiche e finanziarie necessarie; pubblicare documenti esplicativi accessibili a tutti in cui si spieghino i meccanismi di formazione del debito; avviare un ampio dibattito pubblico da svilupparsi attraverso la creazione dei collettivi locali; e interpellare i politici sui loro programmi in materia di finanza pubblica.
Nelle parole di uno dei fondatori del movimento francese, François Chesnais:
L’ingiunzione a pagare il debito riposa implicitamente sull’idea che a essere state prestate siano delle somme frutto di un risparmio pazientemente accumulato nel corso di una vita di duro lavoro… L’audit ha per obiettivo quello di identificare i fattori che consentono di caratterizzare il debito come illegittimo, così come quelli che giustificano, o persino che impongono, il rimborso di almeno una parte del debito ad alcune categorie di creditori.
(Chesnais, Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, Derive approdi, p. 139, pp. 113-4)
Dalla Francia, il movimento si è allargato ad altri paesi europei, tra cui Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, i cosiddetti Piigs. Il movimento italiano nasce direttamente da quello francese con la traduzione dell’appello per un audit sul debito, pubblicata sul manifesto, e il lancio del gruppo Rivolta il debito, sostenuto, come oltralpe, dalla sinistra istituzionale, l’associazionismo e da singoli esponenti del mondo politico e culturale. La campagna è però eterogenea e comprende gruppi e formazioni, locali e nazionali, di diversa estrazione politica. Anzi, in molte realtà, i comitati locali contro il debito nascono proprio come tentativo di allargare il dibattito e la critica a settori non direttamente militanti ed estranei a percorsi politici già strutturati.
Dal sito di Rivolta il debito, Danilo Corradi, laureato in filosofia morale, illustra alcune specificità dell’Italia rispetto alla Francia e ad altri paesi europei:
Il debito non si è formato per un eccesso di spesa pubblica, ma per un deficit di entrate fiscali.
(Corradi, La crisi del debito pubblico, rivoltaildebito.globalist.it)
Ferma restando la necessità di un’analisi attenta della spesa, l’audit italiano, secondo le indicazioni nazionali, dovrebbe dunque concentrarsi sul lato delle entrate, dove risiede la causa profonda del debito.
Ma al di là delle specificità nazionali, l’obiettivo immediato del movimento europeo è comune: prendere tempo, formare le commissioni di audit e, alla luce dei loro risultati, rinegoziare con i creditori responsabili della parte illegittima del debito le condizioni della sua restituzione, fissando la percentuale che non deve essere pagata.
Economia politica e critica morale
Prima di criticare i contenuti politici e i dettagli tecnici di questa proposta, dobbiamo precisare le ragioni che hanno portato all’esplodere del problema del debito pubblico. Si tratta evidentemente di processi squisitamente economici, che però il movimento contro il debito critica su basi essenzialmente morali.
La crisi del debito pubblico in Europa è una conseguenza diretta della crisi finanziaria esplosa nel 2007 negli Stati uniti e generalizzatasi immediatamente a livello globale: in Italia, ad esempio, sono 20 anni che il rapporto debito/pil ha superato la soglia del 100%, ma è solo ora che si inizia a parlare di rischio default. Si pensi anche alla Francia, cui non so può certo rimproverare il lassismo dell’Italia in materia di finanza pubblica, e che però deve fare fronte agli stessi problemi (anche se di entità minore) di finanziamento e di credibilità sui mercati finanziari. La crescita del debito pubblico è un processo storico con frenate e accelerazioni. Ma è quando l’economia si arresta e il credito si intoppa che il pagamento del debito diventa problematico.
Nella proposta del movimento contro il debito, il problema è tuttavia individuato nelle spese ingiuste e nell’insufficiente ed iniqua tassazione. Cose sicuramente odiose, ma che esistevano anche prima che il debito pubblico da problema degli stati diventasse problema delle banche. Come ad esempio negli anni del risanamento dei conti pubblici, quando per ridurre il debito, lo stato tagliava a colpi di accetta la spesa sociale e il pubblico impiego, finanziando però missioni di guerra e devastazioni del territorio, e inviava la guardia di finanza nelle piazze, in assetto antisommossa stile robocop, a reprimere il dissenso, invece di lasciarla al suo posto, davanti a un computer, a verificare le dichiarazioni dei redditi delle categorie più note di evasori fiscali. Insomma, ognuno si può indignare quando vuole, ma il ruolo dello stato nell’economia non è affatto cambiato in questi ultimi anni. Il dato nuovo è invece un altro: se oggi tutti chiedono urgentemente il pagamento del debito pubblico è perché se lo stato non paga, le banche falliscono. Per questo si devono salvare gli stati: per salvare le banche.
Le condizioni di sostenibilità del debito sono di ordine economico, non etico. La crisi del debito dipende dalla crescita eccessiva del debito rispetto alla capacità di restituzione delle somme prese in prestito. Il problema – e gli esperti di Goldman Sachs lo sanno bene – non riguarda la buona o la cattiva volontà del debitore, ma la sua capacità oggettiva di pagare. Nelle attuali condizioni economiche, i livelli raggiunti dal debito pubblico di molti paesi sono di fatto inesigibili: se anche le istituzioni finanziarie oggi propongono la ristrutturazione del debito e un default controllato dei paesi più esposti è perché sanno che soldi non ce ne sono. E non ce ne saranno.
Mi devi 100, ma anche se ti spremo al massimo riesco a cavarti solo 40? Allora, fissiamo il debito a 40, ma sbrigati a pagarlo e, soprattutto, adotta in fretta tutte le “misure necessarie”. Questo è quello che chiedono il mondo bancario e le istituzioni finanziarie internazionali. Perché 40 e non 50 o 30? Perché se ti chiedo 50, di fatto, non potrai pagarli, il che prolungherà questa fase di sfiducia, senza alcun reale aumento dei profitti bancari, visto appunto che quei 10 di più comunque non riuscirai a restituirli e i mercati, cioè le banche stesse, lo sanno; e se ti chiedo 30, ti sto lasciando in mano 10, dopo che ti ho già regalato 50. Il calcolo è puramente economico, non c’è niente di morale o di immorale.
Sinistra istituzionale e movimento antagonista
Sul piano politico, quelle “misure necessarie” di cui si diceva impongono privazioni, tagli generalizzati, povertà e maggior sfruttamento, creando inevitabilmente malcontento e tensioni sociali. Per questo, sono importanti i richiami all’unità nazionale, alla solidarietà e alla coesione: per far sì che la classe lavoratrice – da cui in definitiva sarà estratto il nuovo valore che andrà a remunerare le banche – cooperi volontariamente alla realizzazione di questo processo. Senza un coinvolgimento del popolo, pacifico ed operoso, il rischio è che prevalgano le forze violente e antiistituzionali, gli incappucciati con le molotov, come in Grecia. Problema questo che non riguarda solo il governo, ma anche la sinistra istituzionale.
Perché, in effetti, con l’aggravarsi della crisi, cresce anche la distanza tra le diverse anime del movimento: da una parte, si sviluppa l’indignazione morale, si avviano iniziative informative e di denuncia, individuando la causa del problema nella frode, nei favoritismi, nell’ingiustizia della politica economica e nella scarsa coscienza e conoscenza dei cittadini; dall’altra, il capitalismo mostra le sue contraddizioni, cresce il conflitto, la rabbia, la violenza, l’alienazione dallo stato.
È con questo stato di cose che deve fare i conti la sinistra istituzionale, la quale, dopo essere stata espulsa dal Parlamento per volontà popolare, cerca ora di ricostruirsi attraverso i canali di movimento. Senza tuttavia capirne la logica e pretendendo invece di esserne la guida. Avendo abbandonato le proprie radici ideologiche e il proprio metodo di critica scientifica, i partiti di sinistra faticano infatti a trovare una collocazione politica tra quanti si oppongono al capitalismo. Perché l’anticapitalismo della sinistra istituzionale non si fonda affatto sulla critica scientifica di questo modo di produzione, ma sulla condanna morale dei fenomeni che esso genera. E il paradosso è che la stessa critica morale che si vorrebbe sviluppare incorpora proprio quei valori borghesi caratteristici di questo modo di produzione, i quali però sono presentati come assoluti e universali: la proprietà è sacra, ma solo se frutto del risparmio e del duro lavoro, mentre è illegittima se acquisita con l’imbroglio e con l’inganno; lo stato non risponde agli interessi delle classi dominanti, ma è il garante equo e imparziale dei cittadini, solo che ogni tanto sbaglia; i debiti si pagano, ma se sono ingiusti se ne ridiscute l’ammontare.
Questo moralismo tutto borghese, che idealizza il capitalismo e ne presenta le contraddizioni intrinseche come disfunzioni e degenerazioni da correggere puntualmente, non riguarda solo le ricette per rendere finalmente giusto questo sistema di sfruttamento, ma si applica anche alla legittimità delle diverse pratiche di lotta contro il capitalismo. Così, mentre il movimento matura, si radicalizza, cresce la coscienza politica e si precisano i rapporti di compatibilità e solidarietà tra i vari fronti di lotta, la sinistra istituzionale resta incastrata nei suoi schemi etici precostituiti, fatti di contrapposizioni tra violenti e non violenti, buoni e cattivi, indignati e black block.
Col risultato che, nelle istituzioni, la sinistra buona – quella critica ma responsabile, che non cerca la lotta di classe ma il bene comune– ritrova credibilità agli occhi del capitale (o almeno così crede) e, nelle piazze, le forze anti-istituzionali non devono più guardarsi solo dai robocop di professione, ma anche dai nuovi guardian angels di sinistra, che trattengono con la forza e consegnano alla polizia i compagni che ragionano e agiscono secondo una logica diversa dalla loro; dai nazipacifisti, che non tollerano che la loro protesta, gioiosa e colorata, sia rovinata da una minoranza tutta nera che si nasconde dietro il passamontagna; e dai delatori del giorno dopo, che credono che la lotta politica si faccia nei commissariati di polizia, di fronte alle foto segnaletiche dei più temibili teppisti.
Questa è la strategia di chi vorrebbe avere il suo posto in prima fila nel movimento. Tutti in coro: Noi la crisi non la paghiamo! No al debito odioso! Ma con calma, senza disordini, se no passiamo dalla parte del torto.
La politica come scontro tra tecnici buoni e cattivi
La politica dei buoni e dei cattivi non è ovviamente solo una questione di piazza. Il problema è generale. Perché, come dicevamo, è la politica istituzionale stessa che ha perso ogni connotazione di classe e alla sinistra con ambizioni parlamentari non rimane oggi che la pretesa di una morale superiore rispetto alle altre forze politiche. Prima almeno c’era Berlusconi, affarista per eccellenza, contro cui si potevano schierare uomini senza idee, ma dal volto onesto. Oggi invece c’è Monti, il tecnico cattivo inviato direttamente da Goldman Sachs. E la sinistra ha dunque bisogno di trovare rapidamente il suo tecnico buono, ancora una volta, dal volto onesto e senza idee.
Via dunque i tecnici di Goldman Sachs e largo ai tecnici del popolo (che già sgomitano per guadagnarsi il titolo di esperto morale di debito pubblico). I quali però, se questo è l’approccio, arriveranno necessariamente alla stessa conclusione dei tecnici cattivi: che, effettivamente, di quel debito di 100, 60 erano odiosi e quindi non vanno restituiti. E se per qualche ragione le stime dei due comitati tecnici divergeranno, non sarà difficile trovare una mediazione e magari da 60 si passerà a 65. Ma subito dopo, in nome della coesione sociale e del sistema-Italia, senza che Goldman Sachs abbia mai fatto la sua apparizione in modo esplicito nel dibattito politico, tutti al lavoro per pagare questi 40, o 35 che siano, e che nessuno più protesti.
I lavoratori si stringeranno spontaneamente la cinghia di un paio di buchi, compiaciuti di aver ottenuto, grazie alla “lotta” (dei loro tecnici), di non doversela stringere di quei tre buchi che avrebbero significato la loro fine. E forti di questo successo politico, torneranno ordinatamente al lavoro, a ritmi sempre più intensi, anzi, ai massimi ritmi tollerabili, quelli calcolati dagli uomini di Goldman Sachs quando hanno fissato a 40 l’ammontare del debito da pagare: perché ora il capitale quei 40 cui ha diritto li vuole senza indugi.
Finalmente la lotta di classe abbandona i luoghi di lavoro, le scuole e le piazze e si sviluppa comodamente nei salotti degli uomini che hanno studiato. Da una parte, i tecnici del capitale, scelti direttamente da Goldman Sachs; dall’altra, i tecnici del popolo, scelti per autoacclamazione da una sinistra che non esiste più. Perché nonostante le dichiarazioni formali in senso anticapitalista di uno dei dibattenti, l’obiettivo è lo stesso: rilanciare il processo di accumulazione (attraverso l’inasprimento dello sfruttamento), permettere alle banche di uscire dalla crisi di fiducia e solvibilità, ridare credibilità allo stato nei mercati finanziari (per poter ricominciare a prendere a prestito). Insomma, mantenere in piedi il sistema. Quello che non va nel capitalismo è che stritola i lavoratori. Attrezziamoci dunque affinché in futuro non li stritoli più, ma li sprema al punto giusto. Questo è il vero obiettivo della sinistra moralista e questo è anche il vero rischio del movimento no debito.
I dettagli tecnici della campagna istituzionale contro il debito
Il rischio che il movimento contro il debito assuma una connotazione conservatrice, stravolgendo dunque le motivazioni di molti militanti, può essere valutato a partire dalle contraddizioni che emergono non appena si esamini la proposta di audit nei suoi dettagli tecnici.
Tecnicamente, non è possibile stabilire quale parte del debito sia giusta e quale invece ingiusta: il debito non è altro che la somma dei deficit accumulati nel tempo e ogni deficit è il risultato di un eccesso di uscite sulle entrate in un determinato anno; sia le prime che le seconde comprendono tuttavia voci odiose e altre eticamente condivisibili. Si può quindi solo stabilire, a livello aggregato, la percentuale di debito odiosa, ma non quali titoli del debito son serviti a finanziare le singole voci di spesa odiose.
Con chi bisogna prendersela allora? Chi ha acquistato un titolo del debito pubblico nell’anno X non ha mica approvato e sottoscritto il bilancio pubblico dell’anno X. Ha solo prestato soldi allo stato, democratico e legittimo, che glieli chiedeva. Quei soldi servivano a colmare la differenza complessiva tra spesa pubblica e entrate fiscali e, anche volendo, non sarebbe stato possibile per un prestatore eticamente attento distinguere le voci di spesa statale a lui gradite. Su che basi si dovrebbe allora stabilire se un soggetto abbia veramente diritto alla restituzione di quanto avanzato? Esistono tre tipi di criteri:
1. CRITERIO DELLE USCITE. Non restituire i soldi a chi ha comprato i titoli del debito pubblico negli anni in cui lo stato ha speso i soldi in modo odioso e restituirli solo a chi ha comprato i titoli negli anni in cui lo stato spendeva in modo amabile, espandendo ad esempio la spesa sociale.
2. CRITERIO DELLE ENTRATE. Alcuni sostengono tuttavia che il debito pubblico italiano nasca da problemi di entrate insufficienti, piuttosto che di uscite eccessive. Si tratta di una posizione che assume probabilmente significato in campo filosofico o morale, ma che non ne ha nessuno in quello economico, visto che il saldo di bilancio è la differenza tra uscite ed entrate e non è dunque causato né dalle prime, né dalle seconde, ma appunto dalla loro differenza. Ad ogni modo, stando a questa posizione morale, i soggetti che dovrebbero perdere il diritto al rimborso sono quelli che hanno comprato titoli negli anni in cui il buco di bilancio è stato causato da sgravi fiscali ai ricchi, trattamenti di eccessivo sostegno ai profitti e alla rendita finanziaria o da politiche tolleranti nei confronti dell’evasione fiscale.
3. CRITERIO DELLE ENTRATE E DELLE USCITE. Per una questione di coerenza interna, si pone poi il problema di compatibilità di questi due criteri basati sull’analisi delle uscite e delle entrate, perché non è detto che i canoni morali adottati debbano condannarle o assolverle entrambe: cosa si dovrebbe fare in presenza di una spesa pubblica tutta a carattere sociale e di una pressione fiscale odiosa, a carico solo dei più poveri? Si devono pagare oppure no i corrispondenti titoli del debito pubblico?
Quale che sia il criterio adottato, l’audit – analitico e particolareggiato quanto si vuole – non potrà mai far ricadere il peso della ristrutturazione del debito sui diretti responsabili, semplicemente perché non c’è alcun legame tra la formazione della parte di debito odiosa e il soggetto che acquista i corrispondenti titoli del debito. Certo, nel momento in cui si stabilisce che una parte del debito non deve essere pagata, si può scegliere anche su chi far ricadere il peso di questo default controllato: persone fisiche o giuridiche, nazionali o estere, vecchiette con i Bot o hedge fund speculativi. Ma la questione diventa solo distributiva e per difendere la nonnina che non ce la fa con la pensione, forse ci sono argomenti politici (ma anche morali) più efficaci e che non richiedono un’analisi minuziosa dell’intera storia economica d’Italia.
La moralizzazione del debito pubblico
Se la critica moralistica del debito pubblico ha senz’altro il suo impatto tra chi crede che il problema del capitalismo sia di natura morale, nel passaggio ad un’eventuale fase attuativa dell’audit resta comunque il problema di giungere a criteri morali condivisi con cui valutare i libri contabili dello stato. Come si stabilisce in effetti quali spese sono veramente odiose?
Nel discorso politico, una prima interpretazione suggerisce di escludere la spesa sociale: scuole, ospedali, pensioni sono tutti interventi che vanno conservati. Per alcuni, in quanto diritti dei cittadini e doveri dello stato, ottenuti attraverso una storia di lotte sociali e conquiste economiche; secondo l’approccio moralistico, invece, in quanto desiderabili secondo particolari giudizi etici, presentati come unanimemente condivisibili. Accanto alla spesa sociale, la morale universale salva poi altre voci della spesa pubblica, poiché giudicate comunque a beneficio del cittadino. Viceversa, le spese per l’esercito, i regali al capitale, la nazionalizzazione delle imprese in perdita, le opere che devastano l’ambiente sono senz’altro odiose e devono quindi essere ripudiate. Anche in questo caso in nome di una pretesa morale universale, che non tiene conto della politica.
Il fatto ad esempio che, secondo la Costituzione repubblicana, le forze armate siano parte integrante dell’ordinamento dello stato o che si riconosca validità ai Patti lateranensi, che concedono ampi privilegi alla Chiesa, può forse indignare i militanti pacifisti e anticlericali, ma restano principi giuridici stabiliti per via politica ed è la lotta politica, non una commissione di audit, che può cambiarli.
Nel caso della Grecia, l’attivista francese Chesnais non esita ad esplicitare la superiorità della critica morale sulla storia politica:
La Costituzione del 1975 (la prima Costituzione dopo la dittatura dei colonnelli, ndr) comporta, nella sua stessa carta, l’esenzione fiscale per gli armatori greci, per le loro famiglie e per i loro associati. Un tale privilegio può essere considerato di per sé un elemento distintivo dei tratti del debito odioso.
(Chesnais, Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, Derive approdi, p. 116)
Che la Costituzione di ogni paese sia il risultato di processi storici e scontri politici diventa del tutto secondario. Quello che conta è la morale universale che determina il bene e il male, i buoni e i cattivi, il giusto e l’ingiusto. Come valori assoluti, non come prodotti della storia. Un po’ come le potenze imperialistiche esportano la propria civiltà a suon di bombe, le forze moralizzatrici vorrebbero esportare la loro morale con le commissioni di audit. Nessun bombardamento aereo contro l’asse del male, ma un comitato di giusti che riveda l’intero ordinamento degli stati immorali.
Debiti odiosi e debiti illegittimi
Nella proposta di audit, il movimento oscilla con disinvoltura tra due aggettivi per caratterizzare il debito che non va pagato: odioso e illegittimo. Il primo termine richiama immediatamente le questioni etiche: per le cose odiose ci si indigna.
L’insistenza sull’illegittimità serve invece a mostrare la via del cambiamento, che deve essere appunto rispettosa del diritto esistente.
Secondo molti queste due cose si completano a vicenda perché, in fondo, nel capitalismo, etica e diritto vanno a braccetto, solo che ogni tanto qualcuno imbroglia, il che è odioso e illegittimo. Secondo altri, le due cose invece si contrappongono: chi odia veramente il capitalismo lo fa perché si tratta di un sistema di sfruttamento legalizzato che, al pari dei sistemi di sfruttamento che l’hanno preceduto, pone il diritto al servizio della classe dominante per consentirgli appunto di sfruttare quella dominata. Non c’è bisogno di attendere la degenerazione, l’abuso o l’imbroglio per odiare il debito: basta odiare il capitalismo.
Quale che sia l’approccio al problema, debiti odiosi e illegittimi restano comunque cose distinte. Sul piano etico, possiamo condannare molte pratiche, ma avere ragione in sede legale è altra cosa. Non c’è voce di spesa su cui non sia possibile esprimere giudizi morali discordanti. Ma non tutto ciò che non ci piace è illegittimo.
Gli argomenti che convincono gli indignati non convincono necessariamente anche i giudici. Per quelli che insistono tanto sull’evasione fiscale, ad esempio, cosa dovremmo fare? Dire a un creditore internazionale che non gli ridiamo i soldi perché l’anno in cui ce li ha prestati, nel nostro paese, alcuni non hanno pagato le tasse? Veramente, le scuse dei tossici sono più divertenti. Se non vogliamo pagare, non paghiamo. Ma se pensiamo di procedere per vie legali, attrezziamoci meglio.
La verità è che, se anche si trovassero i giusti argomenti, la questione del diritto all’insolvenza accentua i problemi irrisolti della delega politica e fa inevitabilmente scivolare la lotta di massa in tecnicismi per esperti. Avvocati contro avvocati. Toghe e tribunali che, per alcuni, costituiscono la garanzia stessa della democrazia, ma che molti militanti vedono con sospetto, forse perché abituati a conoscerli dal lato sbagliato. Ma queste differenze diventano di fatto secondarie. Perché, in ogni caso, tutti, fiduciosi e scettici, non devono far altro che tornare a casa e aspettare il telegiornale, sperando di sentire che i loro avvocati sono stati più abili di quelli delle banche. Invece di lottare, faremo il tifo.
La questione legalistica allontana poi il dibattito dalle possibili risposte immediate, a livello nazionale, ponendo come unico scenario possibile quello di una soluzione internazionale. In un’economia globalizzata, infatti, il debito sta in gran parte all’estero. Per ripudiarlo si deve quindi guardare al diritto internazionale. La Costituzione, che in molti brandivano nelle piazze in difesa dei diritti fondamentali, lascia dunque il posto alla Carta dell’Onu, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ad altri accordi internazionali, peraltro sistematicamente violati dalle principali potenze capitalistiche, che però sanciscono nero su bianco i più alti valori morali del capitalismo ideale.
E in tutto questo nessuno sembra vedere che questo slittamento dal diritto nazionale a quello internazionale è, in realtà, il grimaldello attraverso cui il capitale viola la sovranità nazionale e schiaccia i popoli dei paesi più deboli. E già, perché anche l’Unione europea, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e le altre istituzioni del neoliberismo globalizzato sono fonti di diritto internazionale. E probabilmente, con gli accordi assurdi che i nostri stati legittimi hanno firmato, che concedono tutto il potere alle banche e alla finanza, se andiamo veramente in tribunale contro queste istituzioni, ne usciamo pure malconci.
Il ruolo istituzionale della commissione di audit
Un’ultima questione tecnica, anche se non proprio di dettaglio, riguarda il ruolo istituzionale che la commissione di audit dovrebbe avere. Perché in realtà di gruppi di lavoro che studiano attentamente il debito ce ne sono già molti: presso il Ministero dell’economia, la Banca d’Italia, nelle università e nei centri studi economici, pubblici e privati, per non parlare poi delle organizzazioni internazionali. Non c’è niente di rivoluzionario, né di progressista, nell’esaminare la formazione del debito pubblico. Anzi, sono proprio gli esperti del debito che in genere giungono alle conclusioni più severe sul piano della politica economica. Si pone allora la domanda: che differenza ci sarà tra la commissione voluta dal movimento e quelle che già esistono? E poi, una volta che la commissione di movimento avrà approfondito i bilanci e informato la popolazione, che impatto avrà tutto ciò sulla realtà economica?
Perché, delle due, l’una: o la commissione non conta niente e l’unico impatto reale sarà la pubblicazione di un altro libro sul debito pubblico e il lancio in politica di qualche militante della “base” di questo movimento; oppure invece, quella commissione avrà un vero ruolo istituzionale e le sue indicazioni saranno vincolanti o avranno almeno un certo peso. Allora però, se vale questa seconda ipotesi, il vero scontro riguarderà la formazione di questa commissione, investita di rivedere tutte le scelte economiche prese nel corso della storia d’Italia, indicando se convalidarle o ripudiarle, una ad una, sulla base dei giudizi morali che la commissione vorrà adottare.
Si pone dunque un problema di rappresentanza politica, che i richiami alla democrazia diretta e ai collettivi locali rimandano, ma non risolvono. Anche perché il problema delle forme di rappresentanza non è cosa che si affronta come appendice al problema del debito.
Piccoli passi e anticapitalismo
Consideriamo infine l’ultimo argomento, che non dipende da tecnicismi, né moralismi, ma che serve a giustificare la politica dei piccoli passi: tra pagare tutto e pagare in parte, dicono nel movimento, saremo almeno tutti d’accordo che è meglio pagare solo in parte!
Effettivamente, sì. Ma allora lasciamo perdere la morale e il diritto. Ridotta a questo, la questione è di semplice buon senso. Buon senso che però non contempla la vera ragione da cui nasce tutto il problema: l’ipotesi di non pagare niente.
Quest’ipotesi, scartata a priori dal movimento, è in realtà la vera preoccupazione dei creditori. Perché il dato economico da cui tutto parte è che i paesi indebitati non ce la fanno a pagare. Dopodiché, ciascuno ci arriva per la sua strada, ma la proposta del default controllato nasce come risposta al timore che gli stati cedano alle richieste dei popoli e smettano di pagare, non come tentativo di moralizzare l’economia.
Senza mistificazioni, diciamo allora le cose come stanno: cerchiamo di pagare il meno possibile perché è nel nostro interesse. Non è questione di bene comune, né di moralità o di legittimità. È solo un problema di rapporti di forza. Di più non possiamo ottenere? E allora autoriduciamoci il debito del 60%. E se invece, nel corso della lotta, siamo cresciuti e ci siamo rafforzati, allora pretendiamo un abbattimento del 70%. Ma, smettetela di parlarci di diritto e di morale. E soprattutto, quando ci costringono a pagare la restante parte, non diteci che è giusto e non chiedeteci di fare i bravi.
Perché noi in realtà non vogliamo pagare niente. Non vogliamo pagare i debiti contratti nel passato perché non vogliamo pagare nemmeno i profitti presenti e futuri.
Non vi riconosciamo il diritto al nostro pluslavoro futuro perché non vi riconosciamo il diritto ad alcun pluslavoro. Non è una questione di misura, né di tempo: non vogliamo essere sfruttati e basta.
E siccome il capitale, mentre sfrutta noi, mercifica tutto e si impossessa del pianeta, ci uniamo a tutti quelli che lottano contro il capitale da altre prospettive. La demercificazione, la soddisfazione dei bisogni della popolazione invece che la valorizzazione del capitale, può partire da qualsiasi settore: l’acqua, la sanità, l’ambiente, i trasporti, il lavoro. Dove il capitale trasforma in merci i rapporti sociali, la società si organizza e combatte il capitale. Se i percorsi di lotta si intrecciano è perché i problemi che i vari movimenti combattono hanno una causa comune: il sistema del capitale. Il movimento no debito ha quindi piena legittimità nello schieramento anticapitalista e, per molti militanti, questa è anzi la sua naturale collocazione politica.
La classe lavoratrice non è mai in debito
Il debito e il credito sono estensioni del diritto di proprietà nel tempo. Nel capitalismo, si sviluppano con l’ampliarsi dei rapporti di mercato e, al tempo stesso, costituiscono la leva del processo di accumulazione. Ma debito e credito, in quanto tali, non producono, né distruggono valore. Ridefiniscono soltanto i legittimi proprietari del valore presente e futuro.
Il valore lo producono i lavoratori. I quali però se ne appropriano solo in parte, perché, nel capitalismo, la restante parte spetta a chi anticipa il capitale. Non per appropriazione illecita, ma in forza di legge. Perché lo sviluppo del capitalismo richiede e impone trasformazioni anche giuridiche che garantiscano la proprietà privata e che rendano possibile la libera vendita della forza lavoro come strumento di valorizzazione del capitale.
Il credito, ovvero il diritto di appropriarsi dei frutti dello sfruttamento futuro, risponde alla medesima logica: non nasce da soggetti malvagi che manipolano l’informazione, ma dal fatto che il capitalismo è un sistema di sfruttamento basato sul mercato e, come tale, oltre a consentire (e rendere necessario) lo sfruttamento, consente di vendere i suoi frutti prima ancora che siano realizzati. L’interesse è appunto la parte di profitto che spetta alla banca. Ma credito e sfruttamento sono entrambi parti integranti del modo di produzione capitalistico: l’uno regola i rapporti interni al capitale (i rapporti tra interesse e profitto), l’altro quelli tra capitale e lavoro (i rapporti tra profitti e salari).
Non ha alcuna importanza il fatto che il lavoratore in genere non prenda a prestito un bel niente. Basta che sia lo stato a farlo per lui. Perché il debito pubblico alla fine è sempre il pluslavoro dei lavoratori che lo ripaga. La contabilità borghese può scrivere quello che vuole sui suoi registri: che il lavoratore è debitore e che la banca è creditrice; che lo stato è debitore perché i soldi che spende invece di stamparseli se li fa prestare a interesse; che, in virtù di questo, anche il lavoratore che non ha mai chiesto un euro in prestito deve pagare. Ma la realtà è che, ogni anno, sono dei lavoratori, non dei banchieri o dei capitalisti, che producono il valore che la società si spartisce. Il fatto che il loro debito possa aumentare non dipende dal loro consumo smodato, ma dalle leggi del capitale. Perché in questa società, fondata sullo sfruttamento, effettivamente, le leggi dell’economia e della borghesia stabiliscono che al banchiere spettava un po’ più. Da qui nasce il debito del lavoratore: da un sistema di regole che gli impone di cedere al capitale parte di quello che produce e che stabilisce che, se un anno ne cede una parte troppo piccola, l’anno dopo deve “compensare”, cedendone una più grande. Ma di fatto, anche quando le banche prestano generosamente i loro fondi, il reddito dei banchieri (e dei capitalisti) è comunque prodotto dai lavoratori: il banchiere mangia quello che il lavoratore produce e il lavoratore rimane senza un soldo in tasca e con un debito nei confronti del banchiere.
Ma dove stanno tutte queste cicale che avrebbero causato la crisi del debito? Forse nelle favole moralistiche di Esopo, ma non certo nelle fabbriche capitalistiche. Dove lo trovano il tempo per cantare i lavoratori? In fabbrica, nei call center, nei cantieri, non si canta, si lavora. Solo che a differenza delle formiche di Esopo, che poi si mangiano i frutti del lavoro accumulato, lasciando morire di fame l’oziosa cicala, i lavoratori quello che non consumano lo girano direttamente al capitale e a morire di fame sono loro stessi. Questo è il segreto dell’accumulazione capitalistica: pluslavoro e sfruttamento per chi lavora, profitti e interesse per chi controlla il capitale. E se non basta, debiti per i primi e crediti per i secondi.
In Italia, tolte le spese per il pagamento degli interessi, sono venti anni che le tasse superano la spesa pubblica (in termini tecnici, si dice che il “bilancio primario” – quello che non considera la spesa per interessi – è in attivo). Sono cioè venti anni che lo stato incassa dai contribuenti più di quanto spenda e che gira la differenza alle banche. Senza tuttavia far diminuire di un centesimo il debito, il quale, anzi, è aumentato, visto che spesso la spesa per interessi è stata maggiore del surplus primario. Il che significa che, pur sottraendo risorse ai cittadini per darle alle banche, alla fine dell’anno lo stato si trova più indebitato di prima. Le banche non sganciano un euro, anzi lo incassano, ma il loro credito aumenta perché secondo i sacri principi della proprietà privata quanto hanno ricevuto è di meno di quanto era stato loro promesso.
Questi non sono problemi morali, ma contraddizioni economiche. Il capitalismo è in crisi perché lo sfruttamento corrente non è più sufficiente a pagare i debiti passati.
Affrontare la questione del debito all’interno del capitalismo significa cercare una misura dello sfruttamento compatibile con le esigenze remunerative del capitale; significa aiutare il capitale a trovare le soluzioni che non trova da solo; significa razionalizzarne e legittimarne i meccanismi. Ma significa anche non vedere che, se nel capitalismo, i lavoratori e il popolo intero, sono in debito, il problema non possono essere né i lavoratori, né il popolo, né tanto meno il debito, ma il capitalismo.
Conclusioni
Nel capitalismo, la crisi economica non esplode quando la parte del prodotto sociale che spetta ai lavoratori non basta a soddisfare i loro bisogni. Ma quando la parte di cui si appropriano capitalisti e banchieri diventa insufficiente a saziare gli appetiti del capitale. Perché se il lavoratore fatica ad arrivare alla quarta settimana o muore il giorno in cui va in pensione il capitalismo gira bene lo stesso (anzi, gira ancora meglio); ma se il capitale non riceve la dovuta remunerazione, il banchiere non presta, il capitalista non investe e l’economia si intoppa.
Parimenti, il capitalismo non entra in crisi quando devasta il pianeta e assoggetta ogni aspetto della vita sociale, ma quando queste devastazioni e questo assoggettamento mettono a rischio il profitto. Perché nel sistema del capitale conta una sola cosa: la valorizzazione del capitale stesso. Questa è la contraddizione da cui nascono i movimenti che lottano per liberare la società dal capitale.
Le potenzialità e i rischi del movimento no debito dipendono dal rapporto che esso saprà stabilire con questi altri percorsi di lotta al capitalismo. In questo articolo, ho dunque sottoposto a critica la proposta di un audit cittadino sul debito pubblico, adottando espressamente una prospettiva anticapitalista. La critica generale che rivolgo alle forze istituzionali che sostengono il movimento riguarda la loro incapacità di collegare gli attuali problemi sociali alle contraddizioni economiche del capitalismo e il loro tentativo di affrontarli su basi solo morali. A partire da questa critica generale, ho discusso i principali limiti della concezione moralistica e i rischi cui incorre il movimento:
1. La critica morale si fonda sull’assunto che esista un’etica universale, unanimemente condivisibile. Il sistema morale adottato, anche se di rapporti di classe se ne parla poco, è quello della classe borghese, il quale viene tuttavia presentato come sistema morale universale. La critica morale non si sviluppa quindi come parte della lotta di classe – che porta ad uno scontro anche tra sistemi morali – ma fa propria l’ideologia borghese e, a partire da essa, si propone di moralizzare il capitalismo.
2. Posta in termini di diritto all’insolvenza, la campagna per l’audit rischia di indebolire la capacità del movimento di ottenere risultati attraverso la lotta delle masse e rafforza invece il principio della delega agli esperti tecnicolegali.
3. L’accettazione implicita e acritica dei valori borghesi ostacola, invece di unire, i percorsi di chi lotta contro il capitalismo e riproduce le divisioni, comode al capitale, tra buoni e cattivi, anche tra chi il capitale lo combatte.
Friedrich Engels replicava così ai moralizzatori della sua epoca:
Noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell’avvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi principi permanenti, che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli. Affermiamo per contro, che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo. E come la società si è mossa sinora sul piano degli antagonismi di classe, così la morale è stata sempre una morale di classe.
(Engels, Antidühring, Editori Riuniti, p. 100)
La critica morale non si fonda affatto sulle contraddizioni del capitalismo. Al contrario, fa apparire come errori e degenerazioni gli ordinari processi economici di questo modo di produzione, mantenendo dunque vivo il sogno di un capitalismo dal volto umano. I problemi della società, in una simile concezione, non sono frutto del suo assoggettamento al capitale, ma di fattori esterni: la finanza cattiva, la scarsa informazione, lo stato immorale.
Facendo coincidere la critica del capitalismo con l’indignazione morale piccoloborghese, la proposta di audit svuota di ogni contenuto rivoluzionario le rivendicazioni popolari contro le banche, contro i padroni, contro lo sfruttamento, contro il capitalismo. In questo processo mistificatorio, il rischio politico cui è esposto il movimento è di finire, sicuramente in modo involontario, per fare il gioco del mondo bancario. Perché, se abbandoniamo l’alta morale e torniamo coi piedi per terra, il problema molto concreto è questo: la proposta di un audit cittadino sembra proprio la sponda che cercava il mondo bancario per far passare la richiesta di un default controllato nei paesi più esposti.
Per molti militanti la battaglia sul debito significa una sola cosa: affermare la sovranità del popolo su quella del capitale. Per questo il ripudio del debito è parte di un percorso generale di attacco alla proprietà privata: oggi non pago i debiti, domani non pago il pane, dopodomani non pago la casa, le medicine, i trasporti, la scuola e alla fine non pago più niente, perché sono i lavoratori, non i capitalisti che producono la ricchezza del paese. L’esatto contrario di quanto vorrebbero le forze moralizzatrici della borghesia, per le quali il default controllato si inquadra nelle strategie di conservazione della proprietà privata: oggi non pago il debito così domani potrò pagare il pane, la casa e tutto il resto, compresa la parte rimanente di debito.
Per questo un confronto aperto sull’anticapitalismo e sui rapporti da sviluppare con gli altri movimenti è assolutamente necessario. Ma, sul piano teorico, questo può avvenire solo se si abbandona la morale borghese, che impedisce di ragionare su ogni altro mondo possibile. E su quello pratico, nessun cambiamento reale sarà possibile se non si esce dal legalismo dell’ordine capitalista. Perché chi l’anticapitalismo cerca di metterlo in pratica nelle lotte sociali, nei posti di lavoro, nelle scuole, nei territori, questo principio ce l’ha ben chiaro: il capitale è il nostro nemico, non perché è illegittimo, ma perché è la legge.
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